Democrazia Futura. “Processo-mandanti”, la storia non si fa con le bolle

Vladimiro Satta

La ricostruzione del contesto storico della strage di Bologna, che è parte cospicua del c.d. “processo-mandanti”, è stata impostata male e ha prodotto risultati pessimi, malgrado l’impegno e la buona fede della Corte. Gli sbilanciamenti e gli apriorismi toccano livelli da bolle dietrologiche e da camere dell’eco.
I giudici, che hanno ritenuto superfluo disporre perizie storico-scientifiche, prendono posizioni fortemente discutibili, e lo fanno prescindendo da un esame del panorama storiografico e delle rilevanti differenze interpretative al suo interno. Essi accordano grande fiducia a Vinciguerra, il fascista autore della strage di Peteano che accusa lo Stato e i governanti dell’epoca anziché i fascisti di essere i mandanti delle stragi ed è diventato così l’idolo dei dietrologi di ogni colore politico. Inoltre, si sentono in linea con la c.d. controinformazione e impiegano il concetto di Deep State o doppio Stato senza dubitare della sua validità.
La bibliografia raccolta dalla Corte è estremamente povera, a senso unico, e in alcuni casi nemmeno attinente alla strage che è oggetto del processo. <<Giornalisti appassionati>> ed ex-magistrati in quiescenza vengono assunti come autorità in materia di storia e messi al posto degli storici veri e propri, benché la sentenza stessa riconosca le gravi carenze metodologiche degli uni in confronto agli altri. Viene liquidata in modo semplicistico la giurisprudenza che, a suo tempo, negò che Gelli e la P2 coltivassero progetti eversivi.
   La sentenza odierna non spiega perché mai l’attentato alla stazione di Bologna dovrebbe essere in rapporto di continuità con altre stragi risalenti come minimo al 1974, anziché con la realtà italiana del 1980, ormai profondamente diversa da quella della prima metà del decennio precedente sotto innumerevoli aspetti, e nemmeno perché lo stragismo, fermatosi a metà anni Settanta di fronte al proprio fallimento strategico, sarebbe stato ripreso una tantum sei anni dopo, in un contesto ancora più sfavorevole. Inoltre, la sentenza del “processo-mandanti” lascia a desiderare pure sotto l’aspetto dei controlli, delle verifiche e dei riscontri dei documenti e dei testi acquisiti agli atti del processo, come emerge attraverso esempi.
   Nei processi per la strage del 2 agosto 1980 non sono in gioco l’antifascismo e l’antipiduismo.  Entrambi sono valori importanti, ma i loro fondamenti prescindono dalla colpevolezza o innocenza degli imputati in questo processo e andrebbero mantenuti anche se Gelli e i suoi sodali fossero assolti. Legare l’antifascismo e l’antipiduismo alle sorti del “processo-mandanti” non significa preservarli, significa svilirli.

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Attualmente (estate 2023) il quadro delle conoscenze sulla strage alla stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto 1980 è in movimento, sia sotto il profilo giudiziario che sotto il profilo storico.

A livello giudiziario sono in corso due distinti procedimenti giunti entrambi alle soglie della fase di secondo grado:

  1. l’uno contro il neofascista Gilberto Cavallini il quale trascorse insieme ai condannati Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini le giornate tra fine luglio e primi di agosto del 1980,
  2. l’altro formalmente contro il vivente Paolo Bellini, all’epoca dei fatti giovane latitante sotto falsa identità e asseritamente in stazione a Bologna la mattina della strage, ma sostanzialmente mirato contro i suoi presunti mandanti.

A livello di ricostruzione storica, intanto, ci sono sviluppi in due direzioni diverse:

  • l’una portata avanti in tribunale, la quale inserisce la strage del 2 agosto 1980 nel contesto della cosiddetta “strategia della tensione” e assegna un ruolo da principale protagonista al capo della loggia massonica P2, Licio Gelli,
  • l’altra invece orientata verso la crisi del “lodo Moro” iniziata nell’autunno 1979 e verso le conseguenti minacce indirizzate dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) contro l’Italia nei mesi del 1980 che precedettero l’eccidio, suggerita da evidenze che finora hanno trovato poco o nullo spazio in sede processuale.

Essendo impossibile esaminare in maniera approfondita nello spazio di un articolo l’insieme delle questioni aperte -e rimandando il tentativo a future occasioni- qui mi limiterò a scrivere del singolare rapporto tra inchiesta giudiziaria e ricerca storica che si va delineando a Bologna.

Come si può immaginare, in quest’ottica fisserò l’attenzione soprattutto sul “processo-mandanti”, che più del processo Cavallini si richiama alla storia, senza peraltro perdere di vista quest’ultimo.

Adotto la denominazione “processo-mandanti” anziché “processo Bellini” non soltanto perché la prima è diventata presto di uso comune, ma anche perché è la sentenza di primo grado, redatta dai giudici Cenni e Caruso, ad affermare la priorità della ricerca dei mandanti: senza

Gelli, Ortolani, D’Amato, Tedeschi come mandanti-organizzatori-finanziatori dell’azione specificamente contestata al Bellini e agli altri imputati e condannati (…) la strage, alla cui esecuzione Bellini ha partecipato, non ci sarebbe stata o non si sarebbe realizzata nei tempi, nei modi e nei luoghi in cui ebbe effettivamente corso; diventa quindi essenziale ricostruire il contesto in cui l’imputato ha agito e cosa emerge a carico dei “mandanti” si legge a pagina 97.

Addirittura, ne va della solidità di tutto l’impianto accusatorio in base al quale nel corso del tempo, a partire da metà anni Novanta, sono stati condannati con sentenza definitiva i neofascisti dei NAR Fioravanti, Mambro e Ciavardini nonché in primo grado Cavallini, perché il loro movente finora è apparso estremamente debole. Sebbene “molti osservatori (…) si acquiet[i]no all’idea dell’assenza di certezza sui mandanti e sul movente, dell’inspiegabilità della strage in un panorama internazionale nel 1980 diverso da quello del 1969 e del 1974” e ci si rifugi nella tesi della

“azione autoreferenziale: il terrorismo indiscriminato come forma di propaganda e di mobilitazione (…) Anche questo movente non [è] convincente, al limite [dello] irrazionalismo puro”[1] (

Il “processo-mandanti”, in fondo, nasce da qui: è “comprensibile” che “anzitutto le vittime e le loro associazioni ma anche espressioni di società civile, operatori dell’informazione, studiosi e ricercatori in questi quaranta anni si siano fatti carico di indagini e ricerche private, portandole poi al vaglio dell’unica istanza tenuta a dare risposte convincenti e soddisfacenti, l’autorità giudiziaria”[2] .

Ricostruire oggi il contesto di una vicenda del 1980 di grande rilievo, che ha dolorosamente segnato la vita pubblica e la memoria collettiva oltre che le vittime e i loro congiunti, richiede conoscenze storiche e relativi apporti da parte di esperti. Dunque, occorre disegnare un quadro che, per grandi linee, rispecchi lo stato attuale degli studi storici, ivi compresa la pluralità di interpretazioni. Bisogna individuare con criterio una rosa di studiosi e di opere di cui tenere conto. Se ci si confina in una bolla, dove circolano testi e studiosi tutti (o quasi) appartenenti al medesimo indirizzo storiografico, la pluralità manca e il quadro è arbitrario, nonché probabilmente alterato dalla scelta non ponderata dei contributi da acquisire. La sentenza di primo grado del “processo-mandanti” ha saputo tenere conto adeguatamente del panorama degli studi nonché della varietà degli orientamenti in materia, oppure ha nettamente privilegiato uno solo di questi ultimi a scapito degli altri, chiudendosi in tal modo in una bolla? I metodi seguiti nell’introdurre le scienze storiche nel “processo-mandanti” hanno influito sul giudizio? Se sì, in quale maniera? Questi sono gli interrogativi, che ritengo di importanza determinante, cui tenterò di dare risposta analizzando la sentenza stessa. 

