Oltre i morti, altre vittime, vittime silenziose della pandemia. Nella fase dell’impegno per l’uscita dall’emergenza pandemica e la rinascita del Paese, con le vaccinazioni e le riaperture, si staglia una riflessione su dei dati raccolti negli ultimi mesi che fotografano una situazione critica: sono aumentati tra gli adolescenti i casi di autolesionismo, anoressia, depressione, disturbi alimentari e dipendenze; in estremo, anche di suicidio.
Escalation di malessere
Molti gli allarmi lanciati da pedagogisti, sociologi, psicologi, neuropsichiatri infantili sull’escalation di malessere e di urgenze cliniche che riguardano bambini e ragazzi. Tra i fattori scatenanti: il lockdown, la chiusura delle scuole, la sospensione delle attività sportive, sociali e ricreative, la convivenza forzata in famiglia, l’isolamento sociale, la paura del contagio, l’incremento delle ore passate davanti al PC o allo smartphone. Viene riferita una esplosione di accessi in Pronto Soccorso, di gesti autolesivi, di suicidi, di ricoveri in neuropsichiatria infantile, in pediatria, in psichiatria, di richieste di prime visite ai servizi territoriali. Diversi indicatori di salute mentale dei giovanissimi sono in calo da almeno 15 anni e parallelamente le richieste di aiuto ai servizi pubblici e privati sono andate crescendo esponenzialmente.
Si stanno osservando, da Ottobre 2020 ad oggi, fenomeni che è ancora difficile inquadrare in una epidemiologia strutturata ma che si presentano in modo abbastanza coerente in tutta Italia e che devono destare molta attenzione:
- l’aumento delle richieste di aiuto in tutte le età infanto-giovanili;
- la trasversalità a condizioni di disabilità fisiche e intellettive, di psicopatologia della infanzia e dell’adolescenza e di neuropsicologia dell’apprendimento;
- il maggiore ricorso a interventi di Pronto Soccorso e di ricovero per problemi psicopatologici o comportamentali, in particolare questo aumento appare legato ad età precoci, dai 10 ai 12 anni;
- maggiori richieste di collaborazioni da parte del sistema della scuola e dei servizi sociali degli Enti Locali.
Per i bambini con disabilità e disturbi dell’apprendimento si assiste ad una regressione rispetto ai livelli raggiunti e ad una divaricazione dei livelli di performance accademica tra alunni digitalizzati e con risorse adeguate ed alunni svantaggiati sotto vari profili, incluso quello linguistico-culturale.
Dal punto di vista psicopatologico troviamo sindromi ansiose nei più piccoli (8-12 anni) espresse soprattutto attraverso la sfera somatica (mal di pancia, mal di testa, aumento o perdita di peso, incubi, enuresi) e sindromi psichiatriche e comportamentali complesse negli adolescenti: ritiro domestico tipo “hikikomori”, autolesionismo, accentuazione di sintomi ossessivi, aggravamento dei disturbi del comportamento alimentare, disturbi del pensiero.
Anoressia e disturbi alimentari
Nell’ultimo anno i casi di disturbi alimentari sono aumentati in media del 30% rispetto all’anno precedente con un abbassamento della fascia di età (13-16 anni) e un incremento delle diagnosi soprattutto di anoressia nervosa. Secondo i dati più recenti del Ministero della Salute in Italia sono circa 3 milioni i giovani che soffrono di DNA di cui il 95,9% sono donne e il 4,1% uomini. Questi disturbi, se non riconosciuti in tempo e non curati in modo appropriato possono diventare cronici e nel peggiore dei casi portare alla morte.
Le maggiori aree sulle quali intervenire per aiutare gli adolescenti, con la speranza di veder calare i numeri, sono senza dubbio le famiglie e soprattutto la scuola. Ma non in modo superficiale.
E allora se questo è il quadro della situazione, quali indicazioni possiamo trarre per il futuro immediato, prossimo e remoto? La situazione di crisi nella crisi che stiamo vivendo è una opportunità per rimettere al centro dell’agenda sociale il tema dei giovani e contestualizzarlo in una cultura della promozione della salute e della responsabilità, ripensando le strategie istituzionali complessive e quelle specifiche dei servizi sanitari.
Il bunker del Bambin Gesù
L’intero edificio è in un angolo del Bambin Gesù di Roma, quasi nascosto nel punto più lontano dall’ingresso principale di piazza Sant’Onofrio. Il bunker corrisponde al reparto “degenza di Neuropsichiatria”. 8 posti letto dedicati ai minori da 0 a 18 anni, una struttura quasi unica in Italia, che in questo lungo anno di pandemia è diventata quasi un simbolo di quello che sta accadendo.
