Democrazia futura. I partiti politici nell’ordinamento costituzionale italiano: da attori costituenti a spettatori destituiti?
Premessa
L’Italia è una Repubblica fondata sui partiti politici. Da un punto di vista generale, la loro rilevanza nella storia politico-istituzionale del nostro Paese non può essere posta in alcun modo in secondo piano.
A partire dalla fase transitoria, essi sono stati il principale strumento attraverso il quale il pluralismo politico si è tradotto nelle forme della democrazia costituzionale e, almeno fino all’inizio degli anni Novanta, tutti i governi sono stati “governi di partito”. I partiti sono stati – nel bene e nel male – fra gli attori principali delle trasformazioni economiche e sociali del nostro Paese. In questo senso, riprendendo l’iconica espressione di Piero Scoppola, l’Italia è stata davvero una Repubblica di partiti[1].
Questi ultimi nel corso del Novecento hanno riempito lo spazio tra il vertice della sfera decisionale, fondata sulla rappresentanza politica (composta di pochi), e una società composta di individui titolari di diritti, interesse e pretese da bilanciare e ponderare (i molti e i moltissimi)[2]. Con ciò i partiti hanno svolto una funzione di mediazione sociale e di apprendistato politico dopo vent’anni di regime autoritario[3]. Dalla “fondazione della Repubblica” e almeno fino agli anni Settanta, i partiti politici italiani sono stati gli attori chiave nel processo di articolazione dell’indirizzo politico statale e, più in generale, di definizione della politica nazionale.D’altro canto, a questo ruolo essi sono chiamati a concorrere – attivamente, in modo continuo – dalla stessa Costituzione che, ancor oggi, fornisce a essi una base di legittimità del loro operato, davanti a un quadro diincertezza circa la loro legittimazione.
Del resto, anche dopo il terremoto del biennio 1992-1994, con cui si dissolse il sistema partitico di origine costituente (da “partitocrazia” a “gigante con i piedi d’argilla”)[4], lasciando spazio all’(infinita) transizione italiana, essi sono rimasti attori di primo piano nelle dinamiche elettorali e in quelle concernenti l’arena parlamentare e governativa; ciò, sia ragionando in termini organizzatori, sia facendo riferimento alla loro influenza sul processo di articolazione delle politiche pubbliche.
A oltre cento anni dalle riflessioni di James Bryce, i partiti dimostrano ancor oggi la loro necessità per il governo rappresentativo[5], tanto che, come ha ricordato qualche anno fa Gianfranco Pasquino,
“Nonostante le ripetute dichiarazioni di crisi, declino, scomparsa, tramonto o semplicemente loro irrilevanza, i partiti politici mantengono un ruolo altamente significativo in tutte le democrazie occidentali”[6].
2. Le coordinate costituzionali sui partiti
In termini generali, come hanno affermato Piero Scoppola e Stefano Merlini, il processo di elaborazione dell’art. 49 Cost. – la disposizione che, per prima, riconosce e legittima i partiti politici entro l’ordinamento costituzionale – fu il risultato di un compromesso (al ribasso) tra le diverse impostazioni fatte proprie dalle forze politiche[7].
Invero, il dibattito svoltosi presso la I sottocommissione dell’Assemblea Costituente si articolò presto attorno alle possibilità e ai limiti connessi al diritto dei cittadini di associarsi in partiti e alle implicazioni sull’assetto repubblicano[8]. In tale ottica, il primo testo presentato in sottocommissione dai relatori Umberto Merlin (DC) e Pietro Mancini (PSIUP) prevedeva che i cittadini avessero
“il diritto di organizzarsi in partiti che si formino con metodo democratico e rispettino la libertà e la persona umana, secondo i principi di libertà ed uguaglianza. Le norme di tale organizzazione sono dettate con legge particolare”[9].
Dinanzi a questo testo, la discussione tra i costituenti si focalizzò su due profili: le implicazioni derivanti dalla specificazione che i partiti avrebbero dovuto agire, anche al loro interno, secondo un “metodo democratico”; l’entità dello spazio di autonomia (e, dunque, indirettamente, dei limiti) circa la loro attività “esterna”, in rapporto gli uni rispetto agli altri in ambito elettorale, sociale e politico.
