Il potere delle donne sensibili

Il potere delle donne sensibili. Le risorse dell’alta sensibilità per affrontare le sfide della vita è una delle nuove uscite della Red Edizioni.

Un libro che apre le porte al popolo femminile, così numeroso, denominato come PAS (persona altamente sensibile).

L’autrice, Francesca Santamaria Palombo, è una psicologa cognitivo-comportamentale che anche sui social sta affrontando una campagna di attenzione al fenomeno. Per la prima volta, o quasi, un tema simile entra non solo in libreria, ma anche nel feed di tante persone.

La Palombo, infatti, ha dato il via a una community, su Instagram, di donne di grande valore (@Psicobenesserealfemminile).

Il libro nasce dall’esperienza personale della psicologa e autrice. Tra le pagine racconta di sé fino a condurre le lettrici in un percorso di crescita e di consapevolezza.

La dottoressa Palumbo mette in luce le incredibili risorse delle persone altamente sensibili. Lei dice che il mondo femminile ha la “pelle sottile”, sente in profondità, tutto e sempre.

Ogni evento viene interiorizzato e potenziato dalle donne, a causa della loro vulnerabilità. Ma dietro c’è anche un superpotere.

L’iper sensibilità consente anche di godere più intensamente delle sfumature della vita e di regalarle agli altri.

L’autrice raccoglie le testimonianze delle sue pazienti e, grazie alla sua esperienza diretta e agli esercizi derivati da diversi approcci terapeutici (tra cui la mindfulness e l’ACT – Acceptance and Commitment Therapy), traccia un percorso che aiuta a eliminare i pensieri giudicanti.

La lettura di Il potere delle donne sensibili. Le risorse dell’alta sensibilità per affrontare le sfide della vita assolve dal senso di inadeguatezza, aiuta a canalizzare l’ansia e a sentirsi libera di seguire la propria natura.

Consigli e attività pratiche che compongono le pagine di questa lettura. Il risultato è un percorso intimo che insegna a proteggersi dallo stress, a combattere i propri nemici interiori, ad accettare le difficoltà della vita quotidiana e a trasformarle in sfide.

FRANCESCA SANTAMARIA PALOMBO è psicologa dello sviluppo, dell’educazione e del benessere e psicoterapeuta cognitivo comportamentale ad approccio integrato di terza onda. Nel 2018 ha aperto la pagina Instagram @psicobenesserealfemminile, a oggi seguita da oltre 27.000 donne interessate alla psicologia positiva, alla crescita personale e al benessere. Dal 2021 è inserita nella lista internazionale di HSP Comfort Zone con il titolo di Licensed Therapist HSP-knowledgeable.

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Poke Bowl, le Hawaii in una ciotola

Il Poke bowl, secondo quanto ci hanno detto e servito in questi ultimi anni, è una ricetta che prevede pesce tagliato in maniera trasversale (poke, pronuncia poh-kay), condito con sale marino, alghe marine e noci kukui. Il tutto accompagnato da riso e altri ingredienti da colori sgargianti che vanno, insieme al pesce, a riempiere questa enorme ciotola. Difatti, questo piatto ha subito molte influenze con il passare del tempo.

Le sue origini risalgono al 400 d.C., quando i polinesiani , attraverso il Pacifico, fino all’Hawaii. Inizialmente il poke altro non era che pesce crudo tagliato a cubetti e marinato, uno spuntino dei pescatori.  Con il tempo, tra gli ingredienti e i condimenti del poke, andarono aggiungendosi anche quelli tradizionali dell’oriente come la salsa di soia, le alghe marine, uova di pesce e tanti altri, questo grazie alle emigrazioni dal Giappone verso l’Arcipelago.

Il poke nasce come in realtà come piatto semplice, uno stuzzichino di pesce per riempire la pancia e nulla di più. Ma la cucina, si sa, stupisce sempre. Il poke altro non era ed è (secondo ricetta originale) che pesce marinato, accompagnato da verdure fermentate con spezie, kimchi, e nulla di più. Eppure, è diventato un piatto di fama mondiale, molto più ricco e divertente di prima.

Si, perché è negli anni ’70, secondo Rachel Lanudan (storica culinaria), che nasce Poke Bowl che conosciamo nelle Hawaii. Prima gli Stati Uniti continentali nel 2012, dove i ristoranti casual hanno sempre spiccato, poi l’Europa nel 2017.

Dove questo piatto si è fermato ha raccolto e assorbito ingredienti nuovi, culture nuove. Una delle caratteristiche di questo piatto che lo rendono unico, è il prestarsi con facilità ad accogliere al meglio ingredienti come dolce e salato, frutta e verdura. Tutto inserito in un piatto di pesce marinato e riso.

Tra gli ingredienti più diffusi troviamo mango, ananas, pesce come tonno, salmone o polpo, funghi, alghe, coriandolo e qualunque altra cosa possa effettivamente starci bene. Troviamo molte salse orientali come la teriyaki e la soia dal Giappone.

Ogni Paese ha saputo sfruttare le proprie risorse per dare al Poke Bowl il proprio tocco di sapori, andando a aprire ancora di più i confini della cucina e delle tradizioni.

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“EDIPO STRANGER”, la saga di Tebe in salsa ostiense.