Mobili e suppellettili, compresi i letti, ancorati a terra, per evitare che vengano lanciati. Le porte sono tagliate in un modo tale da rendere impossibile l’incastro delle lenzuola nei due angoli alti. In ogni locale una telecamera, sempre accesa. I sanitari sono di acciaio e non di ceramica, i soffioni della doccia sono incassati nel soffitto. Nella sala comune, la televisione non ha cavi esposti. Ai pazienti viene tolto il cellulare, e tutto quello che rappresenta un rischio per la loro incolumità.
Il bunker è un mondo pensato e realizzato per controllare il rischio che i ragazzi possano fare del male a sé stessi e agli altri. È il posto della terapia d’urto, dove si entra quando vacilla anche la speranza. Esiste dal 2003. Negli ultimi 18 anni, salvo casi rarissimi, gli otto posti letto non erano mai stati occupati tutti insieme. Dallo scorso ottobre, non c’è più stato un posto libero. Sono casi estremi: un’adolescente che si è tagliuzzata gli arti con una lametta da rasoio, una bambina che ha tentato il suicidio perché il padre minacciava di portarle via il telefonino, un suo coetaneo che ha ucciso il gatto di casa promettendo la stessa sorte alla madre.
E poi le ragazze anoressiche: non ce ne sono mai state più di quattro per volta, ora sono una decina. Per la prima volta è stato necessario ricoverarle in pediatria. I medici che lavorano nel Pronto Soccorso del Bambin Gesù raccontano di non avere mai visto una tale massa di giovani pazienti psichiatrici, una media di quasi cinque ingressi al giorno quasi tutti connessi ad atti di autolesionismo, e una ventina di visite ambulatoriali.
Prima e dopo la pandemia
Il Covid ha accelerato qualcosa che stava già avvenendo sotto i nostri occhi. Nel 2011, i ricoveri di adolescenti che avevano tentato il suicidio erano stati undici. Nel 2012, il doppio. Ma certo, nel 2020 si è raggiunta l’esorbitante quota di 310, e durante i primi mesi del 2021 siamo già arrivati a 150.
Il primo lockdown della nostra vita è stato il più duro di tutti gli altri che sono venuti dopo. Ma al bunker quello che va da marzo a luglio del 2020 è stato invece l’ultimo periodo di relativa tranquillità. Non esistono studi che dimostrano chissà quale teoria al riguardo. Come possibile spiegazione ci sono solo le parole dei medici, la loro esperienza sul campo. Durante l’unico confinamento totale che ci è toccato in sorte, i genitori erano rinchiusi con i figli. E c’era anche una consapevolezza diffusa dell’eccezionalità del momento. Poi a partire da ottobre, madri e padri sono usciti per tornare al lavoro. I figli sono rimasti a casa. Immersi in un’alienazione che diventava normalità, condizione permanente. Alle prese con fragilità vecchie e nuove.
Cosa deve cambiare? Fare di più per i giovani
Il Prof. Stefano Vicari, dal 2007 responsabile del reparto, ha raccontato in un’intervista di pochi giorni fa: «Non si parla mai di quel che sta avvenendo ai nostri ragazzi. Fingere di accorgersene solo ora, per poi tornare a ignorare un problema enorme non appena finirà il lockdown, è due volte ipocrita. Durante quest’ultimo anno e mezzo né io né i miei colleghi siamo mai stati contattati dalle autorità di governo. Abbiamo scritto a Giuseppe Conte prima, a Mario Draghi poi. Silenzio assoluto. Sanno che esiste questo male tra gli adolescenti, quindi perché non ci sediamo a un tavolo per discuterne?».
Il Bambin Gesù, così come i pochi ospedali italiani davvero attrezzati per la tutela della salute mentale degli adolescenti, cosa ben diversa dalla pura pediatria, è un’eccellenza, ma anche un’isola. In Italia, ci sono appena 92 posti letto dedicati dalla Sanità pubblica alla neuropsichiatria per minori, quasi tutti distribuiti tra Milano e Roma. La Regione Marche ne ha due. La Campania, quattro. Umbria e Calabria, zero.
Qualcosa deve cambiare, soprattutto perché si tratta dei ragazzi, dei giovani, degli adolescenti, i cittadini del futuro.
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