Per molti costituenti – soprattutto dell’area democristiana – la presenza di un controllo pubblico su questi due aspetti rappresentava un limite adeguato per garantire lo stesso diritto di associazione dei cittadini in partiti; contrari a questa impostazione furono invece gli esponenti del partito comunista, timorosi di assecondare successive intromissioni da parte governativa. In questo contesto, si deve a Lelio Basso (PSIUP) un tentativo di mediazione che portò a elaborare una proposta di articolo che, a sua volta, prevedeva la suddivisione del testo dei relatori come segue[10]:
“Tutti i cittadini hanno il diritto di organizzarsi liberamente e democraticamente in partito politico allo scopo di concorrere alla determinazione della politica del Paese”.
“Ai partiti politici che nelle votazioni pubbliche abbiano raccolto non meno di cinquecentomila voti, sono riconosciute, fino a nuove votazioni, attribuzioni di carattere costituzionale a norma di questa Costituzione, delle leggi elettorali e sulla stampa, e di altre leggi”.
Nonostante la soluzione proposta da Lelio Basso, in sottocommissione non si riuscì a giungere a un accordo di fondo e si decise di rimandare la discussione per consentire successivi accordi di massima sui nodi irrisolti. Tuttavia questo passaggio non ebbe mai luogo. Così la proposta Basso fu integrata nel testo dei relatori Umberto Merlin e Pietro Mancini, con l’effetto che ai partiti fu riconosciuto il compito (onore e onere) di concorrere alla determinazione della politica nazionale, senza però che venissero attribuite loro altre funzioni costituzionali.
Le difficoltà nel trovare un accordo di massima sul ruolo dei partiti entro la cornice costituzionale si ripresentò con maggior veemenza in riferimento alla declinazione del riferimento alla “democraticità” della loro azione. Benché, infatti, la proposta di Basso restringesse la condizione della democraticità dei partiti alla sola organizzazione interna, non interessandosi delle loro finalità politiche “esterne”, alcuni costituenti – tra cui Palmiro Togliatti eConcetto Marchesi – si opposero al testo che, d’altra parte, fu usato come “escamotage” dagli esponenti del PCI per sostenere l’esigenza di prevedere una disposizione specifica in funzione antifascista, ossia il futuro comma primo della XII disposizione transitoria.
L’impasse fu “superata” (rectius, cristallizzata) solo grazie a un intervento di Umberto Tupini, presidente della I Sottocommissione, che propose una formulazione più vaga, suscettibile di varie interpretazioni:
«Tutti i cittadini hanno il diritto di organizzarsi liberamente in partiti politici allo scopo di concorrere democraticamente a determinare la politica del paese»[11];
essa resistette alle proposte di emendamento formulate dal 22 maggio 1947, quando il testo fu discusso nel plenum dell’Assemblea. In questo senso, neppure l’emendamento proposto da Costantino Mortati, destinato soprattutto ad attribuire ai partiti in possesso dei requisiti stabiliti dalla legge poteri per «regolare il funzionamento delle istituzioni rappresentative» riuscì a superare l’opposizione del partito socialista e di quello comunista[12]; così, si deve a Merlin la sintesi delle ragioni dietro all’art. 49 Cost.