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I presenti e gli assenti

Come è stato affrontato il compito di acquisire competenze storiche da riversare nel giudizio? I giudici si sono astenuti dal disporre ufficialmente alcuna perizia. A pagina 100, spiegano di avere agito

“nella consapevolezza che la letteratura storico-scientifica” sui temi in questione “è ormai di tale ampiezza ed è giunta a conclusioni convergenti (…) da potersi sostituire la perizia con l’acquisizione di pubblicazioni di carattere storico”.

E’ una motivazione che stupisce, non soltanto in quanto l’ampia letteratura storico-scientifica preesistente non era affatto focalizzata sull’imputato, il vivente Bellini, e nemmeno sull’ipotesi che i mandanti si identifichino nel perimetro Gelli-Ortolani-D’Amato-Tedeschi, ma anche e soprattutto per l’asserzione che essa sarebbe “giunta a conclusioni convergenti”. Tale asserzione, peraltro, viene contraddetta dalla sentenza stessa, poche pagine più avanti.

A pagina 106, infatti, i giudici si mostrano edotti dell’esistenza di rilevanti differenze interpretative tra gli studiosi e affermano perciò che “in un certo senso il giudice (…) è chiamato a prendere posizione anche nel dibattito fra gli storici”. In nota, sempre a pagina 106, si richiama “come esempio noto a questa Corte” di visioni differenti concernenti “i fatti i cui dobbiamo occuparci (…) la diversa opinione del consulente tecnico della Procura generale, prof. Giannuli (autore di molteplici testi tra cui “La strategia della tensione“, 2018, e “Bombe a inchiostro”, 2008) e quella del prof. Vladimiro Satta (“I nemici della Repubblica“, 2016) anch’egli consulente della Commissione parlamentare sulle stragi”.

A parte la sciatteria denotata dalle imprecisioni nelle due righe che mi riguardano[3], il punto è che il lettore si aspetterebbe allora che Giannuli e io -e i nostri rispettivi lavori- ricevessimo spazio più o meno equivalente nel prosieguo delle motivazioni della sentenza, fatta salva la piena libertà del giudice di aderire all’una o all’altra impostazione (o magari a nessuna delle due). Invece no. Giannuli, che era stato citato già cinque volte nelle pagine precedenti, viene menzionato altre centoquattro volte e alle sue tesi sono dedicate pagine e pagine: io e I nemici della Repubblica,zero. Sia ben chiaro che non è un problema personale né tanto meno un’auto-candidatura per i futuri sviluppi del processo: i giudici avrebbero potuto benissimo rivolgersi ad altri studiosi e valutare altre opere vicini alle tesi mie piuttosto che a quelle di Giannuli.

Non avrebbero avuto che l’imbarazzo della scelta.

Per fare solo un minimo di esempi (e sperando che non si offendano coloro che non citerò per evitare di appesantire troppo l’esposizione), in tema di strategia della tensione avrebbero potuto interessarsi alle riflessioni di Giovanni Sabbatucci nel volume Miti e storia dell’Italia unita (Il Mulino, 1999) o alla monografia di Massimiliano Griner Piazza Fontana e il mito della strategia della tensione (Lindau, Torino 2011), o a quella di Gianni Oliva Anni di piombo e di tritolo 1969-1980 (Mondadori, Milano 2019), oppure ancora a quella di Juan Avilés Farré La estrategia de la tensión: terrorismo neofascista y tramas golpistas en Italia, 1969-1980, edita in lingua spagnola nel 2021 e in lingua inglese (prossimamente anche in lingua italiana). Tutti totalmente assenti dall’orizzonte della Corte, invece.

Giannuli è indubbiamente uno degli storici cui rivolgersi in tema di stragismo, di golpismo dei cosiddetti “anni di piombo e di tritolo”, di cosiddetta “strategia della tensione”, di servizi segreti. Tuttavia non va perso di vista che i “fatti di cui dobbiamo occuparci” consistono innanzi tutto nell’esplosione del 2 agosto 1980, la quale non è oggetto dei volumi La strategia della tensione e Bombe a inchiostro e neppure di altri dello stesso Giannuli. Inoltre, poiché si punta il dito contro Licio Gelli e la loggia P2, va attenzionata anche quest’ultima specifica tematica, rispetto alla quale Giannuli ha una certa competenza ma non è esattamente uno specialista. Di fatto, la Corte non si è fermata a Giannuli, giustamente. Chi sono dunque gli altri studiosi consultati e/o ascoltati, in quale misura ci si è avvalsi di loro, come e da chi sono stati selezionati?

Un altro storico chiamato in causa dalla sentenza Cenni-Caruso è Angelo Ventrone, in qualità di curatore del volume collettaneo L’Italia delle stragi. Le trame eversive nella ricostruzione dei magistrati (Donzelli, Roma 2019)e di autore del libro La strategia della paura. Eversione e stragismo nell’Italia del Novecento (Mondadori, Milano 2019). Anche Ventrone è certamente uno storico da prendere in esame ai fini di uno studio di eversione e stragismo in Italia. Nella sentenza Cenni-Caruso egli è citato appena due volte, a pagina 147 e nelle pp. 159-162. La prima di queste menzioni vale molto, però, in quanto la Corte dichiara di avere nei suoi confronti “un debito di riconoscenza perché la lettura della sua recente opera “La strategia della paura“, 2019, ha consentito di individuare un utile filo rosso nella lettura della massa degli atti processuali, permettendone un’ulteriore rielaborazione alla ricerca della causale della strage del 2 agosto 1980”.

Non è esplicitato, nella sentenza, quale sia il “filo rosso”. Tuttavia, la lettura de La strategia della paura permette di rispondere. L’autore innalza l’anticomunismo ad entità metastorica che attraversa le epoche nonché rivolgimenti nazionali e internazionali di ogni tipo (cfr. la Introduzione e passim) e, con riferimento agli anni Settanta italiani, teorizza che “l’obbiettivo primario” delle trame eversive e delle stragi fosse “manipolare i comportamenti delle masse popolari” alimentando “mille sospetti” sulla matrice di quei crimini (pp. 7, 89-90, 93) e creando in tal modo

“una grande confusione in cui le responsabilità ricadono sulla sinistra, ma forse anche sulla destra, sui neofascisti ma forse anche sugli anarchici o sui marxisti-leninisti” (pp.10-11)[4].

Siamo sicuri che un simile pateracchio riscuota largo consenso fra gli storici? Il giudice ha tutto il diritto di aderire senza riserve agli schemi di Ventrone, ma se lo avesse fatto all’esito di una disamina critica di essi e delle naturali obiezioni che suscitano, la sua scelta sarebbe stata formalmente ineccepibile, mentre così come si presenta fa pensare che questo consenso sia effetto di una specie di bolla che limita la visuale.

Ulteriori perplessità circa il valore assegnato dai giudici di primo grado a La strategia della paura derivano dal dato oggettivo che il volume si ferma a fine 1974 e accenna fugacemente alla strage del 2 agosto 1980 in pochissime righe nelle ultime tre pagine, sicché il suo contributo “alla ricerca della causale” della strage è scarsissimo, a meno che non si dia per scontato che tale causale si riallacci agli anni che vanno dall’inizio del Novecento al 1974, una tesi cronologicamente bizzarra che sarebbe tutta da dimostrare.

Allora perché assumere come “filo rosso” questo libro piuttosto che i libri di altri autori (tra cui lo stesso I nemici della Repubblica) che, se non altro, coprono il 1980 e che al contrario i giudici non citano né discutono? Forse che Ventrone nel 2019 si era confrontato approfonditamente con le opere precedenti e aveva reso così superflua analoga operazione da parte della Corte? No, perché Ventrone le ha ignorate completamente.

