Democrazia e pandemia. La volatilità della comunicazione nei tempi di crisi
Il primo numero di Democrazia Futura affronta in primo piano “La guerra dei media dopo il voto americano”. In apertura, Giampiero Gramaglia nel suo articolo “Democrazia e pandemia” fa un bilancio di quanto avvenuto in questi ultimi mesi, in piena seconda ondata del Covid-19, spiegando “Come è cambiata l’opinione pubblica in Italia e negli Stati Uniti”.
La pandemia è stata spesso letta come un pericolo per la democrazia, perché, specie l’anno scorso, ha suggerito il rinvio di scadenze elettorali e perché ha indotto numerosi governi a gestire la sanità con dosi di decisionismo. Però, la pandemia è costata più cara ai leader e ai regimi negazionisti che ai governi che l’hanno presa sul serio e hanno informato i loro cittadini con chiarezza e puntualità.
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-->Negli Stati Uniti, la pandemia è stata un fattore importante, anzi quello determinante, nella sconfitta di Donald Trump. In Brasile, potrebbe condurre all’impeachment contro il presidente Jair Messias Bolsonaro. In Gran Bretagna, il premier Boris Johnson, partito alla ricerca dell’immunità di gregge, ha fatto un’inversione di marcia a 180 gradi, dopo essersi gravemente ammalato, per ritrovare credibilità presso l’opinione pubblica. In realtà, un nesso diretto tra pandemia e democrazia non pare esserci.
Se è logico che i leader che l’hanno sottovalutata non siano stati premiati dalle loro opinioni pubbliche, governi diversi che l’hanno gestita in modo sostanzialmente equivalente e hanno ottenuto risultati simili sono stati percepiti in modo radicalmente diverso dalle opinioni pubbliche.
Lo spartiacque, più che la pandemia, pare essere la comunicazione in tempi di crisi adottata, a volte scientemente, a volte magari un po’ avventurosamente. In Italia, la popolarità del ‘premier di crisi’ Giuseppe Conte è rimasta sempre alta, nonostante l’altalena di decisioni sulla gestione dell’emergenza.
In Francia, la popolarità del presidente Emmanuel Macron, bassa prima dell’arrivo della pandemia, non s’è mai rialzata. Nella conflittualità delle priorità tra garanzia della sicurezza e rilancio dell’economia, governi responsabili hanno dovuto fare i conti con opinioni pubbliche volatili e influenzabili, inclini a chiudere quando i numeri dei contagi vanno su, ma subito propense a riaprire appena scendono.
Il caso Italia
Effetto Draghi, profumo dei soldi e aspettative dall’Unione europea
In Italia, la stagione della pandemia ha coinciso con un cambio d’orientamento radicale dell’opinione pubblica, ma non saprei dire se e in che misura l’abbia provocato.
Sondaggi alla mano gli italiani, che nelle elezioni del 2018, manco tre anni or sono, preferirono in modo massiccio quelli che non avevano un curriculum a quelli che ne avevano uno, gli incompetenti ai competenti, e scelsero populisti e sovranisti più che rigoristi ed europeisti, invocano, adesso, competenza e preparazione. E hanno pure riscoperto l’Europa: chi lo sa, forse è il primo amore che non si scorda mai; o, forse, è il profumo dei soldi. La seconda che ho detto, mi sa. Effetto Draghi?, o è Draghi l’effetto dell’evoluzione repentina dell’opinione pubblica? E’ la storia dell’uovo e della gallina. Fatto sta che, sperimentata l’incompetenza, siamo tornati – pare – al culto della competenza (fino al prossimo giro).
Ma non solo: siamo ridiventati un popolo di europeisti, come lo eravamo stati a lungo, prima di trasformarci, seguendo pifferai magici diversissimi fra loro, alla Grillo o alla Salvini, in euro-scettici e sovranisti. Cioè, loro, i pifferai magici, hanno cambiato parole e musica; e noi, diligenti cittadini di Hamelin, li stiamo seguendo. Intendiamoci, meglio ora che prima, quando, dietro a quelli lì, eravamo tanti lemming, tanti piccoli roditori che andavamo a gettarci nel burrone; almeno, stavolta la direzione è buona, anche se le motivazioni dei pifferai sono opportunistiche, soldi da gestire, posizioni di potere, calcoli elettorali.