La Commissione, di fronte alla realtà dei partiti, ha creduto convenga riconoscerla, possibilmente disciplinarla e domani anche fissare i compiti costituzionali che a questi partiti saranno concessi. […] Però la Commissione – ed io in questo momento esprimo il parere collettivo della Commissione – non ha voluto eccedere in questo suo riconoscimento, non ha voluto andare al di là di quelle che possono essere per il momento le concessioni da fare, non ha voluto cioè entrare a controllare la vita interna dei partiti. Ora, tanto l’emendamento del collega Ruggiero come l’emendamento del collega Mastino, come quello del collega Mortati e del collega Sullo e peggio ancora l’emendamento del collega Bellavista vogliono ottenere un controllo interno alla vita dei partiti, che sarebbe quanto meno eccessivo. […] La questione è molto delicata ed io esorto l’Assemblea, per il desiderio del meglio, a non provocare il peggio, sollevando ostilità che indubbiamente una proposta di questo genere susciterebbe. […] Noi dobbiamo, la prima volta in cui veniamo a riconoscere l’esistenza giuridica del partito, col proposito di dare poi ad esso determinati compiti, limitarci soltanto a riconoscere che questo partiti, all’esterno, con metodo democratico, concorra a determinare la politica nazionale[13]
Detto in altri termini, in sede costituente si attribuì ai partiti un compito di primo piano nel processo di formulazione dell’indirizzo politico del Paese. Non si stabilirono però, con l’eccezione delle disposizioni circa il disciolto partito fascista, specifiche norme volte a regolarne la democraticità interna.
Ad ogni buon conto, la declinazione del principio di democraticità rispetto alla competizione e ai rapporti tra i partiti (la c.d. “proiezione esterna”) è uno dei punti qualificanti la nostra forma di Stato e di governo; in questo senso, attribuendo ai partiti un ruolo essenziale, l’art. 49 si staglia come un riferimento di primaria importanza per comprendere le dinamiche di legittimazione politica dei principali organi di governo del nostro sistema repubblicano:
L’art. 49 Cost. garantisce la libertà di partito, e impone il metodo democratico tra partiti politici, quale presupposto della determinazione della politica nazionale. Quest’ultima, nel pluralismo partitico (e nel pluralismo delle forme sociali che hanno direttamente o indirettamente finalità politiche), non solo non si identifica nel partito come parte politica; ma nemmeno nella mera sommatoria dei vari progetti di società (o più semplicemente dei programmi) di ciascun partito politico. La politica nazionale, cui tende il pluralismo democratico delle forze politiche, è il risultato di un processo aperto, dialettico e dinamico, di espressione e di lotta di interessi di gruppo. La Costituzione non impone un contenuto ideale e necessario ai progetti politici delle forze politiche (se si leggono accuratamente e non ideologicamente gli artt. 18 e 21 Cost.): quindi, per questa via, la politica nazionale è propriamente ciò che un Paese esprime in un certo momento attraverso il libero e democratico gioco delle sue molteplici e svariate forme sociali con finalità direttamente o indirettamente politiche[14].
D’altro canto, l’esito della discussione in Assemblea costituente favorì, sin dai primi anni della Repubblica, alcune riflessioni sull’opportunità o no di integrare il dettato costituzionale con una disciplina organica di rango legislativo. Non è un caso che una delle prime riflessioni monografiche sul tema – i.e. Il partito nell’ordinamento giuridicopubblicato da Pietro Virga per i tipi della Giuffrè – sia stata pubblicata nel 1949, a solo un anno di distanza dell’entrata in vigore della Carta fondamentale. Come si può leggere nell’introduzione di quest’opera, se fino ad allora i partiti erano stati oggetto di studio dei sociologi, che ne avevano individuato le componenti fondamentali inquadrandoli “nella classificazione generale dei corpi sociali”[15], al diritto costituzionale spettava ora il compito di addentrarsi in questo campo di indagine, per disciplinare il rapporto fra di essi e lo Stato[16].
Nell’opera di Virga, alla proposta di considerare il partito come associazione giuridica, come organo statale ed elemento costitutivo del sistema di governo[17], si affianca la presa d’atto dell’inadeguatezza del compromesso di matrice costituente e, in prospettiva, la consapevolezza della necessità di una specifica disciplina legislativa in materia di partiti politici.
Sul piano storico, sottolinea Virga, almeno fino alle leggi fascistissime, in materia di partiti politici, l’ordinamento italiano aveva optato per il cosiddetto “sistema dell’istituzionalità esterna”; questo prevedeva una valutazione della conformità dell’azione dei partiti-istituzioni – portata avanti dall’autorità pubblica – facendo riferimento non alle loro norme statutarie o ai loro ai principi ideologico-programmatici, ma alla loro attività di propaganda politica, vietando – in questo senso – le azioni particolarmente pericolose per l’esistenza dello Stato.
