Cronache dal futuro. São Tomé, dove il Covid-19 non è mai arrivato

15 agosto 2021

Dall’alto si vedono le isole vulcaniche, come smeraldi verdi, incastonati in un blu cobalto. È l’Arcipelago di Sao Tomè e Principe, Repubblica democratica indipendente dal 1975. Venti isole a largo del Golfo di Guinea, nell’Oceano Atlantico, a 250 km dalla costa africana del Gabon. Ex colonia portoghese scoperta il 21 dicembre 1471, data della commemorazione di San Tommaso, l’Apostolo. Quello che non credeva se non toccava con mano. Per questo sono venuto qui, per verificare, 18 mesi dopo l’inizio della pandemia (febbraio 2020) com’è la vita su queste isole che non hanno mai, dico mai, conosciuto il contagio del virus, toccato invece a 200 paesi in tutto il Mondo. Stiamo per arrivare in Paradiso, con il vantaggio di essere vivi e sani. Questo farebbe sicuramente piacere a San Tommaso. La Ilhéu das Rosas, l’isola più a sud, si trova esattamente sulla linea dell’Equatore, dove i due emisferi settentrionale e meridionale si dividono.  Due km più a nord c’è l’isola più importante dell’arcipelago, quella di São Tomè (859 km²), dove sto atterrando con un volo TAP, proveniente da Lisbona, dopo 8 ore. Le formalità burocratiche non sono lunghissime, perché c’è poca gente e nonostante la loro bellezza, il turismo di massa non ha ancora scoperto queste isole. Meglio venire con un Visto di tre mesi, richiedendolo al consolato. Io l’ho chiesto all’aeroporto, con 50 dollari e ho fatto prima. Il permesso di soggiorno tuttavia è sempre di 30 giorni. Espletati i controlli usuali posso recuperare il mio bagaglio e uscire. Il taxi copre in pochi minuti i 6 km che ci separano dalla città. Un profumo intenso di caffè entra dai finestrini aperti. Le coste e la zona nord sono ricche di coltivazioni di caffè, cacao, copra e palma. La copra è la polpa secca del cocco. Il 30% dell’isola è protetta dal Parco Nazionale di Obo, dove si possono ammirare cascate e laghetti. Non so se è una fortuna o un problema ma nelle acque circostanti sono stati individuati, da vent’anni, importanti giacimenti di petrolio.

Il colonialismo portoghese ha lasciato ferite e miseria

Il cono del vulcano si alza fino a 2024 metri sul livello del mare. Il clima tropicale, oscilla tra i 24 e i 28°C, porta frequenti piogge che rendono fertili terre ricche di minerali. Tuttavia delle foreste tropicali ne restano poche, molto del verde che si vede dall’alto è quello delle coltivazioni: banane, caffè, cacao in particolare. Assieme alle Seychelles questo è il più piccolo stato africano, retto da un presidente “abbastanza” democraticamente eletto. Nell’isola si parlano due idiomi ufficiali: portoghese e francese, più tre dialetti derivati dal portoghese, il forro, angolar e principense. Quando c’erano i portoghesi funzionavano gli ospedali e le scuole, c’era lavoro e la vita scorreva ordinatamente. Solo che era un lavoro “forzato”, dall’alba al tramonto. Le punizioni prevedevano torture e finanche la morte del colpevole. Con l’indipendenza i portoghesi, in poco tempo, sono scappati e gli abitanti hanno dovuto gestire quello che facevano altri. La prima cosa fu il crollo delle produzioni di cacao e caffè. Le piantagioni vennero abbandonate e così molti immobili, rimasero vuoti. Per questo c’è stato anche chi ha rimpianto l’epoca del colonialismo, che ha lasciato solo cicatrici e miseria. La storia dell’arcipelago ricalca così quelle di altri stati coloniali, delle cui tracce oggi restano le differenti etnie che lo popolano. Discendenti degli schiavi angolani, meticci, mulatti, bianchi di origine portoghese e francese e un po’ di asiatici portati qui dalla colonia di Macao. La religione cattolica è la più seguita (82%), poi c’è una piccola percentuale di Cristiani Evangelici e Avventisti. Questo paese sappiamo che è uno dei pochi ancora non contagiato dal Covid-19. È una vera rarità, visto che il virus, grazie all’uomo, è riuscito a toccare ogni angolo del Pianeta.