Una voce radiofonica annuncia la pestilenza. Un disperato Creonte grida a gran voce il nome dell’indovino Tiresia. I due fratelli Eteocle e Polinice si giurano eterno odio di fronte alle porte cadmee. Uno stanco e anziano Edipo cerca asilo fuori dalla sua città. Da queste premesse nasce “Edipo Stranger“,  lo spettacolo che porta la firma del Maestro Alfonso Santagata frutto di un progetto formativo innovativo e multidisciplinare. Il progetto nasce dalla vittoria nel 2019 da parte dell’Associazione Affabulazione del bando “Ostia Comunità Creativa” del NUOVOIMAIE, il cui obiettivo finale era lo sviluppo di un progetto nella periferia romana. Quest’esperienza prevedeva, fin dalle origini, una stretta collaborazione tra un laboratorio musicale e uno di recitazione: tra orchestra e teatro più di 400 ore di formazione gratuita hanno coinvolto più di 30 ragazzi, che sono stati seguiti da preparatissimi formatori che hanno impartito loro lezioni di canto, musica, recitazione e movimento scenico. Inizialmente previsto per il weekend tra il 30 e il 31 ottobre 2020 e rinviato a causa dell’emanazione del DPCM del 24 ottobre, la messa in scena dello spettacolo è prevista per il 26 e il 27 giugno al Teatro del Lido. A cavallo tra “Edipo Re“; “Edipo a Colono“, “Sette contro Tebe” e “Antigone“, la saga dei Labdacidi rivive in una Ostia che sembra una Tebe dei nostri giorni o in una Tebe che sembra una versione antica di Ostia. E dunque la pestilenza che affligge Tebe diventa una proiezione antesignana della pandemia che abbiamo vissuto e la ricerca di ospitalità da parte del vecchio Edipo ci riporta alla mente il sempre attuale tema dell’accoglienza che tanto riempie i dibattiti politici, sociali e culturali. Ad accompagnare, o meglio a fondersi con le vicende messe in scena vi è l’elemento musicale (curato dal Maestro Pino Cangialosi), elemento indispensabile quando si parla di un teatro che si rifà all’esperienza greco antica. “Edipo Stranger“, che si terrà all’aperto per voluta scelta registica, si propone come uno spettacolo itinerante, che guida e conduce lo spettatore attraverso un percorso catartico pieno di simbolismi che hanno il sapore di un flusso di coscienza. La rielaborazione di Santagata non è una semplice modernizzazione del mito di Edipo e dei suoi, ma una rilettura raffinata e ingegnosa, che scova e mette in luce i significati più nascosti di questo mito che da millenni affascina e non smette di stupire. Mette in scena una storia che racconta di uomini, che parla di noi.

Edipo, nel tracciato classico di Sofocle, si è sempre mosso nella doppia tensione di trovare il padre e di curare la città. All’origine, il parricidio e la polis, si presentano come inscindibili. Questa storia e quel mito, con molte delle loro interpretazioni, vengono qui ripresi per la coda: l’omicidio è avvenuto ormai da tanto tempo ed è stato raccontato tante di quelle volte da essersi trasformato in un copione che è deragliato dai binari, una sorta di recita anche involontaria che ripetiamo di continuo. Ci resta solo la città d’affrontare: la città del male, in cui non vi è più spazio per l’ultraterreno, ma solo per il protagonismo umano. Con questo lavoro vogliamo spostarci dal conflitto degli uomini con gli Dei, a quello tra uomini, tra regole di vita, tra doveri diversi. Infatti, nel teatro di Sofocle ci sono contrasti che mettono in luce proprio le differenze tra due ideali: il tragico di Sofocle è strettamente legato all’umano, forse più che al rapporto dell’umano con il divino. Come nel finale dell’Edipo pasoliniano, il mondo arcaico viene lasciato alle rappresentazioni, alle rielaborazioni, alle messe in scena; nel mondo di oggi Edipo trova posto nei margini, nell’isolamento dell’esclusione, nell’angolo buio di una casa improvvisata sotto un ponte. Ormai gli “edipi” di oggi non si identificano più con il popolo, e il loro distacco li salva dalla malattia che pervade l’intera città. Qui tutti sono malati, contagiati, segnati… Se nel testo classico Edipo si proponeva: «Disperderò questa sozzura», oggi quella sozzura è l’unico luogo che resta da cui guardare un mondo contagiato e sofferente, al quale anche gli dèi si rifiutano di rispondere. Ormai Edipo non è più un problema. Né è più il capo espiatorio. È un naufrago. La cui cecità si è trasformata in vista: è l’unico che vede in una terra di ciechi.

Alfonso Santagata

EDIPO STRANGER
ideazione e regia Alfonso Santagata
aiuto regia Daria Panettieri
assistente alla regia Beatrice Burgo
musiche originali Pino Cangialosi
elementi scenografici Simone Perra
costumi Corinna Bologna

OSTIA COMUNITA’ CREATIVA
direzione Cristiano Petretto
docenti Cristiano Petretto
e Pino Cangialosi
in collaborazione con Viviana Mancini, Alfonso Santagata, Gabriella Aiello, Guido Corti, Alberto Roque, Gianluca Mascitti, Sandra Fabbri, Beatrice Burgo
Progetto realizzato con i fondi art. 7 L. 93/92 Bando Formazione NUOVOIMAIE

Ingresso gratuito – prenotazione obbligatoria su eventbrite

In ottemperanza alle disposizioni dei protocolli di sicurezza anticovid, l’accesso sarà possibile solo a un numero limitato di spettatori.

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Un mese a testa in giù: in viaggio tra Cile e Bolivia con Luca Nardi

S’intitola Un Mese a Testa in Giù il primo libro di Luca Nardi, disponibile nelle librerie fisiche e digitali e pubblicato da Libreria Geografica Geo4Map. Un travel book che unisce, appunto, la narrativa di viaggio all’esplorazione scientifico-culturale in territori ai confini del mondo. Parliamo dei deserti andini, tra Cile e Bolivia, che l’autore ha attraversato munito di zaino in spalla e molta voglia di avventura (guarda il booktrailer).

Nardi è un giovane astrofisico e divulgatore romano, che si occupa di creazione di contenuti e comunicazione scientifica tramite i suoi canali social e le riviste con cui collabora. In quest’intervista racconta al KIM come è nata la sua opera prima, insieme ai ricordi e alle emozioni di un viaggio indimenticabile.