La scelta dell’ordinamento italiano pre-fascista era stata dunque di tipo liberale, poiché aveva assunto un atteggiamento agnostico nei confronti delle vicende interne al partito, ma a ben vedere lo stesso orientamento era emerso anche in sede costituente, lasciando aperte numerose questioni:
da un lato problemi interpretativi (e.g. l’ambiguità dell’espressione “metodo democratico” adoperato, però, come abbiamo visto, in modo non casuale dai costituenti),
dall’altro applicativi, ai quali era necessario fornire una risposta, a partire dall’inadeguatezza dello stesso art. 49 Cost., ritenuto del tutto inefficace nella prospettiva di sanzionare i partiti caratterizzati da “fini programmatici antiistituzionali” e da “una organizzazione antidemocratica”.
Secondo Virga, benché lo si dovesse ritenere “più conforme ai principi di un assoluto liberalismo”, il “sistema dell’istituzionalità esterna” si dimostrava del tutto inefficace contro i partiti “anti istituzionali” (i.e. “anti-sistema”) e, in definitiva, “non più rispondente all’attuale evoluzione dello stato moderno”.
Al contrario, l’introduzione dell’istituto della registrazione dei partiti politici – ossia di un’autorizzazione da parte dell’autorità statale a seguito del controllo di conformità del programma e dello statuto del partito ai principi generali dell’ordinamento statuale – avrebbe garantito una strada più efficace per salvaguardare l’ordinamento e, con esso, l’effettività del principio democratico (nelle sue dimensioni esterna e interna ai partiti).
Naturalmente, a sua volta, questa prospettiva apriva le porte a varie questioni di rilievo, come la scelta dell’organo deputato al controllo, le difficoltà di valutare concretamente il grado di difformità fra il programma ufficialmente dichiarato e oggetto di controllo e quello materialmente perseguito dalle forze politiche)[18].
Sono questioni di primaria importanza che, ancor oggi, dopo quasi settant’anni, tendono a caratterizzare il dibattito pubblico e quello scientifico in materia, i quali – in assenza di una disciplina organica in materia – si sviluppano ancora sulle linee di faglie emerse in sede costituente[19].
3. I partiti, spunti per un dibattito futuro…
Le coordinate costituzionali concernenti i partiti politici ruotano, dunque, attorno ai concetti di legittimità (giuridico-istituzionale) e legittimazione (politico-elettorale).
Incidentalmente, proprio su quest’ultimo versante si colloca la discussione sulla crisi dei partiti quali soggetti di aggregazione, trasformazione e trasmissione degli interessi, ma anche il dibattito sulle trasformazioni dei loro profili organizzatori e funzionali.
A tal proposito, si sostiene ormai da oltre un secolo che i partiti sono diventati organizzazioni tendenzialmente autoreferenziali, che operano in ambito elettorale e istituzionale per procurarsi quante più risorse – soprattutto finanziarie, ma anche politiche – tali da prolungarne la sopravvivenza[20] e che, al di fuori dell’arena istituzionale, essi siano in crisi di legittimazione; pronti a scomparire per far spazio a nuove, diverse forme dell’agire politico.
In genere, si afferma che la crisi dei partiti politici avrebbe origine da una distorsione del rapporto fra rappresentanti e rappresentati, fra partiti e cittadini,[21] mettendo in evidenza i dati sul numero degli iscritti, sulla volatilità elettorale, sul tasso di astensione alle elezioni e, non da ultimo, le rilevazioni in tema di fiducia dei cittadini nei loro confronti; a loro volta, questi dati testimonierebbero un ridimensionamento della loro capacità di mobilitazione nonché della loro legittimazione presso la società[22].