E allora perchè? La Corte non sapeva de La estrategia de la tensión: terrorismo neofascista y tramas golpistas en Italia, 1969-1980? Né Giannuli né altri esperti convocati in dibattimento o altrimenti interpellati l’hanno informata? Per giunta, non risulta neppure che la Corte si sia premurata di acquisire registrazioni e trascrizioni delle rare occasioni di dibattito cui Giannuli e/o Ventrone abbiano partecipato insieme a studiosi in dissenso da loro[5] né che, avendo magari ritenuto insufficienti i materiali disponibili, abbia disposto essa stessa nuovi confronti ad hoc, diretti o indiretti (ad esempio, questionari, come una volta fece la Commissione Stragi tra i suoi consulenti). Anche questo fa temere che la Corte sia intrappolata all’interno di una bolla.

A pagina 161, gli estensori della sentenza di primo grado del “processo mandanti” abbinano il professor Ventrone al fascista autore della strage di Peteano (31 maggio 1972): premesso che si sentono ispirati dalla “acuta chiave di lettura” di stragi e piani eversivi proposta da Ventrone, i giudici “considera[no] come elemento consonante la testimonianza di Vincenzo Vinciguerra”.

Per chi non lo sapesse Vinciguerra, il quale dopo Peteano si rifugiò per anni in Spagna dai suoi camerati che già si erano posti sotto la protezione del regime franchista, nel 1979 tornò in Italia e si costituì, nel 1984 si assunse la responsabilità dell’attentato di Peteano e da allora cominciò a fornire una sua interpretazione la quale mira a

“dimostrare che la linea stragista non è stata seguita da alcuna formazione di estrema destra in quanto tale, ma soltanto da elementi mimetizzati, ma in realtà appartenenti ad apparati di sicurezza o comunque legati a questi” e aveva lo scopo di “destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare il potere politico”[6].

Tale ricostruzione, che indica come mandanti delle stragi lo Stato e i governanti dell’epoca anziché i fascisti, ha fatto di Vinciguerra l’idolo dei dietrologi di ogni colore politico, al punto che nel 2022 Gianni Barbacetto de Il Fatto Quotidiano ha lanciato la proposta di graziare l’ex-terrorista[7].

E’ notorio che alcuni, invece, hanno sollevato una serie di interrogativi sulla ricostruzione dei fatti e sulla condotta di Vinciguerra. In questo gruppo ci sono tra gli altri lo stesso giudice Felice Casson (poi senatore Pd) che raccolse la confessione di Vinciguerra e lo studioso Franco Ferraresi[8], cui recentemente si è aggiunto Paolo Morando, autore di una biografia di Vinciguerra, il quale ha rilevato ulteriori incongruenze tra parole di Vinciguerra e fatti accertati[9]. I giudici del “processo-mandanti”, tuttavia, manifestano a più riprese un’opinione elevatissima di Vinciguerra e della sua attendibilità, senza traccia delle criticità esposte dal loro ex-collega Casson e dagli altri autori citati, e anzi aggiungono che “sul valore giudiziario e storico” dei contributi dello stragista “sentenze, storici e analisti generalmente concordano” (sentenza, pp. 100, 198 e passim). Di nuovo, l’effetto-bolla si fa sentire, dunque, inducendo i giudici del “processo-mandanti” a dare a Vinciguerra enorme fiducia nonostante tutte le evidenze che suggerirebbero il contrario.

L’autorevolezza conferita al fascista stragista, accostato al professor Ventrone e citato molto di più e molto più a lungo dell’accademico -ovvero ben 471 volte, cioè più di Giannuli e Ventrone messi insieme- dà la misura di dove si possa arrivare lungo la strada della sostituzione degli storici e delle loro competenze con personaggi di altra estrazione, della cui   superiore competenza in materia di storia si fa garante la Corte.

Beninteso, i panegirici in onore di Vinciguerra non significano che i giudici abbiano simpatie per i fascisti stragisti. Nella sentenza, anzi, si trovano elogi di una realtà nata all’estrema sinistra, la cosiddetta controinformazione, fino all’immedesimazione tra controinformazione e autorità giudiziaria:

“È singolare come l’azione dell’autorità giudiziaria abbia finito con l’essere controinformazione” (p. 858).

Ebbene sì, è singolare. 

Piuttosto che di inclinazioni politiche, dunque, potrebbe trattarsi di inclinazione alla dietrologia. A pagina 1.031 si trova un indizio in tal senso:

“la nozione teorica di Stato profondo o doppio Stato (…) è una nozione che legittima indagini e ricerche che scrivono storie diverse da quella ufficiale, tacciate di “complottismo”“.

Da notare che in questa pagina gli estensori della sentenza attingono la nozione di Stato profondo (in inglese: Deep State) o doppio Stato da Giannuli, e si può aggiungere che il padre del concetto di doppio Stato in riferimento all’Italia degli “anni di piombo e di tritolo” è il professor Franco De Felice[10]. La sentenza Cenni-Caruso sembra totalmente inavvertita delle contestazioni e critiche che per decenni hanno investito l’opera di Franco De Felice, per non parlare del Deep State[11], che così come è un cavallo di battaglia di coloro i quali vedono il mondo in chiave di cospirazioni, è invece uno zimbello agli occhi di coloro che non credono a teorie del genere. Questo aiuta a definire i contorni della bolla dietrologica nella quale galleggia la sentenza del “processo-mandanti”[12]. L’evocazione del Deep State è un tratto da non sottovalutare, poiché analoghi echi risuonano pure nella sentenza di primo grado del processo Cavallini:

“tutti i depistaggi che hanno contraddistinto le stragi e i delitti “eccellenti” avvenuti in Italia, ed altresì le ‘provocazioni’ ad hoc, costituiscono un’altra prova dell’esistenza in Italia del cd. deep State, ossia un insieme di organismi militari, economici, politici, associativi, più o meno legali, dalla contiguità più o meno sommersa, e trasversali, che condizionano in modo occulto le strategie di potere, servendosi degli organi rappresentativi come schermo” (ivi, p. 1775).

Oltre a Giannuli e a Ventrone (nonché a Vinciguerra) nel “processo-mandanti” sono stati menzionati e in qualche caso convocati in udienza anche altri autori di varia estrazione, ma -ad eccezione di Giacomo Pacini e con le stringenti limitazioni applicate al suo contributo indiretto, che saranno illustrate più avanti-, nessun appartenente alla categoria degli storici[13].

La rosa dei prescelti desta perplessità, quindi, e per giunta la sentenza non fa luce sui criteri secondo i quali, tra i non-storici, siano rimasti esclusi anche personaggi esperti almeno quanto gli inclusi. Tra le esclusioni spicca quella dell’ex-magistrato Rosario Priore, parente di una vittima (un cugino) e perciò sempre interessatosi alla strage di Bologna, il quale tra l’altro è coautore del volume I segreti di Bologna (Chiarelettere, Roma 2016) insieme all’avvocato Valerio Cutonilli, a sua volta autore di ulteriori contributi sull’argomento, assente anche lui. Esclusi pure i consulenti della Commissione Parlamentare sul dossier Mitrokhin della legislatura XIV Lorenzo Matassa (magistrato) e Gian Paolo Pelizzaro (quest’ultimo, già consulente della Commissione Stragi nella legislatura XIII), i quali si occupano della strage di Bologna da decenni e tutt’oggi continuano a farlo. Mancano all’appello gli autori di un libro assai documentato, Dossier strage di Bologna (Giraldi, Bologna 2010), Gabriele Paradisi e Francois de Quengo de Tonquédec (insieme al già citato Pelizzaro). E manca l’ex-Presidente della Commissione Stragi, Giovanni Pellegrino, il cui intervento -che era stato richiesto dalla difesa dell’imputato Bellini– avrebbe potuto forse incidere sull’intero processo, considerato che la sentenza attribuisce alla Stragi tesi che vengono definite “inappagant[i]” e che sono innegabilmente diverse da quelle della Corte, le quali vengono rifiutate ma non confutate (p. 483).