Desierto Dalí (Bolivia sud-ovest)

Come è nata l’idea del libro?
Nel 2018 ho intrapreso, insieme alla mia compagna, un viaggio zaino in spalla per i deserti a cavallo tra Cile e Bolivia. Visitando quei luoghi incredibili mi sono reso conto di non riuscire a contenere il senso di meraviglia: era tutto fuori scala, tutto enorme, incredibile, tutto troppo bello per tenerlo per me. Avevo bisogno di condividerlo in qualche modo e così è nato Un Mese a Testa in Giù.

Perché lo definisci un travel book fuori dagli schemi?
Mi piace chiamarlo “libro-documentario”, perché cerca di unire la classica narrativa di viaggio a un’esplorazione culturale e scientifica di quei luoghi unici al mondo. In questo senso, quindi, non è solo un travel book, perché il racconto del viaggio è completato e compenetrato da una forte componente divulgativa. Sono abituato a parlare e scrivere di scienza, per me questa è stata una scelta naturale: penso che l’approfondimento culturale dia quel qualcosa in più che permette di apprezzare appieno luoghi, cose e culture, molto di più del fermarsi al semplice apprezzamento estetico ed emotivo (che comunque non può e non deve mancare).

Salar de Uyuni, nelle Ande a sud-ovest della Bolivia, è la più grande distesa salata al mondo

La scelta della meta?
L’Atacama occupa un posto speciale nel cuore di chiunque ami l’astronomia. È un luogo unico al mondo, con alcuni dei cieli più puliti del pianeta, bellissimi sia di notte che di giorno. È un posto in cui la sabbia e gli antichi reperti archeologici si mescolano ad alcune delle più avanzate tecnologie del mondo – quelle degli osservatori astronomici – e in cui la cultura è così profondamente diversa dalla nostra, in cui ci sono alcune bellezze naturali estreme come geyser e lagune a migliaia di metri di altitudine, distese immense di sabbia che si immergono nell’Oceano Pacifico e distese immense di sale che luccica al sole. Ci sono alcuni tra i vulcani attivi più alti del mondo, con la cima innevata che si staglia in mezzo a un deserto, c’è una fauna e una flora che non si può trovare da nessuna altra parte e che riesce a sopravvivere nonostante le condizioni proibitive. In realtà, fatico a pensare a ragioni per non sceglierla come meta.

Il luogo che ti ha colpito di più?
Sicuramente il Salar de Uyuni. C’è questo enorme deserto di sale vicino al confine tra Cile e Bolivia che dopo la stagione delle piogge resta allagato a lungo, come un gigantesco lago in cui l’acqua è immobile e cristallina. Ci siamo andati all’alba, con il rossore della luce solare che si specchiava nelle acque creando giochi di luce quasi magici. Quando ci ripenso lo ricordo come un sogno, come fossi stato stregato da un incantesimo. Non credo che esista qualcosa di simile altrove, non credo potrò mai assistere a qualcosa di più bello.

Laguna Escondida (Cile)

Cosa vuoi che arrivi al lettore?
Quando siamo bambini è tutto una scoperta, un meravigliarsi anche delle cose più semplici che diventano incredibili perché nuove. Quando cresciamo diventa tutto più complicato e spesso, relegati nella quotidianità, tendiamo a perdere questa capacità di meravigliarci di ciò che ci circonda. Quindi il messaggio sotteso da tutto il racconto voleva essere questo, qualcosa che forse volevo ricordare anche a me stesso: il mondo è bellissimo e dimenticare il valore della scoperta e dell’esplorazione non gli rende giustizia.

Un ricordo di viaggio?
Il primo incontro con l’Oceano Pacifico è stato indimenticabile. Ci trovavamo a Valparaíso, la capitale culturale cilena, un luogo in cui la bellezza è caos ed esplosione di colori. Camminando nel suo porto, tra murales, musica di strada e poesia, ci siamo avvicinati per la prima volta alle onde dell’Oceano. Per me che ho visto sempre e solo il placido Mediterraneo, è stata un’esperienza unica, il sentire queste onde fragorose che si schiantavano sugli scogli riempiendoci di schizzi gelidi, mentre nel cielo volavano avvoltoi collorosso e sull’acqua ondeggiavano sia le barchette dei pescatori che le navi della marina militare. Non che le navi fossero particolarmente belle, ma era il contrasto con tutto il resto a renderle affascinanti. Forse è proprio questa una delle parole chiave dei luoghi in cui siamo stati: contrasto. Contrasto tra deserto e vita, tra bellezza straripante e pericolo delle catastrofi naturali (terremoti, tsunami e vulcani: non c’è un luogo veramente sicuro da quelle parti), tra un caldo soffocante durante il giorno e un freddo pungente durante la notte, tra le antiche culture precolombiane e come queste siano in qualche modo sopravvissute ai popoli conquistatori.

Laguna blanca (Bolivia)

È la tua opera d’esordio: nella prossima cosa ti piacerebbe raccontare?
Ho fin troppe idee in proposito, ma penso che il prossimo libro che scriverò sarà qualcosa di più puramente scientifico e astronomico, che è poi quello di cui mi occupo nella mia vita quotidiana con l’attività di comunicazione scientifica online. Però chi può dirlo? In fondo non avevo previsto di scrivere Un Mese a Testa in Giù, è stata una scelta dettata dall’esperienza fatta e ancora non posso sapere quali avventure mi riserva il futuro.

Cerro Quitor (Cile)

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“TOTA ITALIA – Alle origini di una nazione”

Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua”, con queste parole Ottaviano Augusto ricordava nelle sue Res Gestae l’unificazione amministrativa, sociale e culturale della penisola italiana. E alle Scuderie del Quirinale, dopo la lunga pausa causata dalla pandemia, è stata allestita una mostra che illustra il processo, che fu a lungo anche scontro, che dal IV a.C. fino al I secolo d.C. giunse alla prima grande unificazione della terra chiamata Italia.

Lungo un percorso coerente ed unitario, è possibile ammirare nella stessa sede espositiva le opere più significative di quella varietà espressiva che concorse alla formazione dell’Italia augustea e dell’Impero. Oltre 400 reperti esemplari, quali statue, elementi di arredo e produzioni ceramiche testimoniano il complesso dialogo tra Roma e il resto della Penisola.