In questo senso, sul piano politico, la polemica “partitocratica” formulata da Giuseppe Maranini già nel 1949 trova nuovi sostenitori e interpreti; contemporaneamente, su un altro piano, si rinnovano gli appelli a quell’autoriforma dei partiti evidenziata come necessaria da Leopoldo Elia nel lontano 1965 in occasione di un Convegno di studi promosso dal comitato lombardo della Democrazia Cristiana:
“[essa] viene dall’interno o altrimenti non viene, giacché è vano attenderla dal di fuori. […] i partiti, ed in ispecie i partiti che sono al Governo, non sono più in grado di conciliare quelle funzioni di rappresentanza e di mediazione tra il pluralismo sociale e l’autorità statale, che corrispondono alla loro vocazione di fondo”[23].
Con il passare degli anni, la critica al sistema dei partiti politici si è progressivamente integrata a quella contro il sistema parlamentare, storicamente imputato di essere poco rappresentativo, ingovernabile e inefficiente[24].
Un fenomeno che dagli anni Ottanta ha orientato i partiti più in direzione del rinnovamento delle formule di governo prima e dell’assetto istituzionale poi, che verso l’auspicata “auto-riforma” e che, di recente, legandosi alle istanze populiste e alla società mediale, orientandosi, ancora di recente, verso un superamento degli istituti di democrazia rappresentativa verso forme di democrazia diretta più o meno inedite.
Sotto questo versante, ad essere coinvolta è, in definitiva, come ha rilevato anche Massimo De Angelis nel suo intervento su questa Rivista[25], la discussione circa la stessa sostenibilità della forma democratica e, sulla scia di Norberto Bobbio, il dibattito sulla tenuta, l’ampiezza e l’effettività dei principi alla sua base:
Come regime politico la democrazia moderna è fondata sul riconoscimento e la garanzia della libertà sotto tre aspetti fondamentali: la libertà civile, la libertà politica e la libertà sociale. Per libertà civile s’intende la facoltà, attribuita ad ogni cittadino, di fare scelte personali senza ingerenza da parte dei pubblici poteri, in quei campi della vita spirituale ed economica, entro i quali si spiega, si esprime, si rafforza la personalità di ciascuno. Attraverso la libertà politica, che è il diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla formazione delle leggi, viene riconosciuto al cittadino il potere di contribuire alle scelte politiche che determinano l’orientamento del governo, e di discutere e magari di modificare le scelte politiche fatte da altri, in modo che il potere politico perda il carattere odioso di oppressione dall’alto[26].
Ciò posto, nell’impossibilità di affrontare in questa sede la discussione sulla crisi dei partiti (che intreccia numerose discipline, in primis la scienza politica, la sociologia e gli studi di comunicazione, oltre che il diritto pubblico), anche a causa del numero di variabili in gioco, ci sembra più opportuno rilevare alcuni aspetti attraverso i quali è possibile approfondire il loro ruolo (attuale e futuro) all’interno del nostro sistema politico istituzionale attraverso una prospettiva multi- e inter- disciplinare, cementando i futuri dibattiti sulle loro traiettorie evolutive con dati e considerazioni di natura scientifica (orizzonte di riferimento per qualsiasi classe politica e dirigente che possa – e voglia – definirsi tale…).
In tal senso, la scienza politica fornisce un punto di vista di rilievo perché, analizzando le dinamiche di mutamento organizzativo intrapartitico da una prospettiva “micro” e le trasformazioni dei sistemi di partiti in ottica “macro”, diacronica e sincronica, fornisce chiavi interpretative importanti.
Accanto a questo profilo, vi sono però altre aree “da presidiare”, tra cui figurano, ad esempio[27]:
1. Il rapporto fra la disciplina “interna” dei partiti e i principi costituzionali relativi al rispetto del “metodo democratico” ex art. 49 Cost., con particolare riferimento alla tutela delle forme di dissenso da parte di aderenti e rappresentanti, tema che a sua volta si connette con le garanzie poste dall’art. 67 Cost. sul divieto di mandato imperativo.
2. L’efficacia delle forme di pubblicità e trasparenza dell’attività dei partiti in relazione alle loro forme di finanziamento e le forme di controllo e sanzione.