Invero, riguardo alla Stragi i giudici commettono un errore di forma, in quanto la commissione parlamentare non approvò alcuna relazione finale al termine della sua attività e perciò gli elaborati depositati all’epoca da Pellegrino e da altri non sono altro che le opinioni personali di chi li sottoscrisse; nella sostanza, rinunciando a chiamare Pellegrino, si è persa un’occasione di confronto costruttivo tra pareri diversi[14].    

Fin qui si può affermare, pertanto, che il ricorso agli storici sia stato davvero minimo e neppure tanto centrato sulla strage del 1980, quasi che la preoccupazione maggiore fosse quella di ricollegarla ad eventi di anni prima. Non si è andati in cerca di storici che abbiano ricompreso la strage del 2 agosto all’interno dei loro lavori, fosse pure all’interno di opere di più vasto respiro e che magari, proprio per questo, avrebbero potuto aiutare i giudici a stimare correttamente l’impatto della tragica vicenda bolognese sulla storia generale del Paese. 

E’ il momento, adesso, di verificare come la bibliografia acquisita al “processo-mandanti” abbia supplito alle carenze evidenziate finora.

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Il compendio probatorio bibliografico

Una bibliografia è stata sì messa insieme dalla Corte, ma lungi dall’essere ricca, pluralista e pressocché esauriente così come sembrerebbe indispensabile anche alla luce della volontaria rinuncia ad una perizia, essa non corrisponde affatto ai criteri anzidetti. Riportiamola testualmente, dalle pp. 146-147 della sentenza:

 “ I volumi che fanno parte del compendio probatorio, da considerarsi processualmente come letteratura scientifica a supporto delle consulenze tecniche sono i seguenti:

1. L ‘uomo nero e le stragi (G. Vignali) *

2.Alto Tradimento (Beccarai, Marcucci, Nunziata, Bolognesi) *

3.La Strage di Bologna in quaranta brevi capitoli (L. Grassi)*

4.L’Italia Occulta (G. Turone) *

5.Il Boss (G. Turone) *

6.Il caffè di Sindona (G. Turone) *

7.Italicus (Bolognesi, Scardova)

8.Stragi e mandanti (Bolognesi, Scardova)

9.Abbiamo ucciso Aldo Moro (E. Amara) *

10. Berlinguer deve morire (Sofia) *

11. La spia intoccabile (G. Pacini) *”[15].

Ad eccezione de La spia intoccabile di Giacomo Pacini, -che merita un discorso a parte e su cui tornerò più avanti- gli altri dieci libri (appena dieci!)

“recano la firma non di storici di professione, ma di giornalisti e magistrati che hanno approfondito i temi trattati. Sappiamo” -proseguono i giudici- “che la ricerca storica contemporanea molto deve a giornalisti appassionati che si rivolgono all’indagine sui fatti, prima di passare il testimone agli storici per l’analisi dei dati, la verifica di attendibilità, i riscontri, l’interpretazione” (p. 147).

Dunque, giornalisti appassionati ed ex-magistrati a riposo sono stati assunti come autorità in materia di storia e messi al posto degli storici, nonostante la sentenza stessa riconosca che ai lavori dei sostituti manchino “l’analisi dei dati, la verifica di attendibilità, i riscontri” che spettano agli storici.

Ben vengano i contributi di tutti, naturalmente, ma affidare a giornalisti appassionati e magistrati in pensione la funzione degli storici è aberrante, e viola l’impostazione metodologica cui la Corte si era impegnata a pagina 100. Ricostruire il contesto storico in questo modo sarebbe come fare il programma televisivo MasterChef con i giornalisti al posto dei cuochi oppure Ballando sotto le stelle con i pubblici ministeri a riposo al posto dei ballerini.    

Facendo attenzione ad altri aspetti della lista di volumi che compongono “il compendio probatorio”, si nota che alcuni titoli non c’entrano assolutamente nulla con la strage di Bologna e nemmeno con altri attentati: ad esempio, Berlinguer deve morire riguarda un incidente stradale capitato in Bulgaria nel 1973, e tentare di sostenere l’attinenza alla strage di Bologna de Il caffè di Sindona, di Abbiamo ucciso Aldo Moro nonché della biografia del mafioso Luciano Liggio intitolata Il Boss sarebbe arduo (tentativo che i giudici del “processo-mandanti” non fanno per niente). Inoltre, su undici titoli, ce ne sono tre prodotti da una delle parti civili, cioè l’Associazione Familiari delle Vittime presieduta da Paolo Bolognesi: Alto tradimento, Italicus, Stragi e mandanti[16].

Sono libri che era opportuno acquisire, evidentemente, ma è altrettanto evidente che sono libri di parte e che perciò sarebbe stato altrettanto opportuno un bilanciamento con libri di altro orientamento, ma il bilanciamento non c’è stato.

Altri tre dei volumi elencati sono dell’ex-magistrato Giuliano Turone che la Corte ha ascoltato come testimone: con tutto il rispetto che il personaggio merita, sarebbe stato più sensato dare la priorità a libri di autori i quali non hanno partecipato al processo né come periti, né come testimoni. Primi fra tutti, autori che sono scomparsi, quali l’intellettuale di area socialista Giorgio Galli, che si è occupato del presunto mandante della strage, Licio Gelli, proprio in relazione alla strage di Bologna. Documentiamo quindi cosa scrisse Galli nella sua monografia La venerabile trama. La vera storia di Licio Gelli e della P2 (Lindau, Torino 2007):

“la P2 era soprattutto una camera di compensazione di grandi affari (sovente illeciti) … il suo impatto sulle vicende politiche, esplicite o occulte, era tutto sommato modesto” (p. 77)

“era soprattutto una camera di compensazione per affari più o meno leciti e non un’agenzia golpista” (p. 133)

“è ipotizzabile che la strage di Bologna del 2 agosto sia stata organizzata per destabilizzare la situazione al punto che il testo fatto pubblicare da Gelli sul Corriere [intervista datata 5 ottobre 1980] possa essere visto come il preannuncio di una scolta autoritaria? E che quindi alla Massoneria possa essere fatta risalire la responsabilità di quella strage, come premessa della svolta? Credo che si possa rispondere con sicurezza di no” (p. 86)

“tra l’estate e l’autunno del 1980 (…) provocare una strage (la maggiore tra tutte), attribuibile alla destra, era inutile; e addirittura poteva giovare alla sinistra e al PCI, come era accaduto dopo le stragi di Brescia e di Bologna del 1974” (p. 88)

Frasi significative, tanto più che vengono da uno studioso il quale, a pagina 79 del medesimo volume, ricordava di essere stato “il primo politologo italiano, sin dagli anni ’70, a mettere in luce i soggetti occulti che influivano sul sistema politico”.

Per inciso, in tema di massoneria e storiografia, la Corte del “processo-mandanti” ha ascoltato la dottoressa Piera Amendola che negli anni Ottanta fece parte dello staff della Commissione guidata da Tina Anselmi, e ha fatto bene, ma sfortunatamente ha fatto a meno della voce e le opere di uno studioso quale Aldo Alessandro Mola, notoriamente assai divergenti dagli indirizzi della relazione di maggioranza prodotta dall’organismo parlamentare (e della Amendola, la quale li porta avanti).

E’ un nuovo indizio di unidirezionalità cui se ne può aggiungere un altro ancora più vistoso: la liquidazione delle sentenze dell’autorità giudiziaria la quale, come è risaputo, smentì che Gelli e la P2 coltivassero progetti politici eversivi come invece sostenne la maggioranza della Commissione di natura politica.

La conclusione giudiziaria sulla natura e le attività della P2 è considerata dalla Corte del “processo-mandanti” “inutilizzabile” perché, “benché passata in giudicato, ricevette numerose e puntuali critiche”. Insomma, le critiche imprecisate mosse da non si sa chi fanno premio sulle sentenze definitive dei predecessori dei giudici odierni. Viceversa, non vi è un cenno alle critiche mosse alla Commissione Anselmi da qualificati storici come Piero Craveri[17]. Siamo di fronte ad uno scenario che somiglia in maniera preoccupante a quella che gli epistemologi definiscono camera dell’eco[18].