Nella prima parte della mostra, come ribadito da Massimo Osanna, alcune delle più rappresentative testimonianze archeologiche delle culture proprie delle genti italiche illustrano la grande varietà dei modi di vivere e di esprimersi, di costruire e di abitare, di onorare i morti e di venerare le divinità diffusi nella Penisola prima della cosiddetta romanizzazione romana; in primo piano, dunque, gli aspetti sociali, culturali e artistici caratterizzanti la variegata composizione etnica della Penisola.

Nella seconda parte del percorso espositivo, le marcate differenze tra i popoli tendono a sfumare gradualmente ed emergono con forza i tratti comuni e distintivi di quella Tota Italia che, dopo la guerra sociale e, definitivamente, al tempo di Augusto, riconobbe sé stessa come nazione unica e centro del mondo mediterraneo.

Tra le opere più celebri in mostra spiccano i marmi di Ascoli Satriano, corredo principesco proveniente da una tomba dauna d’età ellenistica, in cui spicca il variopinto Trapezophoros, sostegno da mensa raffigurante due grifoni che sbranano una cerva; il celeberrimo Pugile a riposo, bronzo d’età ellenistica la cui realizzazione è legata al nome di Lisippo di Sicione, uno dei più noti scultori greci e ritrattista personale di Alessandro Magno; e ancora la Triade Capitolina dell’Inviolata, gruppo marmoreo d’età antonina che rappresenta Minerva, Giove e Giunone, le tre divinità che dalla sommità del Campidoglio proteggevano Roma e il suo impero. Ma anche la Cista Ficoroni, la Tabula Cortonensis, il corredo della Tomba dei due Guerrieri, l’Ercole Curino a riposo, le Lastre Campana e molti altri capolavori rendono “Tota Italia” una mostra imperdibile.

Alle Scuderie del Quirinale, come ha ricordato il Ministro della Cultura Dario Franceschini la cultura riparte con uno sguardo introspettivo, capace di indagare, attraverso il nostro patrimonio, le radici più profonde della nostra identità.

SERVIZIO E MONTAGGIO DI MICHELE PORCARO
RIPRESE DI ALTHEA VOLPE

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Le vittime silenziose della pandemia

Oltre i morti, altre vittime, vittime silenziose della pandemia. Nella fase dell’impegno per l’uscita dall’emergenza pandemica e la rinascita del Paese, con le vaccinazioni e le riaperture, si staglia una riflessione su dei dati raccolti negli ultimi mesi che fotografano una situazione critica: sono aumentati tra gli adolescenti i casi di autolesionismo, anoressia, depressione, disturbi alimentari e dipendenze; in estremo, anche di suicidio.

Escalation di malessere

Molti gli allarmi lanciati da pedagogisti, sociologi, psicologi, neuropsichiatri infantili sull’escalation di malessere e di urgenze cliniche che riguardano bambini e ragazzi. Tra i fattori scatenanti: il lockdown, la chiusura delle scuole, la sospensione delle attività sportive, sociali e ricreative, la convivenza forzata in famiglia, l’isolamento sociale, la paura del contagio, l’incremento delle ore passate davanti al PC o allo smartphone. Viene riferita una esplosione di accessi in Pronto Soccorso, di gesti autolesivi, di suicidi, di ricoveri in neuropsichiatria infantile, in pediatria, in psichiatria, di richieste di prime visite ai servizi territoriali. Diversi indicatori di salute mentale dei giovanissimi sono in calo da almeno 15 anni e parallelamente le richieste di aiuto ai servizi pubblici e privati sono andate crescendo esponenzialmente.

Si stanno osservando, da Ottobre 2020 ad oggi, fenomeni che è ancora difficile inquadrare in una epidemiologia strutturata ma che si presentano in modo abbastanza coerente in tutta Italia e che devono destare molta attenzione:

  1. l’aumento delle richieste di aiuto in tutte le età infanto-giovanili;
  2. la trasversalità a condizioni di disabilità fisiche e intellettive, di psicopatologia della infanzia e dell’adolescenza e di neuropsicologia dell’apprendimento;
  3. il maggiore ricorso a interventi di Pronto Soccorso e di ricovero per problemi psicopatologici o comportamentali, in particolare questo aumento appare legato ad età precoci, dai 10 ai 12 anni;
  4. maggiori richieste di collaborazioni da parte del sistema della scuola e dei servizi sociali degli Enti Locali.

Per i bambini con disabilità e disturbi dell’apprendimento si assiste ad una regressione rispetto ai livelli raggiunti e ad una divaricazione dei livelli di performance accademica tra alunni digitalizzati e con risorse adeguate ed alunni svantaggiati sotto vari profili, incluso quello linguistico-culturale.

Dal punto di vista psicopatologico troviamo sindromi ansiose nei più piccoli (8-12 anni) espresse soprattutto attraverso la sfera somatica (mal di pancia, mal di testa, aumento o perdita di peso, incubi, enuresi) e sindromi psichiatriche e comportamentali complesse negli adolescenti: ritiro domestico tipo “hikikomori”, autolesionismo, accentuazione di sintomi ossessivi, aggravamento dei disturbi del comportamento alimentare, disturbi del pensiero.

Anoressia e disturbi alimentari

Nell’ultimo anno i casi di disturbi alimentari sono aumentati in media del 30% rispetto all’anno precedente con un abbassamento della fascia di età (13-16 anni) e un incremento delle diagnosi soprattutto di anoressia nervosa. Secondo i dati più recenti del Ministero della Salute in Italia sono circa 3 milioni i giovani che soffrono di DNA di cui il 95,9% sono donne e il 4,1% uomini. Questi disturbi, se non riconosciuti in tempo e non curati in modo appropriato possono diventare cronici e nel peggiore dei casi portare alla morte.