Non si sa quanti siano in realtà gli Stati rimasti immuni a Covid 19

Anche se il dr. Stefano Montanari, in Italia, continua a sostenere che non si muore di Corona Virus ma di altre malattie che, in persone anziane soprattutto, hanno abbassato le difese immunitarie. Si muore anche per terapie inadeguate. Tuttavia noi, che non siamo medici, non sappiamo chi abbia ragione. Stiamo ai dati ufficiali e osserviamo. Visto che a morire non sono stati solo gli anziani già debilitati ma anche medici, infermieri e giovani, in tutto il mondo, non solo in Italia. Ci sono stati che non si sa se dichiarino il vero o il falso, come Corea del Nord, Yemen, Sud Sudan. Difficile pensare che siano rimasti immuni, perché circondati da altri che hanno dovuto fare seriamente i conti con la pandemia. Piano piano sono caduti sotto i colpi insistenti di Covid, che viaggia con l’uomo sugli aerei, sulle navi da crociera, sugli yacht privati, gli elicotteri, le navi cargo che trasportano merci nei container e marinai infetti.  Forse si sono salvati quelli difficilmente raggiungibili. I paesi isolati tra le catene montuose asiatiche, come il Tagikistan, che non ha sbocchi al mare o il Turkmenistan. Sono in molti a pensare invece che il virus sia entrato anche in questi paesi ma che le misure preventive comunque adottate dai governi, sull’igiene e le distanze da rispettare, abbiano contenuto la pandemia a pochi casi controllabili facilmente. Comunque non lo sapremo mai. Sappiamo invece delle difficoltà a reperire generi alimentari e di forti aumenti dei prezzi. Probabilmente si sta facendo sentire la crisi economica dei paesi limitrofi. Questo è l’effetto più grave della pandemia, lascia profonde ferite nei corpi dei contagiati anche quando guariscono (altro che semplice influenza!), ma soprattutto incide nel tessuto sociale, cambiando i nostri modi di vivere, di relazionarci, di produrre.

Prima di partire meglio vaccinarsi a una serie di malattie storiche

La mia base è il City Center Hotel. Una struttura semplice che offre il minimo indispensabile dei servizi. Non eccelle in niente se non nel caffè che portano ogni mattina in camera. C’è il Wi-Fi, la tv, l’aria condizionata, un ristorante, un bar e una terrazza. Niente più. Ma va bene così per 30 dollari a notte. Fuori dell’albergo vedo un gruppo di studenti intenti a usare il proprio cellulare. Sfruttano il Wi-Fi gratuito dell’hotel. Prima di partire mi sono vaccinato contro febbre gialla, tetano, poliomielite, febbre tifoide ed epatiti A e B. Vi eravate dimenticati di questi pericoli? Pensavate bastasse il vaccino contro il Covid 19? La mia dotazione di esperto viaggiatore del Tropico prevede anche un repellente contro le zanzare e un analgesico post punture. Sono molto sensibile alla puntura della terribile anofele e in camera ho fatto mettere un “mosquetero”, una rete protettiva sul letto. Prendo una 4×4 a noleggio per muovermi in autonomia. Basta mostrare una carta di credito e la patente internazionale. Non dovrebbero esserci problemi per la sicurezza perché queste isole non hanno la criminalità cui siamo abituati nelle grandi metropoli. Certo se ostenti il Rolex e lasci la borsa in auto, dei rischi li corri, ma li hai cercati. Per fortuna siamo nella stagione secca “la gravana” e non dovrei affrontare troppi temporali, soprattutto la loro veemenza. In genere durano pochi minuti e torna a splendere un sole più caldo di prima. Anche i raggi del sole, che battono a 90° possono essere un problema. Una buona protezione solare è sufficiente, se non si vuole usare un cappello e una camicia.