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Chiudendo la parentesi sul rigetto della sentenza giudiziaria definitiva riguardante gli obbiettivi della P2 e tornando alla storiografia, Avilés Farré, che era vivo all’epoca dell’annuncio della sentenza di primo grado del “processo-mandanti”, è purtroppo entrato nella schiera dei deceduti nella prima metà del 2023. Resta la sua opera dove egli, pur dichiarandosi convinto della colpevolezza dei fascisti dei NAR, reputa Gelli un capro espiatorio e, dunque, respinge la tesi centrale della sentenza di primo grado del “processo-mandanti”[19]. Giova ribadire che il punto, adesso, non è se Galli e Avilés Farré avessero visto giusto o sbagliato: è che i giudici hanno proprio ignorato loro e tutti gli altri che la vedono più o meno come loro, dando sostanzialmente per indiscusso ciò che non soltanto è discutibilissimo, ma che è anche pesantemente criticato al di fuori della bolla dietrologica che pare avere inghiottito la Corte.

Un altro dei libri invece elencati dalla sentenza Cenni-Caruso, Berlinguer deve morire, che è uno dei più eccentrici in una bibliografia assemblata in funzione di un processo sulla strage di Bologna, potrebbe essere tralasciato se non fosse che la sua menzione aiuta a fare luce sull’approccio dei giudici bolognesi di fronte alle dietrologie. La Corte, infatti, recepisce in toto la tesi degli autori, -secondo cui l’incidente stradale dal quale Enrico Berlinguer uscì scosso ma quasi illeso sarebbe stato in realtà un attentato dissimulato perpetrato dai Paesi del Patto di Varsavia contro di lui-, pur sapendo che gli ex-dirigenti del Pci non credono a questa ricostruzione (lo scrivono a p. 162 della sentenza); in altri termini, neppure questa consapevolezza ha indotto la Corte ad allargare la visuale. Se si fosse affacciata all’esterno della bolla e si fosse addentrata nel campo della storiografia, la Corte avrebbe immediatamente scoperto, quanto meno, il mio saggio monografico “Berlinguer in Bulgaria 3 ottobre 1973: incidente o attentato?”, pubblicato dalla rivista di fascia A Ventunesimo Secolo nel fascicolo 2019/45, che contesta radicalmente l’ipotesi dell’attentato (e, proseguendo, magari avrebbe pure reperito il confronto tra Fasanella e me su “Radio Radicale” registrato il 17 marzo 2021).

Venendo ora a Giacomo Pacini e alla sua biografia di Federico Umberto D’Amato intitolata La spia intoccabile, c’è da compiacersi del riferimento ad uno studioso assai stimabile. Il personaggio studiato, D’Amato, è ritenuto dai giudici “figura che si colloca sostanzialmente su un piede di parità con Gelli” (p. 963), dunque importantissima. Il compiacimento, però, si trasforma in disappunto quando si va a vedere in quale misura e in quale modo la Corte si è avvalsa della competenza di Pacini.

La prima considerazione è che Pacini, a differenza dell’altro esperto consultato per D’Amato che è Giannuli, non è stato chiamato ad esprimersi in udienza; la seconda, è che nelle 1.714 pagine della sentenza Pacini è stato citato soltanto undici volte, a fronte delle decine e decine di citazioni di Giannuli; la terza, forse la più importante, è che dall’opera  di Pacini i giudici hanno tratto qualcosina a proposito delle indagini sulla strage di Piazza Fontana, sulla spregiudicatezza di D’Amato e poco altro, trascurando completamente le osservazioni dell’autore circa le accuse mosse a D’Amato per la strage di Bologna. Di cosa si tratta? Secondo Pacini, non è

“del tutto chiaro (…) come si sia arrivati a sostenere che D’Amato sarebbe stato tra i mandanti del più grave eccidio di civili avvenuto in Italia dal 1945 in poi” (p. XV);

è “una tesi estrema, apparentemente perfino ai limiti della credibilità”, quella secondo cui D’Amato nel febbraio 1979 diede il via all’operazione stragista e si fece tramite dell’assoldamento di cellule eversive neofasciste (XV-XVI); non si capisce cosa c’entrino con la bomba i flussi di denaro distratti dai fondi del Banco Ambrosiano, con i quali D’Amato acquistò un appartamento a Parigi (XVIII, XX); bisogna chiedersi come mai D’Amato

“possa essere arrivato a giocarsi il grande potere di cui ancora disponeva diventando complice di un’operazione criminale con alcuni sopravvissuti nostalgici del regime fascista” (XV).

In definitiva, l’intera parabola della “spia intoccabile” tratteggiata da Pacini è “difficilmente compatibil[e] col ruolo, ben più feroce, di mandante e finanziatore stragista” che gli attribuisce la Procura di Bologna[20]. Perché la sentenza non si è misurata con queste osservazioni, che attengono proprio alla vicenda di cui si occupa il processo?

Pesano, inoltre, le assenze di studi di storia generale dell’Italia dell’epoca della strage e degli studiosi che ne sono autori e che avrebbero ben potuto fornire apporti essenziali utili all’elaborazione di ricostruzioni corrette ed equilibrate. Purtroppo, però, nomi che godono della massima reputazione tra gli storici sono invece sconosciuti ai giudici del “processo-mandanti”; la ricerca all’interno della sentenza di influenze di Simona Colarizi, Agostino Giovagnoli e altri autori di pregevoli storie dell’Italia contemporanea -recenti o meno recenti che siano- dà esito negativo.

Le conseguenze sono tanto più gravi in quanto la Corte non si perita affatto di delineare autonomamente il contesto storico della strage del 2 agosto 1980: essa dà per scontato che

“tale contesto dipende ed è in rapporto di continuità (…) con le altre stragi politiche che hanno caratterizzato il Paese nel dopoguerra, essendo assolutamente pacifico che la storia nazionale è stata contrappuntata da una serie di fatti di strage e di delitti politici” (p. 97).

Ma perché mai l’attentato alla stazione di Bologna dovrebbe essere in rapporto di continuità con altre stragi l’ultima delle quali risalente al 1974, anziché in rapporto con la realtà italiana del 1980, ormai profondamente diversa dal 1974 sotto innumerevoli aspetti? Poiché la Corte stessa, a pagina 550, riconosce che “non esiste uno studio specifico che spieghi” il vuoto “apparente” tra il 1974 e il 1980, verrebbe da supporre che l’arbitraria contestualizzazione da essa operata sia appesa nel vuoto. 

Definizione del contesto storico in cui avvenne la strage del 2 agosto 1980

Prima ancora di interrogarsi sulla sussistenza o meno di un legame tra l’attentato di Bologna e quelli di epoche antecedenti, si osserva che nella storiografia è alquanto controverso persino se vi siano o no le condizioni per postulare una continuità tra le stragi, cinque, che precedettero quella alla stazione ferroviaria del capoluogo emiliano. In ordine cronologico, esse sono:

  1. Milano in Piazza Fontana del 12 dicembre 1969,
  2. Peteano (Gorizia) del 31 maggio 1972,
  3. Milano in via Fatebenefratelli del 17 maggio 1973,
  4. Brescia del 28 maggio 1974, treno Italicus nella notte tra 3 e 4 agosto 1974.

C’è chi pensa che una continuità 1969-1974 ci sia, sebbene soltanto entro certi limiti[21], e chi considera la “strategia della tensione” un mito da sfatare[22].

E’ notorio, del resto, che gli attentatori di Peteano e di Milano 1973 intendevano colpire non la folla bensì rappresentanti delle istituzioni (i Carabinieri a Peteano, il ministro Rumor a Milano) e che le stragi contro i civili di Brescia e del treno Italicus, a differenza di Piazza Fontana, vennero dopo che lo Stato aveva sciolto Ordine Nuovo e avviato il percorso che avrebbe portato allo scioglimento nel 1976 di un’altra organizzazione dell’ultradestra, Avanguardia Nazionale, e sostanzialmente furono fatte proprio per questo motivo.