Le maggiori aree sulle quali intervenire per aiutare gli adolescenti, con la speranza di veder calare i numeri, sono senza dubbio le famiglie e soprattutto la scuola. Ma non in modo superficiale.
E allora se questo è il quadro della situazione, quali indicazioni possiamo trarre per il futuro immediato, prossimo e remoto? La situazione di crisi nella crisi che stiamo vivendo è una opportunità per rimettere al centro dell’agenda sociale il tema dei giovani e contestualizzarlo in una cultura della promozione della salute e della responsabilità, ripensando le strategie istituzionali complessive e quelle specifiche dei servizi sanitari.

Il bunker del Bambin Gesù 

L’intero edificio è in un angolo del Bambin Gesù di Roma, quasi nascosto nel punto più lontano dall’ingresso principale di piazza Sant’Onofrio. Il bunker corrisponde al reparto “degenza di Neuropsichiatria”. 8 posti letto dedicati ai minori da 0 a 18 anni, una struttura quasi unica in Italia, che in questo lungo anno di pandemia è diventata quasi un simbolo di quello che sta accadendo. 

Mobili e suppellettili, compresi i letti, ancorati a terra, per evitare che vengano lanciati. Le porte sono tagliate in un modo tale da rendere impossibile l’incastro delle lenzuola nei due angoli alti. In ogni locale una telecamera, sempre accesa. I sanitari sono di acciaio e non di ceramica, i soffioni della doccia sono incassati nel soffitto. Nella sala comune, la televisione non ha cavi esposti. Ai pazienti viene tolto il cellulare, e tutto quello che rappresenta un rischio per la loro incolumità.

Il bunker è un mondo pensato e realizzato per controllare il rischio che i ragazzi possano fare del male a sé stessi e agli altri. È il posto della terapia d’urto, dove si entra quando vacilla anche la speranza. Esiste dal 2003. Negli ultimi 18 anni, salvo casi rarissimi, gli otto posti letto non erano mai stati occupati tutti insieme. Dallo scorso ottobre, non c’è più stato un posto libero. Sono casi estremi: un’adolescente che si è tagliuzzata gli arti con una lametta da rasoio, una bambina che ha tentato il suicidio perché il padre minacciava di portarle via il telefonino, un suo coetaneo che ha ucciso il gatto di casa promettendo la stessa sorte alla madre. 

E poi le ragazze anoressiche: non ce ne sono mai state più di quattro per volta, ora sono una decina. Per la prima volta è stato necessario ricoverarle in pediatria. I medici che lavorano nel Pronto Soccorso del Bambin Gesù raccontano di non avere mai visto una tale massa di giovani pazienti psichiatrici, una media di quasi cinque ingressi al giorno quasi tutti connessi ad atti di autolesionismo, e una ventina di visite ambulatoriali. 

Prima e dopo la pandemia

Il Covid ha accelerato qualcosa che stava già avvenendo sotto i nostri occhi. Nel 2011, i ricoveri di adolescenti che avevano tentato il suicidio erano stati undici. Nel 2012, il doppio. Ma certo, nel 2020 si è raggiunta l’esorbitante quota di 310, e durante i primi mesi del 2021 siamo già arrivati a 150. 

Il primo lockdown della nostra vita è stato il più duro di tutti gli altri che sono venuti dopo. Ma al bunker quello che va da marzo a luglio del 2020 è stato invece l’ultimo periodo di relativa tranquillità. Non esistono studi che dimostrano chissà quale teoria al riguardo. Come possibile spiegazione ci sono solo le parole dei medici, la loro esperienza sul campo. Durante l’unico confinamento totale che ci è toccato in sorte, i genitori erano rinchiusi con i figli. E c’era anche una consapevolezza diffusa dell’eccezionalità del momento. Poi a partire da ottobre, madri e padri sono usciti per tornare al lavoro. I figli sono rimasti a casa. Immersi in un’alienazione che diventava normalità, condizione permanente. Alle prese con fragilità vecchie e nuove.

Cosa deve cambiare? Fare di più per i giovani

Il Prof. Stefano Vicari, dal 2007 responsabile del reparto, ha raccontato in un’intervista di pochi giorni fa: «Non si parla mai di quel che sta avvenendo ai nostri ragazzi. Fingere di accorgersene solo ora, per poi tornare a ignorare un problema enorme non appena finirà il lockdown, è due volte ipocrita. Durante quest’ultimo anno e mezzo né io né i miei colleghi siamo mai stati contattati dalle autorità di governo. Abbiamo scritto a Giuseppe Conte prima, a Mario Draghi poi. Silenzio assoluto. Sanno che esiste questo male tra gli adolescenti, quindi perché non ci sediamo a un tavolo per discuterne?».

Il Bambin Gesù, così come i pochi ospedali italiani davvero attrezzati per la tutela della salute mentale degli adolescenti, cosa ben diversa dalla pura pediatria, è un’eccellenza, ma anche un’isola. In Italia, ci sono appena 92 posti letto dedicati dalla Sanità pubblica alla neuropsichiatria per minori, quasi tutti distribuiti tra Milano e Roma. La Regione Marche ne ha due. La Campania, quattro. Umbria e Calabria, zero.

Qualcosa deve cambiare, soprattutto perché si tratta dei ragazzi, dei giovani, degli adolescenti, i cittadini del futuro.

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L’amore delle donne palestinesi al World Press Photo

Una donna stanca, nel cui sguardo si legge tutta la forza ostinata di chi non può né vuole arrendersi. Poi due, tre, dieci, venti donne come lei. Sono le madri che il fotografo romano Antonio Faccilongo, poco più di quarant’anni, ha incontrato nel corso dei suoi viaggi in Palestina e raccontato nel reportage Habibi, in arabo “amore”, tra speranze, attese e dolore. Lavoro che recentemente gli è valso il prestigioso World Press Photo, come “Story of the Year”, ed il primo premio nella categoria dedicata ai progetti a lungo termine.