In questo contesto, non c’è da stupirsi che l’Unione europea guardi più attonita che preoccupata all’Italia, andatasi a sprofondare in una crisi di governo dopo che l’Ue aveva deciso di darle 209 miliardi di euro per rimettere in sesto un Paese indietro su tutti i fronti, infrastrutture, istruzione, disuguaglianze. Le sole classifiche in cui l’Italia compare in testa nell’Unione sono quelle negative, il debito, la disoccupazione, la lentezza della crescita (e la rapidità della decrescita, nel 2020). Anche il coronavirus ha fatto più vittime in Italia che in tutti gli altri Paesi dell’Unione europea – la Gran Bretagna ci è davanti, ma è ormai fuori; e corre più di noi con i vaccini -.
Il problema è l’Italia
Il problema non era che ci sia stata una crisi di governo: ce n’è una in atto in Olanda e nessuno nell’eurozona si strappa i capelli. E non era neppure la prospettiva delle elezioni: in Portogallo, s’è votato per il presidente, che lì è scelto dal popolo; in Olanda, si vota a marzo; in Germania, si sta per votare nei Laender più popolosi e, a settembre, per eleggere il nuovo Bundestag e determinare, quindi, il nuovo cancelliere.
Il problema è l’Italia, dove il dibattito che imperversava non riguardava che cosa fare e come farlo, per uscire dall’emergenza sanitaria, rimettere in moto l’economia, recuperare i ritardi, ma i nomi, i mix delle alleanze, le alchimie dei rimescolamenti, la sopravvivenza di sigle, formule, personaggi. Poi, dal cilindro del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è uscito il nome, né inatteso, né magico, di Mario Draghi; e tutto è improvvisamente cambiato: i lupi si sono travestititi da agnelli; quelli che ‘mai insieme’ si sono scoperti compatibili; quelli de ‘l’Europa matrigna’ si sono avvolti nella bandiera blu con le 12 stelle giallo cromo. E il super-tecnico s’è trovato dotato di ministri che, probabilmente, non avrebbe mai scelto e di una maggioranza caravanserraglio eterogenea e appiccicaticcia.
Le Istituzioni e i Grandi dell’Unione, la Germania e la Francia, hanno mostrato solidale generosità all’Italia, consapevoli – più di noi, temo – che l’Ue può fare a meno della Gran Bretagna, ma non dell’Italia, che ne è Paese fondatore e tassello portante nel mosaico europeo e mediterraneo; e anche e soprattutto che senza l’Unione la Gran Bretagna sta a galla, ma l’Italia va a fondo. E nessuno lo vuole né se lo può permettere.
L’Ue ha sempre tenuto tutti i canali con l’Italia, politici ed economici, aperti, nonostante le diffidenze, oggettivamente non ingiustificate, dei Paesi cosiddetti frugali, tutti ‘ufficiali pagatori’ – ci mettono più soldi di quanti non ne ricevono -; e nonostante l’anomalia, fino a ieri, d’un premier trasformista che il giorno prima sventola le bandiere del populismo e del sovranismo e il giorno dopo indossa i panni dell’europeista – tiepido, seppur compito -.
L’Unione europea si aspetta un governo che faccia buon uso dei suoi aiuti, nell’interesse dell’Italia e dei suoi partner, non solo di esponenti di una casta, o di una fazione politica o di una componente sociale o di un’area geografica. L’Ue si fida di Draghi, certo; meno della compagnia di giro che l’accompagna sui carri di Tespi d’una politica che insegue l’opinione pubblica invece d’orientarla.
Il caso Usa
Negli Stati Uniti, anche a causa della pandemia, una netta maggioranza dei cittadini elettori, oltre 80 milioni contro oltre 74, s’è svincolata dalla retorica populista di Donald Trump. Ma, nonostante quanto avvenuto il 6 gennaio, con l’assalto al Campidoglio di Washington da parte dei sostenitori del magnate per rovesciare l’esito del voto, una netta maggioranza del partito repubblicano e molti dei suoi elettori ne restano ammaliati.
Ammetto che, a un certo punto, ci avevo sperato: che il processo di impeachment avesse il lieto fine alla ‘Mister Smith va a Washington’ di Frank Capra. Non che volessi – per carità! – che un senatore in mala fede si suicidasse, come nel film; bastava che votassero tutti secondo verità e giustizia. Ma l’America non è più quella dei film di Capra e di John Ford, ammesso che lo sia mai stata. Solo sette repubblicani su 50 hanno riconosciuto la responsabilità di Trump nell’attacco al Congresso che fece almeno cinque vittime; ne servivano dieci in più.
Così, missione fallita: vince la politica e perde la giustizia. Per la seconda volta nel giro di 15 mesi, i democratici non riescono a mettere fuori gioco con l’impeachment Trump. A cavallo tra il 2019 e il 2020, con il Kievgate, cercarono di cacciarlo dalla Casa Bianca e, invece, gli fornirono un assist per un secondo mandato, che, senza l’arrivo del Covid-19, era, a quel punto, quasi acquisito; adesso, hanno tentato d’interdirlo dai pubblici uffici in proiezione 2024.