Persino chi invece teorizza una continuità protrattasi fino alla strage alla stazione di Bologna si sente in obbligo, almeno, di distinguere tra una prima fase durata dal 1969 fino alla bomba sul treno Italicus del 1974 e una seconda fase conclusasi il 2 agosto 1980.

Ciò vale per gli storici, come ad esempio la consulente dell’Associazione Familiari delle Vittime Cinzia Venturoli[23], per Giannuli (come vedremo tra poco), ma anche per i giudici di Bologna, i quali a pagina 418 scrivono che

“lo stragismo degli anni 80′ non ave[va] la medesima fisionomia di quello manifestatosi fino al 1974-’75, poiché esso non si accompagnava ad un vero e proprio progetto di colpo di Stato, come in passato”

e che “probabilmente” ciò era dipeso dal fatto che i precedenti tentativi erano stati “fallimentari”.

Di certo, qualunque assertore dell’unitarietà dal 1969 al 1980 dovrebbe, come minimo, risolvere il problema della differenza radicale tra l’obbiettivo strategico dello stragista di Piazza Fontana, Franco Freda, che era La disintegrazione del sistema, e la formula ossimorica “destabilizzare per stabilizzare” cara agli estensori della sentenza del “processo-mandanti”[24].

La Corte, invece, pare non abbia ravvisato l’aporia suddetta. Essa, piuttosto, durante l’udienza dell’11 giugno 2021 fece notare a Giannuli che la tesi da lui più volte sostenuta secondo cui la strategia della tensione si arrestò a metà anni Settanta suscitava “dissenso”. Ed ecco allora come rispose l’interessato:

“dobbiamo capirci (…) io parlerei di una seconda edizione (…) non è che io sto dicendo non c’è più la Strategia della Tensione, c’è un ‘altra cosa. Diciamo, più opportunamente, che la Strategia della Tensione ha una sua edizione più complessa e più, per certi versi è più difficile, perché c’è un contesto internazionale che non favorisce più certe cose (…) se parliamo di strategia come fine, il fine è sempre quello, non è cambiato. La tattica però si è fatta diversa, più complessa, in certi momenti anche contraddittoria perché la situazione è difficile”.

Tattica fattasi diversa? Tattiche contraddittorie? Cosa vuol dire?

E soprattutto: perché tornare nel 1980 al metodo delle stragi, che era stato abbandonato perché rivelatosi fallimentare alcuni anni addietro, e farlo in un contesto ancora meno favorevole che nel passato?

E’ un peccato che la Corte si sia contentata della risposta vista sopra e non abbia posto queste naturali domande a Giannuli, né abbia fatto chiarezza essa stessa nella sentenza.

Quanto alla presunta invarianza dei fini al di là dei cambiamenti di tattica, occorre sottolineare che la cronologia non quadra con l’idea -adombrata da alcuni nonché dalla sentenza nelle pagine 346, 1069-1070 e passim -che bombe e trame eversive (e finanche le Brigate Rosse!) fossero destinate a fermare il Partito Comunista Italiano.

Gli anni in cui si verificarono tutti questi episodi tranne uno, la strage alla stazione ferroviaria di Bologna, vanno dal 1969 al 1974. Il PCI non aveva ancora spiccato il balzo elettorale che, all’indomani delle elezioni del 1976, lo rese indispensabile ai fini di una maggioranza parlamentare che sostenesse il governo, con la “non sfiducia” prima, e la fiducia poi.

Tra il 1976 e fine 1978, peraltro, il PCI non aveva sfidato la DC (né tanto meno gli Stati Uniti d’America), bensì si era offerto come suo alleato in posizione subalterna, non puntava ad alternative di sinistra e andò alle elezioni politiche anticipate del 1979 proponendosi di governare insieme a essa e non contro di essa.

Nell’estate 1980, epoca della strage di Bologna, i comunisti erano tornati all’opposizione da oltre un anno, per loro scelta, erano politicamente isolati ed erano gravemente indeboliti a seguito del forte calo alle elezioni del 1979. Il periodo in cui il PCI fu più forte, dal 1975 alla prima metà del 1979, fu scevro di attentati stragisti, nonché di tentativi di golpe o di altra forma di pressione militare sui governanti (c.d. intentona).

Inoltre, il tentativo di ridurre ad unità l’intero complesso dei fenomeni terroristici ed eversivi accaduti tra 1969 e 1980 è inconciliabile con l’attribuzione di un ruolo centrale a Gelli e alla loggia P2. Fino a tutta la prima metà degli anni Settanta la P2 aveva avuto scarso peso e vita stentata. Essa divenne potente dalla seconda metà dei Settanta al 1981, anno in cui si dissolse e, come abbiamo detto, si tratta di un periodo che non coincide con quello degli attentati e delle trame, fatta eccezione per la strage di Bologna. E’ evidente, peraltro, che Gelli e la P2 da un cambiamento di regime avrebbero avuto molto più da perdere che da guadagnare.

La teoria della continuità dello stragismo dal 1969 al 1980, ultimamente, ha subìto un duro colpo anche sul piano tecnico-scientifico. Il professor Danilo Coppe, massimo esperto italiano in materia di esplosivi, – e perciò chiamato a partecipare in veste di perito a numerosi procedimenti penali tra cui quello sulla strage di Bologna che riguarda principalmente Gilberto Cavallini -, nel suo libro Crimini esplosivi ha esaminato gli attentati degli “anni di piombo” – e non solo- soffermandosi sulle caratteristiche di quelli principali ed elaborando tavole riepilogative che comprendono i dati salienti di parecchi altri. Su queste solide basi, l’autore ha concluso che

“la trama eversiva chiamata Strategia della Tensione” è “un bel teorema” e null’altro[25]. “Se ci fosse stato un piano preordinato che doveva distribuirsi in un ventennio” – ha proseguito Coppe- “avremmo avuto delle modalità tecniche differenti a quanto in realtà è accaduto”, ovvero ci sarebbe stato “l’impiego di ordigni similari nella natura delle materie prime usate”[26].

Quindi,

“il famoso filo conduttore che prima si attribuiva agli esplosivi dello stragismo degli anni di piombo non c’era, mentre invece l’ho riscontrato in tutte le bombe di mafia che sono iniziate da Falcone fino a Georgofili, San Giorgio al Velabro, via Palestro a Milano… in quelle c’era un filo conduttore tecnico, si riconosceva, come dire, “la stessa mano “[27].

La sentenza del “processo-mandanti”, però, non prende minimamente in esame le suddette osservazioni del professor Coppe.

In definitiva, tirare dentro la “strategia della tensione” un attentato distante ben sei anni dagli attentati e dalle trame golpiste meno remote, e che non fu seguito né da una nuova serie di bombe, né da una nuova stagione golpista, né da un mutamento degli indirizzi politici generali o delle politiche dell’ordine pubblico e della sicurezza interna, appare decisamente incongruo.

Lungi dal fornire una valida motivazione della strage di Bologna, indebolisce ulteriormente la già precaria idea che la “strategia della tensione” mirasse a contrastare il PCI.

L’Italia della metà del 1980 era un Paese stabile: politicamente, socialmente, in qualche misura anche economicamente e finanziariamente, e il fenomeno terroristico in quel momento preponderante, che era il brigatismo rosso, cominciava ad accusare i colpi della reazione dello Stato e a sgretolarsi.

Politicamente, il verdetto degli elettori nel 1979 era stato netto, perciò si era tornati a coalizioni di governo che facevano a meno del PCI e i partiti, a loro modo, ne avevano preso atto. La DC con un’intesa (passata alla storia come “il preambolo”) siglata nel febbraio 1980 in occasione del suo XIV congresso nazionale tale da precludere future alleanze con il PCI; il PSI, di cui Craxi era intanto riuscito ad assumere un pieno controllo, con la disponibilità a fare governi con la DC e senza il PCI in nome della “governabilità”; e lo stesso PCI, dall’opposizione, era consapevole dell’inutilità di reiterare offerte ai partiti di governo e agitava una “questione morale” invocando il “governo degli onesti” in attesa di tempi migliori.