Nablus, Palestina: Remah Bauod con sua figlia Racha (© Antonio Faccilongo, Habibi, Getty Reportage)

Nel corso di quest’intervista, Faccilongo – che nella sua carriera si è occupato di documentare le conseguenze del conflitto tra Israele e Palestina nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania – ci spiega come è nato il suo progetto, dedicato alla vita delle famiglie e delle mogli di detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, che ricorrono alla fecondazione in vitro per dare alla luce i propri figli. Parla anche dei progetti in corso: uno incentrato sull’ambiente e lo sfruttamento delle foreste; un altro, ancora una volta, sul tema della maternità, con la mortalità perinatale che nel periodo della pandemia Covid-19 è tragicamente aumentata in varie parti del mondo.

Quando sei stato in Palestina per la prima volta?
Nel 2008 e mentre atterravo a Tel Aviv è scoppiata la prima guerra dopo la seconda Intifada, chiamata Operation Cast Lead (Operazione Piombo Fuso). Ho passato lì circa un mese: un periodo in cui ho visto scene molto forti, che mi hanno colpito e convinto di quanto fosse importante documentare la sofferenza del popolo palestinese. Sono poi tornato a casa, continuando a seguire ciò che succedeva e, tra le cose varie cose lette, c’era un’informazione che parlava di un largo numero di uomini arrestati in un campo profughi. Mi sono chiesto come sarebbero andate avanti le loro famiglie, sia da un punto di vista economico, dato che solitamente a svolgere lavori retribuiti sono gli uomini, sia da un punto di vista emotivo. Dal 2010 ho quindi iniziato a seguire storie che parlavano del vissuto delle famiglie palestinesi: racconti più piccoli rispetto all’immensità della guerra, ma che fanno capire cosa significhi vivere in quei luoghi. E nel 2014 il collega fotografo Pietro Masturzo mi ha contattato per sottoporre alla mia attenzione una storia, riguardante la modalità grazie alla quale stavano nascendo alcuni bambini.

Gaza, Palestina: Un bambino nato da fecondazione in vitro in un incubatore (© Antonio Faccilongo, Habibi, Getty Reportage)

Come è nata l’idea di Habibi?
Dopo le feste di Natale, a gennaio 2015 sono tornato in Palestina e ho iniziato a raccontare quella storia: bambini che nascevano tramite inseminazione in vitro. Inizialmente non è stato facile, c’era tanta diffidenza dovuta al fatto che ero un uomo occidentale, fisicamente diverso dagli uomini del posto. Le donne temevano, tra l’altro, le opinioni del vicinato. Ho intuito che bisognava conquistare la loro fiducia, facendo capire le buone intenzioni del mio lavoro. In quei posti passano ogni giorno moltissime persone, la gente è abituata a un’interazione più rapida con la stampa locale, di un’ora o al massimo un paio d’ore. Fanno un video, scattano una foto e se ne vanno. Io invece mi recavo da quelle famiglie quotidianamente, per dire che ero interessato alle loro vicende. Un giorno scattavo un ritratto, per rompere il ghiaccio, poi tornavo per chiedere di documentare quello che gli stava accadendo, e per dire che avrei passato del tempo con loro. È stato difficile.

In che modo sei riuscito a ottenere la fiducia delle famiglie?
Dopo aver capito quali erano le donne che erano ricorse all’inseminazione in vitro, rivolgendomi all’associazione Prisoners’ Club che si occupa di assistere le famiglie dei detenuti, economicamente e legalmente, facendo addirittura da tramite per quelli che non hanno diritto alle visite, sono entrato in contatto con le prime. La lista iniziale conteneva una decina di nomi, a cui man mano se ne sono aggiunti altri dieci. Da alcune ho ottenuto subito fiducia, da altre invece no. Allora ho realizzato che era necessario conquistare la fiducia di uno dei membri adulti della famiglia, il fratello del detenuto o quello della moglie. Questo mi ha consentito di diventare confidente della famiglia Rimawi, con cui ho instaurato un rapporto più profondo. La moglie si chiama Lydia, il marito Abdul Karim ed è stato condannato a una pena abbastanza lunga (ndr. per il coinvolgimento nell’omicidio del ministro del turismo israeliano nel 2001). Non ad un ergastolo, perciò tra qualche anno tornerà a casa.

Il primo incontro con Lydia?
L’ho conosciuta condividendo un viaggio, il giorno della visita in carcere, insieme a un gruppo di donne con cui mi aveva messo in contatto la Croce Rossa Internazionale. Si tratta di viaggi lunghissimi che possono arrivare a durare ventiquattro ore, tra andata e ritorno, per fare magari 15 km di strada. Avevo chiesto la possibilità di documentare il tragitto, ma non ho avuto modo di farlo interamente in territorio israeliano. Tuttavia, ho potuto condividere con loro il viaggio tra Ramallah e il confine. Lydia era con suo figlio e ho scattato delle fotografie. Vedere lei da sola con il bambino in braccio, in un territorio così difficile, mentre affrontava un viaggio faticoso, con diversi controlli, per far visita a suo marito… L’immagine che ho scattato voleva dimostrare quanto lei fosse fragile e, allo stesso tempo, forte. Quanto quell’abbraccio fosse protettivo verso il suo bambino. La guardavo e mi sono emozionato, ho sentito nascere un affetto nei suoi confronti. Dopo ho pensato che mi sarebbe piaciuto continuare a documentare la sua vita e quella del bimbo.