Ma la pilatesca decisione del leader dei repubblicani al Senato Mitch McConnell e dei senatori che l’hanno seguito – Trump è colpevole, ma non è ‘impeachable’, perché non è più presidente – potrebbe rivelarsi un boomerang per i repubblicani, che perdono l’occasione per svincolare il partito dalla presa dei trumpiani e restano soggetti alle ubbie e alle faide del vendicativo magnate.
Se l’impeachment sul Kievgate lasciava qualche dubbio anche negli anti-trumpiani più viscerali, questo non offriva margine all’assoluzione: se non bastavano le dirette televisive di quel giorno, sono state fornite prove “schiaccianti e irrefutabili” che il 6 gennaio il magnate allora presidente abbia sobillato i suoi sostenitori perché dessero l’assalto al Campidoglio per impedire la convalida della vittoria di Joe Biden nelle elezioni presidenziali; e abbia loro mandato messaggi di sostegno e d’incoraggiamento mentre l’azione era in corso, indicando persino il suo vice Mike Pence come possibile obiettivo.
Il problema non è solo Trump
Se il processo fosse stato celebrato in un’aula di giustizia, se fosse stato giudiziario e non politico, Trump non poteva cavarsela. Ma era invece celebrato in Senato: ne è venuto fuori il verdetto “not guilty”, anche se una maggioranza dei senatori ha ritenuto l’ex presidente “guilty”: 57 a 43. Perché scattasse la condanna, ci volevano, però, i due terzi dei voti, 67 su 100; ne sono mancati dieci, nonostante questo sia stato il voto d’impeachment più bipartisan nella storia degli Stati Uniti, come ha detto il deputato Jamie Raskin, capo del team d’accusa.
Hanno prevalso i calcoli personali sulle strategie di partito. La stragrande maggioranza dei senatori il cui mandato scade fra due o quattro anni e che vogliono essere rieletti teme che Trump metta loro contro, nelle primarie, un suo candidato, escludendoli dalla competizione; e hanno, quindi, evitato di farselo nemico. Ma consegnando il partito a Trump, o – meglio – lasciandoglielo, McConnell & C. condannano i repubblicani a restare un partito di minoranza, a livello nazionale: nelle ultime otto elezioni presidenziali, dal 1992 al 2020, i repubblicani sono stati maggioranza nell’Unione soltanto nel 2004 – quando George W. Bush potè ancora contare sull’effetto ‘chiamata alle armi’ dell’attacco all’America dell’11 Settembre 2001 -, anche se hanno conquistato la Casa Bianca tre volte, profittando nel 2000 e nel 2016 di un meccanismo elettorale che consente loro di compensare vittorie a valanga dei democratici negli Stati più popolosi e più liberal, la California e New York, con vittorie risicate negli Stati in bilico.
Ma la demografia gioca loro contro, come si vede in Texas, dove l’apporto dei ‘latinos’ restituisce competitività ai democratici. E affidarsi a un leader come Trump divisivo e che mobilita essenzialmente un elettorato che s’assottiglia – maschi bianchi over 50, se non 60, con un grado d’istruzione basso, suprematisti se non razzisti, fondamentalisti se non bigotti – appare una scelta miope, che può premiare un singolo senatore nel breve termine – il voto di midterm del 2022 -, ma penalizza il partito nel medio-lungo termine.
Trump ci ha messo un istante a reagire, sfoderando i luoghi comuni della sua retorica: la “caccia alle streghe” è finita; e lui intende continuare a battersi per “la grandezza dell’America”. Ma di qui al 2024 la strada è irta di ostacoli: la giustizia ordinaria lo bracca, su molti fronti; e il consenso ha già cominciato a erodersi, con sette americani su dieci favorevoli all’impeachment.
Dal canto suo, il presidente Biden, che è sempre rimasto ai margini della vicenda, dando priorità all’attuazione della sua agenda, sperava che i repubblicani si assumessero le loro responsabilità perché quanto accaduto il 6 gennaio “non possa più accadere di nuovo”. Dopo il verdetto, Biden, deluso, ma non sorpreso, ha detto che le responsabilità di Trump “sono indiscutibili” e che l’attacco al Congresso dimostra che “la democrazia è fragile” e che “deve essere sempre difesa”. In un Paese che ha già pagato alla demagogia populista di un magnate masaniello 500 mila morti di Covid-19 e oltre 28 milioni di contagi.
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