3. L’attualità delle disposizioni e degli strumenti volti a sanzionare i partiti “antisistema” e “anticostituzionali” o che ripresentano, in tempi e modi diversi e cangianti, la riorganizzazione del Partito Nazionale Fascista (XII disp. Transitoria e finale).
4. L’impatto dei partiti nei confronti della nostra forma di governo “euro-nazionale” avendo riguardo, per esempio, dei nessi con l’attuale disciplina elettorale, con la riforma dei regolamenti parlamentari a seguito della legge costituzionale n. 1/2021, e il loro impatto sul sistema istituzionale dell’Unione Europea(tenendo in considerazione anche l’emersione di eventuali nuovi cleavages).
5. Il rapporto fra i partiti e le forme di comunicazione e propaganda politica, con particolare riguardo al loro rapporto con le piattaforme digitali e al loro regime di controllo e sorveglianza, anche tenendo in considerazione le esigenze di sicurezza nazionale e di costruzione del dibattito democratico.
[1] Secondo l’espressione di Pietro Scoppola, La Repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia, Bologna, Il Mulino, 1991, 441 p.
[2] Oreste Massari, “Partiti e Parlamento negli ordinamenti di democrazia pluralista”, Lectio magistralis, con elementi autobiografici, svolta presso l’Università La Sapienza di Roma, 31 ottobre 2017, Astrid Rassegna, n. 272 (15/2017), 10 novembre 2017, p. 1.
[3] Maurizio Ridolfi, Storia dei partiti politici. L’Italia dal Risorgimento alla Repubblica, Milano, Mondadori, 2008, XI-258 p. [si veda in particolare p. 127].
[4] Il riferimento è a Maurizio Cotta, Pierangelo Isernia (a cura di), Il gigante dai piedi di argilla, Bologna, il Mulino, 1996, 470 p.
[5] Il riferimento va a James V. Bryce, Modern Democracy, New York, Macmillan, 1921, 2 volumi di 508 p. e 676 p.
[6] Gianfranco Pasquino, Partiti e sistemi di partito, in Pietro Grilli di Cortona, Gianfranco Pasquino (a cura di), Partiti e sistemi di partito nelle democrazie europee, Bologna, il Mulino, 2008, 338 p. [si veda p. 17].
[7] Stefano Merlini, “I partiti politici, il metodo democratico e la politica nazionale”, in Partiti politici e società civile a sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzionale. Atti del XXIII Convegno annuale dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Alessandria, 17-18 ottobre 2008, Napoli, Jovene, 2009, XVIIII-417 p. [si veda p. 55]. Sul punto si veda altresì Salvatore Bonfiglio, Gabriele Maestri. I partiti e la democrazia. Dall’art. 49 della Costituzione italiana ai partiti politici europei, Bologna, il Mulino, 2021, 120 p.
[8] Stefano Merlini, “I partiti politici, il metodo democratico e la politica nazionale”, in Partiti politici e società civile a sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzionale …, op. cit. alla nota precedente, p. 62.
[9] Sul punto si veda Segretariato generale della Camera dei deputati (a cura di), La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Roma, Camera dei Deputati, 1970-1971, 8 volumi [si veda il vol. VI, Prima sottocommissione, a p. 703]. Ma cfr. Leopoldo Elia, A quando una legge sui partiti? in Stefano Merlini (a cura di), La democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti, Bagno a Ripoli, Passigli, 2009, 302 p. [si veda p. 52]; Stefano Merlini, “I partiti politici, il metodo democratico e la politica nazionale”, in Partiti politici e società civile a sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzionale …, ibidem, pp. 67-68.
[10] Segretariato generale della Camera dei deputati (a cura di), Assemblea Costituente – Atti della Commissione per la Costituzione, vol. II, Relazioni e proposte, p. 12.
[11]Stefano Merlini, “I partiti politici, il metodo democratico e la politica nazionale”, in Partiti politici e società civile a sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzionale …, op. cit. alla nota 7, p. 68.
[12] Stefano Merlini, “I partiti politici, il metodo democratico e la politica nazionale”, in Partiti politici e società civile a sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzionale …, ibidem, p. 72
[13] Umberto Merlin, in La Costituzione della Repubblica, op. cit. alla nota 9, p. 1884.