Beit Rima, Palestina: Lydia Rimawi (© Antonio Faccilongo, Habibi, Getty Reportage)

È stato semplice interagire con lei?
Probabilmente stanchi di alcune attenzioni che la stampa aveva dato loro e che erano state abbandonate, Lydia e il marito non volevano incontrare più nessun giornalista. Quando gli ho chiesto di vederci per la seconda volta, con l’obiettivo di spiegare meglio il mio progetto, mi ha rifiutato. Le emozioni che avevo sentito e quella scena di dolcezza e protezione a cui avevo assistito mi hanno però spinto a insistere. Ho utilizzato un interprete, un mediatore che conosceva la cultura locale e il limite giusto da non superare. Lei ha continuato a ringraziarmi e a dirmi che non voleva vedere più nessuno. Majd era il secondo bambino nato tramite fecondazione in vitro, oltretutto nella West Bank. Per conquistare la fiducia di Lydia ho cercato di entrare in contatto col fratello Mazen e gli ho fatto capire la bontà di quello che stavo facendo. Stavo investendo soldi miei per realizzare il reportage, non avevo fini di comunicazione o profitto. Dopo tre giorni di caffè e sigarette, è nata un’amicizia. Così ho avuto modo di costruire un rapporto con Lydia, e da quel momento sono diventato un membro della loro famiglia.

In che rapporti siete ora?
Li sento tutti i giorni e li tengo aggiornati sul progetto. Sono state le prime persone che ho contattato per il World Press Photo. Sono riuscito ad essere la voce che ha permesso loro di non sentirsi dimenticati. Questo è molto importante secondo me. Interagendo con le famiglie palestinesi, infatti, ho avuto la sensazione che il loro pensiero sia che il mondo voglia un po’ lavarsene le mani, che lo sguardo della gente sia rivolto verso altri luoghi, dove ci sono più interessi geopolitici ed economici. È di conseguenza fondamentale per loro avere la sensazione di non essere ignorati e mantenere viva la speranza.

In che momento della tua vita hai deciso di diventare un fotografo?
È stata un’idea graduale, anche se la fotografia ha sempre fatto parte della mia vita. Ciò che mi ha più avvicinato a questo lavoro, intorno ai venticinque anni, è stata la consapevolezza che il viaggio e l’avventura, le mie più grandi passioni, potessero coincidere con la fotografia. L’anno successivo ho deciso di iniziare un percorso di studi, essendo fino a quel momento un autodidatta. Volevo di più per me, pur non potendomi permettere i corsi che alcune scuole all’epoca proponevano. Pertanto ho seguito vari corsi di formazione e nel frattempo lavoravo per pagarmi gli studi e le prime attrezzature. Ho fatto l’assistente fotografo ai matrimoni; sapevo che non era quello che volevo davvero e che, in realtà, desideravo fare il fotoreporter, ma era un modo per iniziare. Senza conoscere nessuno, successivamente mi sono buttato nella cronaca locale. Non sapevo come fare, come vendere e a chi mandare le foto che scattavo. Le inviavo a tutte le agenzie italiane e un giorno una di queste mi ha proposto una collaborazione. Ho lavorato poi per il Messaggero, un’esperienza che mi ha insegnato a prevedere cosa sta per succedere, a cogliere l’attimo prima di uno scatto in contesti complicati con molti fotografi, reporter, giornalisti. E alla fine, ho deciso di lanciarmi nei reportage internazionali.

Tulkarem, Palestina: Amma Elian e i suoi gemelli (© Antonio Faccilongo, Habibi, Getty Reportage)

A cosa stai lavorando?
Ho due progetti in corso. Uno è sullo sfruttamento e sulla conservazione delle foreste, un lavoro delicato che non finirò in tempi brevi, poiché vanno individuate le situazioni giuste che permettano di far comprendere al meglio il contenuto. Parallelamente ho ricevuto da National Geographic una sovvenzione per portare avanti un progetto che riguarda in parte la pandemia. Ovvero la mortalità perinatale, quella di bambini durante gli ultimi mesi di gestazione. Creature che le madri devono comunque partorire. L’obiettivo è documentare il problema, cercando di prevenirlo, anche perché con la pandemia è aumentato il numero dei casi. Non per colpa del virus, bensì per via delle conseguenze dovute allo stress. Sto dunque lavorando con psicologi,  un’associazione non governativa e alcuni ospedali italiani.

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Le uova alla Benedict, un simbolo del brunch internazionale

Un uovo in camicia, un muffin inglese, una salsa olandese, pancetta canadese, ma piatto naturalizzato statunitense. Quella che può sembrare l’inizio di una barzelletta, altro non sono che le uova alla Benedict. Un piatto ricco e gustoso, ottimo per iniziare la giornata o per il brunch, il pasto di metà mattina tipico di Gran Bretagna e dell’America del Nord.

Eppure, sebbene la semplicità del piatto, altrettanto semplice non è la sua storia. Nessuno sa con certezza chi abbia inventato questo piatto, o come si sia trasformato nel tempo. Ma di sicuro la quantità di storie che gli girano intorno non mancano.

La prima vede come protagonisti, secondo l’Encyclopedia Larousse della cucina, i frati benedettini. Le uova, secondo quanto scritto, non erano molto consumate nei monasteri, perché erano ritenute troppo costose e di lusso. I frati le mangiavano solo durante le feste, erano un dono dei contadini e venivano cucinate in camicia e messe sopra una fetta di pane raffermo.

La seconda storia si ambienta a New York, nel 1860, presso il ristorante Delmonico’s, dove si dice siano state servite per la prima volta dallo chef Charles Ranhofer, prendendo il nome da Mr e Mrs Le Grand Benedict (clienti affezionati) il quale pubblicò la ricetta nel 1894.

Questa storia venne messa in dubbio da Edward P. Montgomery il quale rivendicò la preparazione, nel 1967, di ‘una miscela di prosciutto e uova sode calde’ con salsa olandese, da servire al commodoro Elias C. Benedict. La ricetta gli venne data dallo zio, conoscente di Benedict. La lettera di Montgomery venne pubblicata dal giornalista Craig Claiborne sul New York Times.

Si dice anche che nel 18942 Lamuel Benedict, agente di borsa, ordinò, presso l’Hotel Waldorf, delle uova in camicia, toast, pancetta e salsa olandese per curare i postumi di una sbornia e sentito il piatto che aveva ordinato, il maître Oscar Tschirky, rielaborò il piatto utilizzando il muffin inglese al posto del toast.