City Center Hotel

Un’economia di sopravvivenza per un popolo dignitoso

La Capitale è stata definita una piccola L’Habana. Ci vivono circa 60.000 persone, su 195.000 abitanti dell’intero Arcipelago. Un trasformatore di corrente, che si alimenta a gasolio, produce l’energia elettrica necessaria per l’isola. Non sono rari i salti di energia, per guasti o per mancanza di carburante. Cartacce si confondono per terra con le foglie, l’immondizia ristagna lungo i canali di scolo. L’approssimativo accanto al curato. Siamo tornati agli anni ’50: strade sterrate, buche, pozze, case dai colori vivaci in stile coloniale, fiori sui davanzali e nei giardini, baracche, panni stesi, mura scrostate, bambini che corrono pericolosamente lungo il ciglio sterrato della strada. Spazi curati si alternano a prati incolti e lotti in vendita. Un’economia di sopravvivenza per un popolo dignitoso. La gente ama stare per strada anziché in casa. Se c’è un mandorlo, sotto ci sono donne sedute a conversare, gli uomini sono al bar. A volte s’improvvisa una festa, basta una chitarra, un tambor, una fisarmonica e ci si muove ritmicamente, muovendo i fianchi con passi stretti, uomini e donne, felici. I balli popolari sono stati tuttavia sopravanzati dai vari kizomba e reggaeton che furoreggiano in spiaggia la notte. Si trova di tutto, vecchio e malandato, ma di tutto. Al Mercato Nuovo di Sao Tomè, un gande capannone in muratura, i banchi offrono quintali di freschissima frutta tropicale: papaya, ananas, jacas, carambolas, cocco, frutto della passione, meloni, angurie, banane, limoni, mangas, maracuias. Le verdure sono appetitose: pomodori, melanzane, olio di palma, patate, platani, cavolfiori, broccoli opulenti, insalate, fagiolini, spinaci, cipolle, aglio, prezzemolo, basilico. Poi mucchi di cereali, colline colorate di spezie, carni di pollo, maiale e manzo appese. I pesci freschissimi nelle tinozze di plastica oppure affumicati.

Al mercato popolare si comprano, a poco, gli aiuti al Terzo Mondo dell’Occidente

Sono gli abitanti delle isole che pescano, allevano, coltivano e poi vendono nel mercato, nei negozietti, vendono agli hotel, dove loro stessi lavorano come donne delle pulizie, camerieri, cuochi, operai, muratori. Accanto il mercato tessile, con abiti di seconda mano, donazioni europee (aiuti al Terzo Mondo!) trasformate in balle da commerciare nei mercati popolari. Montagne di scarpe, t-shirt, pantaloni, vestiti da donna, reggiseni, cappelli. A mucchi sui banchi, per terra, sotto il sole. Con 25.000/50.000 dobra compri una giacca, un vestito, una camicia. La “nuova dobra” (Db), dal 1° gennaio 2018, è la moneta corrente (1€ = 24.500 dobra). Dobra viene da “dobrado”, cioè doppio. Era un’antica moneta portoghese. Qui in città c’è l’ospedale, l’aeroporto internazionale, la sede della stazione radiotelevisiva, dove si vive una strisciante guerra fredda tra americani e cinesi di cui, a breve, vi racconterò. Un meraviglioso forte in stile portoghese, Sao Sebastião, si trova sul mare. Dentro un piccolo museo in 5 stanze per raccontare la storia di queste isole. Senza il turismo l’arcipelago morirebbe, per questo si spera in un incremento di viaggiatori, che nel 2019 non arrivavano a 13.000. Ovviamente nessuno usa mascherine, guanti e nessuno ha mai rispettato le distanze. Qui siamo nel pre-Covid 19, ma ben attenti nel non caderci dentro. Più che al contagio io sto attento a non bere l’acqua del rubinetto, né accettare il ghiaccio nel bicchiere, né a mangiare l’insalata.  Sbuccio tutta la frutta. Mi fido solo dell’hotel. Rientro per gustare un Molho no Fogo, preparato dallo chef del ristorante. Tipico piatto locale a base di verdure varie a pezzetti, bollite in acqua, con aggiunta di olio di palma, ocra, peperoncino e pesce affumicato.