[14] Andrea Morrone, “Indirizzo politico e attività di governo. Tracce per un percorso di ricostruzione teorica”, in Quaderni costituzionali, n. 1, 2018, pp. 7-45 [si veda p. 30].
[15] Pietro Virga, Il partito nell’ordinamento giuridico, Milano, Giuffrè, 1948, V-309 p. [si vedano le pp. 7-8].
[16] Pietro Virga, Il partito nell’ordinamento giuridico, op. cit. alla nota precedente, p. 9.
[17] Pietro Virga, Il partito nell’ordinamento giuridico, ibidem, pp. 14 e ss.
[18] Pietro Virga, Il partito nell’ordinamento giuridico, ibidem, p. 218.
[19] Salvatore Bonfiglio, Forme di governo e partiti politici. Riflessioni sull’evoluzione della dottrina costituzionalistica italiana, Milano, Giuffrè, 1993, p. 114.
[20] Piero Ignazi, Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti, Roma-Bari, Laterza, 2012, XV-138 p.
[21] Cfr. secondo prospettive diverse Gianfranco Pasquino, Partiti, istituzioni, democrazie, Bologna, Il Mulino, 2014, 449 p. [si vedano le pp. 41-73]; Peter Mair, Ruling the Void. The Hollowing of Western Democracy, London, Verso, 2013, 192 p. Traduzione italiana di Giovanni Ludovico Carlino: Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016, XIII-166 p. [si vedano le pp. 21-49].
[22] Piero Ignazi, Forza senza legittimità, op. cit. alla nota precedente, p. VIII ss.
[23] Leopoldo Elia, “Relazione al Convegno di Cadenabbia”, in Il ruolo dei partiti nella democrazia italiana. Atti del Convegno di studi promosso dal Comitato regionale della Democrazia cristiana longobarda, Cadenabbia, Bergamo, 18-19 settembre 1965 ora in Leopoldo Elia. Costituzione, Partiti, Istituzioni, Bologna, Il Mulino, 2009, XIX-470 p. [si vedano le pp. 130-131].
[24] Sul punto si veda Tommaso Edoardo Frosini, L’antiparlamentarismo e i suoi interpreti, in Rassegna parlamentare, n. 4/2008, pp. 845-870. Oggi consultabile online https://www.associazionedeicostituzionalisti.it/old_sites/sito_AIC_2003-2010/dottrina/organizzazionestato/frosini.html. Quanto alla c.d. “partitocrazia” il riferimento va ovviamente a: Giuseppe Maranini, Governo parlamentare e partitocrazia. Lezione inaugurale dell’anno accademico 1949-1950, Firenze, Editrice Universitaria, 1940, 43 p. , su cui si veda Gianfranco Pasquino, ad vocem Partitocrazia, in Gianfranco Pasquino (a cura di), La politica italiana. Dizionario critico 1945- 1995, Roma-Bari, Laterza, 1995, XV-565 p. [si vedano le pp. 341-353]; Gianfranco Pasquino Il sistema politico italiano. Autorità, istituzioni, società, Bologna, Bononia University Press, 2002, 236 p.
[25] Massimo De Angelis, “Il ritorno della divisione in blocchi e la crisi della democrazia occidentale: dalla liberaldemocrazia al liberal-liberismo”, Democrazia futura, II (6), aprile-giugno 2022, (in corso di pubblicazione)
[26] Norberto Bobbio, “Se vengono meno i principi della democrazia”, Il Risorgimento, X 1958. Riportato anche in:
[27] Sul punto si vedano i contributi contenuti nel fascicolo monografico a cura di Salvatore Curreri di Diritto costituzionale. Rivista quadrimestrale n. 3, settembre -dicembre 2019: Milano Franco Angeli, 2019.
https://www.key4biz.it/democrazia-futura-i-partiti-politici-nellordinamento-costituzionale-italiano-da-attori-costituenti-a-spettatori-destituiti/414257/