Infine, come ultima storia, vede protagonisti Mr & Mrs Benedict di Edimburgo, i quali rivendicarono la ricetta attraverso un avvocato e facendo risalire la ricetta al 1794.

Una vera gatta da pelare resta la loro origine, ma siamo sicuri di una cosa. Le eggs Benedict sono oggi famose in tutto il mondo proprio come gli ingredienti che le compongono, la salsa olandese, in realtà francese dal nome sauce hollandaise (burro caldo, uovo, sale, pepe e limone), la pancetta canadese, croccante e sfiziosa, il muffin inglese e infine l’uovo in camicia, elegante e morbido al palato. Da New York alla Scozia, per passare poi in Québec. Insomma, un vero monito ad imparare a mangiare internazionale.

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Il ramen, dalla Cina al Giappone verso il mondo intero

Il ramen è da sempre uno dei piatti più amati della cucina giapponese. Una zuppa formata da un corposo brodo di carne o pesce e insaporita con salsa di soia o miso, ed altri ingredienti come il kamaboko (fettine di pesce azzurro), maiale, alghe marine, senza dimenticare i fantastici noodles.

Questo piatto presenta mille sfaccettature. Infatti, può essere personalizzato a proprio piacimento. Vediamo, però, in questo caso i tipi di ramen che possiamo degustare:

Lo shōyu. Un brodo a base di salsa di soia, dal colore chiaro, e contiene carne, verdura, pepe nero, germogli di bambù, kamaboko e cipolle verdi.

Lo shio. Un brodo chiaro di colore giallo con il sale. Base classica, quindi carne (pollo) o pesce, verdure, alghe marine e in alcuni casi ossa di maiale (bollite per non molto tempo). A questa base vanno aggiungendosi prugne e kamaboko.

Il miso. Nato ad Hokkaido, il brodo di carne o pesce viene arricchito con miso, il risultato della fermentazione della soia con olio (fungo), sale riso ed orzo. Rende il brodo molto denso e con un sapore dolciastro.

Il tonkotsu. Un brodo molto cremoso, risultato di una lunga bollitura di un brodo di ossa di maiale (tonkotsu), collagene e grasso.

Il ramen, tuttavia, non risulta avere origine nipponica, bensì cinese. Sono due le storie legate alla nascita di questo piatto.

La prima vede l’approdo di Shu Shunsui, uno studioso cinese della dinastia Ming, in Giappone nel XVII secolo come rifugiato. Passato del tempo, divenne conigliere del signore feudale Tokugawa Mitsukuni. Tokugawa, ad inizio pasto, consumava spesso una zuppa con udon alla quale, sotto consiglio di Shu, vennero aggiunte carne e verdura. Ma questa pare non sia la vera motivazione. Infatti, come ipotesi più accreditata, c’è quello che è alla base della cucina, il viaggio e lo spostamento dei popoli. A metà ‘800, il Giappone aprì i suoi porti i quali furono crocevia di merci, ma anche di tradizioni culinarie. Il laa-mein fu un fortunato incontro. Una zuppa di spaghetti cinesi, molto simile al ramen, si dice sia la vera antenata della più famosa zuppa d’oriente conosciuta al mondo.

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Non solo Zaki, le storie di Ahmed Samir e di Sanaa Seif

Dopo un anno e 2 mesi di detenzione, la Corte d’Assise del Cairo ha prolungato di altri 45 giorni la reclusione di Patrick Zaki, respingendo inoltre la richiesta, da parte degli avvocati del giovane, di cambiare giudici.

Durante l’ultimo incontro con i familiari, il ragazzo è apparso molto provato dalla detenzione, sebbene avesse ringraziato tutti coloro che lo stanno sostenendo ed avesse dato alla fidanzata una copia del libro “Cent’anni di solitudine”, con al suo interno la scritta: “Sto ancora resistendo, grazie a tutti per il vostro sostegno”.

Il 14 aprile il Senato, con 208 voti a favore, nessun contrario e 33 astenuti, ha approvato l’atto di indirizzo per riconoscere la cittadinanza italiana a Zaki.
Tra i favorevoli in aula vi era anche la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta dell’Olocausto, che ha così commentato la sua presenza: «Ho fatto questo viaggio perché ci sono delle occasioni in cui uno deve vincere le forze che non sono sempre brillantissime. Ricordo cosa sono i giorni passati dentro la cella, quando non si sa se preferire la porta chiusa o che si apra e qualcuno entri e ti faccia o ti dica qualcosa che ti possa far soffrire ancora di più. C’è qualcosa nella storia di Patrick Zaki che prende in modo particolare, ed è ricordare quando un innocente è in prigione. Questo l’ho provato anch’io e sarò sempre presente, almeno spiritualmente, quando si parla di libertà».

La triste vicenda di Patrick Zaki, ripetutasi più e più volte in Egitto, è molto simile alle storie di Ahmed Samir e di Sanaa Seif.

Ahmed Samir, ricercatore e studente di Antropologia in Erasmus presso l’Università centrale europea di Vienna, come Zaki, è stato arrestato e torturato al suo rientro in Egitto, a febbraio, per aver criticato su Facebook le autorità egiziane. Durante l’ultima udienza è stato reso noto che il giovane ventinovenne è indagato anche per terrorismo.

Sanaa Seif, sorella di Alaa Abdelfattah, difensore dei diritti umani e prigioniero di coscienza, è stata rapita a giugno e condannata, a marzo, ad un anno e mezzo di carcere con le accuse, anche questa volta false, di diffusione di fake news, incitamento al terrorismo ed uso improprio dei social.

Visto il modus operandi da parte dell’Egitto nei confronti di attivisti, sostenitori dei diritti umani e di coloro che si mostrano contrari ad alcune direttive del governo, sarebbe opportuno che l’Italia considerasse di interrompere i rapporti con il governo repressivo di Al-Sisi, con il quale continua invece ad avere rapporti commerciali ed in particolare di vendita di armi.

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