Le ONG internazionali promuovono progetti di solidarietà

Tutti i bianchi hanno l’assicurazione sanitaria in Europa. Un conto in banca che abbia al minimo 3.000 €, per ogni evenienza sanitaria. L’approvvigionamento di medicinali è saltuario. Se ne hai bisogno meglio portarli dall’Europa. Poter contare su una piccola farmacia personale può salvarti la vita. Questi i consigli di Gabriel Martinez, 54 anni, de La Coruña, uno degli spagnoli che vivono qui. Ha sempre lavorato in progetti di solidarietà, vivendo in 54 paesi nel mondo. Un giorno chissà, tornerà in Spagna o forse in un altro paese, con la sua compagna, che adesso lavora in una comunità in Haiti. Gabriel si occupa di pesca con i locali, con un progetto di solidarietà. La ONG ha comprato le lance per affrontare l’oceano e i pescatori ci mettono la manodopera, istruiti da Gabriel. L’unico mezzo per restare in contatto è il cellulare, sempre che abbia la copertura. La sua esperienza coi pescatori è molto gratificante perché li aiuta a diventare autonomi professionalmente e a ricavare dalla vendita del pescato, quello che serve per vivere, per le proprie famiglie. Solo che l’accesso limitato alla elettricità e i continui “apagones” (interruzioni) impediscono per esempio di conservare gli alimenti in tranquillità, salvo mettendoli sotto sale o affumicandoli. Questo però poi causa malattie cardiovascolari. È uno dei maggiori problemi del paese, quello di queste infermità. Mancano i medici specialistici. Le ONG cercano di sopperire al problema ma avere professionisti medici non sarà facile, neanche tra coloro che vanno a studiare all’estero. Una volta laureati, ai giovani non conviene tornare a São Tomè, per 300 € al mese.

L’Isola di Principe è un gioiello per vacanze eco-sostenibili

L’isola di Principe dista 150 km. È più piccola (solo 136 kmq) e caratterizzata ad un turismo amante della natura selvaggia e dell’ambiente pulito. Pochi sono gli stranieri residenti. Si contano sulle dita di una mano. Iolanda Macias, 27 anni, di Ayamonte (Huelva) in Spagna è una di loro. Venne qui per lavorare in una ONG e le piacque il posto. Ora accompagna turisti alla scoperta di questo luogo magico. Le spiagge da sogno e incontaminate sono bagnate da acque cristalline, ideali per chi ama lo snorkeling. Anche a Principe la temperatura non scende sotto i 22° d’inverno. Villaggi di poche case, per lo più abitati da pescatori/contadini, che vivono di prodotti naturali, un’economia povera ma che ti permette di sopravvivere, in un paradiso naturale, circondato dalla bellezza dell’isola tropicale, con una vegetazione rigogliosa e a contatto con la natura e il mare. Mi porta dal signor Fernando, un contadino, per assaggiare una piña (ananas) fresca tagliata sul posto. Poi Iolanda mi chiede se ho mai assaggiato il vino di palma. “Claro que no!” le rispondo. Allora Fernando si arrampica sulla palma come un gatto, usando dei fili di ferro per agganciarsi al tronco. Una volta in cima pratica una incisione nella parte superiore della corona della palma da olio e con un contenitore di plastica raccoglie la linfa. Quindi la lascia fermentare all’ombra e la conserva in zucche vuote, al fresco, perché non si decomponga. È un liquido biancastro, denso, con bassa gradazione alcolica (3%) che se bevuto in abbondanza dà un leggero stordimento, utile nelle feste popolari. Iolanda mi mostra casa sua, tutta in legno, come una palafitta, per evitare l’umidità e le inondazioni, sempre possibili, nel periodo delle piogge. Una delle poche case con la cucina e il bagno all’interno. Arredata con i mobili regalati dagli amici che se ne sono andati, o ritornati, in Europa.