Gli assetti politici presenti già nel 1980, infatti, durarono fino alla fine della cosiddetta Prima Repubblica. Socialmente, la conflittualità era scemata rispetto non soltanto al biennio 1968-1969, ma anche agli anni Settanta, l’influenza della classe operaia e dei sindacati era in diminuzione e si affermava nel Paese, soprattutto tra i giovani, una tendenza al disimpegno dalla politica e di distacco dalle ideologie che venne chiamata “riflusso” e privò la sinistra di una delle principali risorse su cui essa aveva potuto contare nel periodo precedente. Economicamente e finanziariamente, numerosi dati andavano migliorando rispetto agli anni Settanta, sia per motivi di congiuntura internazionale, sia per effetto delle misure precedentemente adottate proprio dai governi cui il PCI aveva concesso la “non sfiducia” o l’appoggio.

Nella lotta al terrorismo, i Carabinieri del generale dalla Chiesa avevano inferto duri colpi alle Brigate Rosse e queste ultime cominciavano a mostrare segni di sfaldamento. Piacerebbe sapere, quindi, su quali basi e sulla scorta di quali studi storici la sentenza del “processo-mandanti” neghi tutto questo, definendo “apparente” la “stabilità politico-istituzionale” raggiunta dal Paese (p. 418). Una siffatta valutazione si addice molto più ad una camera dell’eco che ad un approfondimento storico.

Controllare i controlli

Mediante la formale acquisizione di atti e di volumi, una corte giudicante raccoglie un bagaglio di conoscenze utili al fine di elaborare una sentenza. E’ intuitivo, d’altra parte, che i documenti e i testi acquisiti vanno studiati e, come ogni altra fonte probatoria, sottoposti a controlli, riscontri e verifiche, nella misura del possibile. Purtroppo la sentenza del “processo-mandanti” lascia molto a desiderare anche sotto questo aspetto.

Per non allungare oltre modo il presente scritto, farò appena un paio di esempi: uno a proposito dell’utilizzazione – o meglio della non-utilizzazione, come si vedrà – che la Corte ha fatto di uno dei libri menzionati nella sentenza Cenni-Caruso, e un altro a proposito del coinvolgimento di una cittadina straniera nel terrorismo suggerito da una relazione della Commissione Moro-2 su cui i giudici bolognesi non eccepiscono nulla.

Il primo esempio ci porta sul terreno del terrorismo rosso, la cui storia viene riscritta dai giudici del “processo-mandanti”, sovvertendo completamente la pluridecennale giurisprudenza in materia, disattendendo le conclusioni della Commissione parlamentare Moro-1, confliggendo con gran parte della storiografia ma riecheggiando la leggenda dietrologica secondo cui la lotta armata per il comunismo avrebbe avuto quale suo vero obbiettivo gettare discredito sulla sinistra italiana. Testualmente:

“Il terrorismo rosso serve a privare la sinistra ufficiale della sua immagine di forza politica moderata in grado di garantire stabilità ed equilibrio riformatore al sistema” (p. 346).

Proprio il successo di tale operazione di discredito, anzi, sarebbe la causa principale della sconfitta elettorale del PCI alle elezioni politiche del 1979:

“dopo il 1976 è oggettivo che l’avanzata della sinistra si ferma di fronte al terrorismo dell’estrema sinistra” (p. 345).

Strano giudizio, perché si sa che “l’attacco al cuore dello Stato” fu sferrato dalle BR già nel 1974 con il primo sequestro di risonanza nazionale, ai danni del giudice Mario Sossi, e con il primo duplice omicidio, di cui furono vittime i militanti missini Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, quindi due anni prima del 1976 e, soprattutto, prima delle elezioni del 1975 e del 1976 nelle quali il PCI ottenne due grandi successi.

Insomma, un caso di inesatta applicazione del già fallace metodo di ragionamento post hoc, nunc propter hoc.

E’ forse l’esigua e sbilanciata bibliografia raccolta dalla Corte a formare la base di questo giudizio storico insostenibile?

Vediamo allora cosa dice Bombe a inchiostro di Giannuli, libro menzionato in sentenza e che i giudici dovrebbero conoscere bene, dato che si sono molto fidati dell’autore e che in altra circostanza (lo si è documentato sopra) quando è sembrato che ci fosse “dissenso” tra lo storico e loro, avevano voluto interloquire con lui. Ecco l’opinione di Giannuli sull’insuccesso elettorale comunista del 1979:

“il clima politico era mutato (…) Pesò in primo luogo l’occasione perduta del PCI (…) un partito che sia tale deve dare prova di senso di responsabilità e capacità di mediazione con gli altri, ma deve anche saper dare una risposta efficace alle aspettative dei gruppi sociali che lo sostengono, pena la perdita dei consensi. Il PCI non seppe farlo: offrì alla sua base molte rinunce e quasi nessun risultato e questo ne avviò la rapida decadenza politica e organizzativa, che proseguì sino al suo scioglimento. Ma pesò anche l’incapacità della nuova sinistra di trasformarsi in soggetto politico non minoritario, dandosi un credibile progetto” [28].

Palesemente, è tutta un’altra storia rispetto alla visione della Corte. Al punto da fare nascere il dubbio che i giudici abbiano recepito Bombe a inchiostro a scatola chiusa, o quasi.

Il secondo esempio interessa la persona di una giornalista straniera molto affermata a livello internazionale, la tedesca-occidentale Birgit Kraatz, la quale per anni fu anche corrispondente dall’Italia per conto della televisione pubblica del suo Paese. A pagina 1631 della sentenza Cenni-Caruso si legge che da una relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta Moro-2[29] “emerge” che la Kraatz fu “attiva nel movimento estremista Due Giugno”.

Premesso che definire “estremista” il gruppo tedesco Due Giugno è un eufemismo, perché esso praticava la lotta armata, il guaio è che l’affermazione sulla Kraatz non è vera. La Commissione Moro-2 l’aveva ripresa, senza controllare, da uno degli elaborati depositati dai parlamentari missini della Commissione Stragi. All’epoca della Stragi nessuno ci fece caso, ma nel 2018 sì e cominciarono le pubbliche smentite, con un’intervista rilasciata da Franco Piperno che aveva ben conosciuto di persona la Kraatz[30]. Birgit Kraatz, a sua volta, sporse querele e ottenne dalla Bundeskriminalamt (Ufficio federale della polizia criminale tedesca) la certificazione che lei

«non ha mai avuto contati o altro legame col gruppo “2 Giugno” che vadano aldilà dell’attinenza del lavoro giornalistico allora svolto sull’argomento di sinistra in Germania e in Italia».

Il giornalista di “Radio Radicale” Lanfranco Palazzolo si occupò dell’ingiustizia ai danni della Kraatz in alcune sue trasmissioni e il 5 ottobre 2020 Fioroni dichiarò all’agenzia ANSA che anch’egli riconosceva l’estraneità della Kraatz al gruppo “Due Giugno”.

Ovviamente, riproporre le parole della Moro-2 sulla Kraatz senza aggiungere la nutrita serie di smentite susseguenti lede la reputazione dell’ormai anziana giornalista tedesca e potrebbe aprire la strada a una rinnovazione dell’insinuazione contro di lei da parte di coloro che credessero alla sentenza Cenni-Caruso. Si può essere certi che i giudici estensori abbiano agito in perfetta buona fede, ma il fatto che non si siano minimamente accorti di tutte le reazioni e smentite piovute dal 2018 in avanti è un’ulteriore dimostrazione di carenza di controlli sui contenuti dei documenti acquisiti al processo.

Conclusioni

Malgrado l’impegno e l’indubitabile buona fede della Corte, l’ampia parte del lavoro relativo alla storia del periodo in cui avvenne la strage è risultata caratterizzata da metodi decisamente inadeguati e da risultati pessimi. Le dimensioni del presente scritto sono all’incirca in scala 1:100 rispetto alla sentenza, ma se fossero pari, allora gli appunti da muovere sarebbero anch’essi centuplicati rispetto alla quantità qui riversata.