Tra chi investe nel cacao e nel caffè anche gli Italiani

Gli abitanti di Sao Tomé sono persone che vivono alla giornata, senza fretta. In genere sono molto amichevoli e aperte con gli stranieri. L’isola è lunga 48 km e larga 32. Pare non sia così difficile imbattersi nel presidente Manuel Pino Da Costa, che guida sulle strade all’interno di una vecchia Toyota. Per la maggior parte degli abitanti dell’isola, la vita è molto semplice. Non ci sono autobus, cinema e quotidiani. Chi viene qui vuole staccare la spina col mondo. Una buona giornata viene considerata tale quando il bucato si asciuga e c’è del pollo e del maiale da mangiare per pranzo. Investire a São Tomè e Principe è possibile. Diversi gli Italiani che ad esempio hanno dato vita ad aziende di caffè e cacao. Uno di questi è Claudio Corallo, fiorentino, del ’51, diplomato e poi specializzato in Agronomia tropicale all’Istituto Agronomico per l’Oltremare del capoluogo toscano. Dal 1974 è in Africa.Da allora si occupa di produzione di caffè e cioccolato. Lo incontro nella sua azienda agricola Nova Moca, dove produce essenzialmente caffè. L’altra piantagione, Terreiro Velho, è sull’isola Principe e produce cacao. Claudio già a 23 anni si trasferì nello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), dove si mise a produrre caffè, con molto successo. “Le guerre ed i saccheggi a tappeto mi hanno obbligato a fuggire dalla piantagione – dice Claudio. Ho percorso 1.650 km in piroga sui fiumi inusualmente deserti.” Quindi negli anni ’90 approdò a São Tomè, per continuare la sua attività. Qui ebbe l’incontro con il cacao, che non aveva mai apprezzato. Comprese che il sapore eccessivamente amaro del cacao, derivava dai metodi di lavorazione adottati. Per mesi si mise a studiare come poter cambiare questa cosa e ci riuscì. Sperimentando sul campo diversi modi di coltivazione e poi di trasformazione del cacao, finalmente ottenne il suo cioccolato unico al mondo: 100% cacao!

Per fare un prodotto di qualità occorre il know how e molta pazienza

L’unica maniera per fare prodotti di grande qualità è lavorare rispettando la natura e l’ambiente, integrandosi e collaborando in maniera trasparente ed efficace, con le persone del posto.” Il futuro dell’alimentazione sarà un ritorno ai metodi del passato, con la consapevolezza dell’oggi. Alla luce della sua esperienza africana, Claudio sostiene che “..per il caffè, come per il cacao, non è la tostatura che fa la differenza. Ma la scelta delle piante, il grandissimo lavoro dal campo alla raccolta e il metodo (forse solo nostro) di spolpatura. Gli agricoltori vengono formati da Claudio. Lavorano in gruppi e collaborano per migliorare le tecniche di coltivazione e trasformazione del prodotto, cercando di non nuocere al terreno e all’ambiente. Tutta la lavorazione del cacao è fatta a mano, in maniera artigianale. L’unica che garantisca salubrità e qualità del gusto. Nel suo sito trovo pubblicata un’intervista di Cinzia Ficco nella quale Claudio sostiene che “Sono inimmaginabili le differenze di profumi che possono regalare tre antiche varietà di Arabica, pur coltivate una accanto all’altra nello stesso “terroir” e lavorate in identica maniera. Un gran cioccolato o un grande caffé, come i grandi vini, hanno bisogno di “terroir” adatti, di frutti perfettamente sani e maturi, di tanta cura e di una vera grande esperienza”. Claudio segue le piantagioni e la produzione con i suoi due figli Niccolò e Amedeo, mentre la loro sorella Ricciarda e la loro mamma Bettina si occupano della parte commerciale.

Si riesce a fare un grande CRU di cacao al 100%, non amaro!

Claudio ci spiega come avviene la lavorazione: “Abbiamo fatto tante prove. Ci alzavamo alle quattro di mattina per ottenere una produzione diversa, che facesse sentire il sapore di questi posti. E che fosse ecosostenibile in tutta la filiera. Abbiamo modificato la coltivazione introducendo alcune novità. Cinque – sei metri di spazio tra una pianta e l’altra, ricorso a piante alte di protezione per evitare pesticidi, lavorazione solo manuale, fermentazione di nove- diciassette giorni, eseguita con il controllo continuo della temperatura. È stata anche costruita la macchina della tostatura. Oggi arriviamo a sessanta persone solo per la cernita e sbucciatura del cacao che è tutta eseguita a mano. In totale diamo lavoro a circa 150 persone. L’anno scorso abbiamo fatturato 360 mila euro.” Per sua fortuna la tassazione qui non è come in Italia. Con un certo orgoglio ci tiene a dire che: “Molti cioccolatieri offrono ‘grandi CRU’, aromatizzati con zucchero di canna e vaniglia. Ma noi no, perché a noi basta il sapore del nostro cioccolato”. Si va da un 100% ad uno che contiene un’altra specialità, l’unico distillato al mondo estratto dalla polpa di cacao. Ancora, dal 73% con granella di cacao, ai delicati cioccolati allo zenzero e alle scorze di arancio, e all’ 80% “biscotti sablè,” fino ai grani di caffè ricoperti di cioccolato. Dalle piantagioni di queste isole equatoriali da sogno, la famiglia Corallo vende cioccolato e caffè ad un mercato locale. Una piccola percentuale va ad intenditori di tutto il mondo. Quando chiedo a Corallo se tornerebbe mai in Italia, mi guarda con un ghigno beffardo, come se gli avessi rivolto la più inutile delle domande.

Un Paradiso in Terra seduto su un giacimento di petrolio

Quello che ho fin qui descritto è chiaramente un Paradiso in Terra. Un arcipelago immerso nella natura incontaminata, sfuggito alle insidie di una pandemia sanitaria e alla conseguente crisi economica che sta attanagliando il resto del mondo. Ma queste isole si dice siano “sedute” su uno dei più grandi giacimenti di petrolio. Essendo anche uno degli stati più poveri del mondo, la scoperta dei giacimenti ha dato speranze alla popolazione. Speranze presto svanite tra i trattati e le promesse. Sogni che spesso si traducono in ricchezze, ma per pochi governanti corrotti e grandi compagnie petrolifere occidentali. Prima fu fatto un accordo con il potente vicino nigeriano per lo sfruttamento della risorsa ma la cosa non andò a buon fine, per via del fatto che pur essendo petrolio di buona qualità non ce ne sarebbe abbastanza. In quella fase intervennero compagnie statunitensi. Poi si è giunti a un accordo con la Guinea Equatoriale che confina con le aree marine interessate al petrolio appartenenti a São Tomè. Recentemente la Compagnia petrolifera portoghese GALP ha completato lo studio sismico su uno dei blocchi da perforare. Ugualmente la francese TOTAL lo ha fatto con un altro blocco. Solo parlare di petrolio ha provocato tentativi di golpe nel 2003 e poi nel febbraio 2009, entrambi falliti.

Entra in campo la Cina Popolare e sbaraglia, per ora, Usa e Taiwan

Dal 2018 è entrata in campo la Cina Popolare, sbaragliando l’alleanza che Sao Tomè aveva da più di 20 anni con Taiwan nell’attuazione di alcuni progetti di sviluppo, legati alle comunicazioni in particolare. La Cina Popolare ha fatto ingenti prestiti, annullando vecchi debiti, e donazioni nel settore alimentare. Offrendosi per dotare l’isola di impianti fotovoltaici che la rendano libera dai problemi energetici. E il petrolio?  Dal petrolio l’arcipelago non ha tratto alcun vantaggio. Le compagnie occidentali hanno favorito la Nigeria e la Guinea Equatoriale, dirottando i benefici verso quei paesi più forti economicamente e più fedeli alleati degli occidentali.  Così si è dato occasione, alla Cina Popolare, di occupare spazi abbandonati da altri. Dal 2017 l’arcipelago è membro del Forum Macao, l’organizzazione che unisce 8 stati di lingua portoghese e la Cina Popolare. Gli Stati sono: Portogallo, Capo Verde, Guinea Bissau, São Tomè e Principe, Angola, Mozambico, Timor Est, Macao e Brasile. Un’alleanza che ha cominciato subito a dare i suoi frutti in termini scambi commerciali e turismo.

Per São Tomè si prospetta un domani green con i finanziamenti cinesi

Grazie a questi accordi e agli aiuti cinesi (come ho trovato su un articolo a firma di Alberto Caspani su Altreconomia – 1/2/2018) è stato possibile potenziare l’aeroporto e costruire un porto dai fondali più profondi per attività di cargo. China Road & Bridge Company, ci ha investito 652 milioni di euro. Inoltre sono arrivate altre donazioni cash, un condono di 28 milioni di dollari del debito con la Cina. Un aiuto di 146 milioni di dollari per la cooperazione scientifico-culturale. Diecimila tonnellate di riso per garantire la sicurezza alimentare sull’isola. Inoltre sono state inviate due missioni mediche cinesi per la cura della malaria, poco prima che scattasse l’allarme virus. Per fortuna non erano cinesi di Wuhan. L’intervento comunque ha esautorato definitivamente Taiwan, che era intervenuta proprio sulla lotta alla malaria negli anni precedenti.  Gli Stati Uniti si sono trovati spiazzati. La compagnia cinese Star Times Group ha iniziato a convertire le infrastrutture della radio e della tv dall’analogico al digitale per velocizzare le connessioni internet. La questione non è da poco. L’unica stazione radio attiva sull’isola era Voice of America, installata nella stazione saotomense. Ce ne sono circa 60 di queste stazioni radio americane in Africa. Diffondono in 46 lingue diverse, come avamposto per incidere nelle culture e nella politica dei paesi di tutto il mondo, da parte dell’amministrazione USA. Come riesca a conciliare Voice of America, la propria presenza con i tecnici e i nuovi impianti cinesi, resta più che un mistero un problema, che prima o poi scoppierà facendo saltare le diplomazie, non solo locali.

Lo scontro Cina-Usa si sposta in Africa, qui si giocano il loro futuro

Intanto gli accordi tra l’Arcipelago e la Cina procede spedito. Tra i due paesi è stata varata l’esenzione del visto e la Cina s’è offerta per gestire lo sviluppo energetico delle isole non con il petrolio ma con gli impianti fotovoltaici, e altre tecnologie, di energia pulita. Lo sviluppo green delle isole africane è diventato quindi una realtà grazie alla Cina, che ha sbaragliato d’un colpo gli approfittatori occidentali, fiondati sul petrolio. Così da quest’anno sono arrivati i primi finanziamenti per recuperare le antiche tenute portoghesi (las roças), trasformarle in accoglienti agriturismi, per i prossimi turisti di Shangai e Pechino. L’agricoltura sostenibile e le fonti rinnovabili sono un progetto ben più valido dello sfruttamento petrolifero e dei guai che spesso comporta in termini di inquinamento e corruzione. La questione si spiega in una frase. Gli occidentali guardano all’Africa come un ex colonia e vorrebbero dettare legge su ogni cosa. La Cina è trasparente nei suoi aiuti e nelle collaborazioni, tanto dà e tanto chiede. Così i discendenti degli schiavi si scelgono un altro padrone, quanto sia buono e generoso non lo sappiamo, anzi non ne sono convinto affatto, ma astuto lo è e da questa pandemia, ne sono certo, sapranno come uscirne prima e meglio di noi europei e degli americani.

AVVERTENZA. I dati, i personaggi e le informazioni che trovate in questo articolo sono in parte veri e in parte un’opera di fantasia. Le vicende di viaggio sono ambientate in un futuro ipotetico, anche se abbastanza possibile.  

Cronache dal futuro. São Tomé, dove il Covid-19 non è mai arrivato