Impressionano soprattutto gli sbilanciamenti e gli apriorismi, a livelli di bolle dietrologiche e di camere dell’eco.

Per superare le auto-limitazioni che i giudici si sono posti, nel prosieguo del processo sarebbe bene che le debolezze dell’impianto accusatorio non fossero viste alla stregua di posizioni da blindare e da proteggere con rinnovati sforzi dagli assalti di nemici “revisionisti”[31], ma come opportunità per rimettere in discussione le cose che non quadrano e rettificare, anche se ciò comportasse il distacco da convinzioni radicate e identitarie. Se necessario, aprendosi a prospettive nuove.

Umanamente, è comprensibile il timore di rimanere senza condannati, a mani vuote, ma esso non deve pregiudicare la ricerca della verità. I condannati, se lo sono a scapito della verità, non sono colpevoli, ma capri espiatori.

Oltre tutto, un’altra pista da esplorare ci sarebbe già.

Mentre il contesto nazionale del 1980, per quanto lo si sprema, non consente di individuare un movente convincente, il contesto internazionale relativo al “lodo Moro”, -tema sul quale le conoscenze storiche sono cresciute molto negli ultimi anni e tuttora sono in via di sviluppo- appare più promettente. Il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP) un movente l’aveva: la crisi del “lodo Moro” aperta nel novembre 1979 dall’arresto a Ortona di appartenenti ad Autonomia Operaia i quali trasportavano armamenti per conto dei palestinesi.

Inoltre, da gennaio 1980 il FPLP aveva minacciato l’Italia pesantemente e reiteratamente, ed era un’organizzazione adusa agli attentati.

E’ altresì accertato che il terrorista tedesco Thomas Kram, esperto di esplosivi, tra 1 e 2 agosto 1980 fece un passaggio-lampo a Bologna, di cui egli non ha mai dato una spiegazione degna di questo nome. A ben vedere, il suddetto riferimento a Kram potrebbe pure inserirsi nell’impianto accusatorio contro Bellini, poiché è noto -e lo ha ammesso pubblicamente l’imputato stesso- che nell’inverno 1980 i due uomini per qualche giorno soggiornarono in una stessa locanda di Bologna, diversa da quella dove erano soliti fermarsi quando si recavano nel capoluogo emiliano.

Una maggiore considerazione dell’episodio di Ortona e di quel che ne seguì potrebbero giovare persino all’esame della figura di D’Amato.

La Corte è al corrente della sua famosa lettera auto-difensiva dopo lo scoppio dello scandalo P2 (p.810), ma sembra esserle sfuggito che la missiva, elencando le “relazioni pericolose” che D’Amato asseriva di avere avuto perché facenti parte dei suoi compiti, iniziava da Autonomia Operaia e terrorismo palestinese, due entità apparentemente secondarie rispetto ai compiti istituzionali e alle attività dell’UAR ma che, ove abbinate e ripensando al sequestro di armi del 1979 a Ortona, corrispondono all’embrione della cosiddetta “pista palestinese” relativa alla strage di Bologna del 2 agosto 1980. Uno spunto che, a mio avviso, meriterebbe di essere coltivato.

La passione civile che anima molti di coloro che si interessano ai processi per la strage di Bologna è nobile, in sé, ed è forte, ma si ha l’impressione che le direzioni nelle quali il più delle volte si incanala siano condizionate da un’associazione assolutamente impropria tra le sentenze giudiziarie e i principi dell’antifascismo e dell’antipiduismo.

Non dovrebbe essere così.

Nei processi per la strage del 2 agosto 1980 non sono in gioco l’antifascismo e l’antipiduismo, che entrambi sono valori importanti, ma prescindono dalla colpevolezza o innocenza degli imputati.

L’antifascismo, addirittura, è giustamente affermato dalla Costituzione sin dai primordi della Repubblica italiana (mentre contro la P2, fenomeno venuto alla luce decenni più tardi, ci sono comunque le leggi). L’antifascismo è nella Costituzione per via di ciò che il fascismo era stato alle sue origini, nel periodo in cui prese il potere, quando si fece regime, tolse le libertà politiche e perseguitò o addirittura assassinò gli oppositori, emanò le leggi razziali e infine trascinò l’Italia nella più sbagliata e rovinosa delle guerre. L’antifascismo, dunque, è abbondantemente motivato da tutto questo, e lo sarebbe anche se, per ipotesi controfattuale, non fossero mai esistiti Freda, Maggi, Ordine Nuovo, le stragi negli anni dal 1969 al 1974, e poi ancora i NAR, Fioravanti, Mambro, la strage di Bologna.

L’antipiduismo, a sua volta, è abbondantemente motivato dall’affarismo illegale e dalla corruzione che la loggia P2 praticò su larga scala, infettando il sistema politico, e andrebbe tenuto fermo anche se all’esito del processo in corso si stabilisse che Gelli e i suoi sodali non furono i mandanti dell’eccidio di Bologna.

In realtà, legare l’antifascismo e l’antipiduismo alle sorti del “processo-mandanti” non significa preservarli, significa svilirli.


[1] ivi, p. 483.

[2] ibidem

[3] Mi corre l’obbligo di precisare, quanto meno, che non fui “consulente” della Commissione Stragi bensì documentarista, ovvero membro dello staff di supporto alla Commissione fornito dall’amministrazione del Senato, con compiti di documentazione. I consulenti erano scelti dall’autorità politica, a differenza del personale dell’amministrazione parlamentare.  

[4] Non è questa la sede per una recensione esauriente de La strategia della paura. Piuttosto, da parte mia è doveroso soggiungere che mentre ho un’opinione profondamente negativa de La strategia della paura, apprezzo invece altre opere dello stesso Ventrone quali “Vogliamo tutto” (Laterza, Roma-Bari 2012), libro dedicato all’ultrasinistra dal 1960 al 1988.

[5] Posso indicare almeno un paio di discussione ampie e articolate che ho avuto con Giannuli e Ventrone nel 2019. La prima è un dialogo con il solo Giannuli, moderato da Antonio Carioti, trascritto e pubblicato nel volume La strage di Piazza Fontana. L’eccidio, i processi, la memoria, RCS, Milano 2019. La seconda, una tavola rotonda sulla strage di Piazza Fontana e quel che ne seguì, organizzata a novembre 2019 dalla Fondazione Spirito-De Felice di Roma, con interventi di Paolo Morando, Gianni Oliva e Nicola Rao, oltre a Ventrone e a me, nonché domande del pubblico e risposte; gli atti del convegno furono poi pubblicati negli annali della Fondazione, anno XXXII, fascicolo n. 2/2020. 

[6] Dichiarazioni testuali di Vinciguerra, riportate a pagina 162 della sentenza Cenni-Caruso

[7] Cfr. Gianni Barbacetto, “Dopo ben 43 anni di carcere l’Italia liberi Vinciguerra”, Il Fatto Quotidiano, 12 maggio 2022. Replicai a Barbacetto il 16 maggio seguente con un articolo intitolato Stragi: la proposta indecente di Barbacetto pubblicato dall’Avanti” online. Tornando al titolo dell’intervento di Barbacetto, è bene puntualizzare che se Vinciguerra era in carcere da 43 anni (adesso sono 44) non era (e non è) per accanimento contro di lui da parte dello Stato italiano, bensì perché è stato lui stesso a rifiutarsi di accedere ai benefici e alle misure alternative alla detenzione cui avrebbe avuto ai sensi della normativa.       

[8] Per i contenuti delle critiche di Casson e Ferraresi alla versione di Vinciguerra nonché per i riferimenti bibliografici al riguardo, si veda Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica, Storia degli anni di piombo, Milano, Rizzoli, 2016, 894 p. [si vedano le pp. 377-378 e note].

[9] Paolo Morando, L’ergastolano, Laterza, Roma-Bari 2022. Le incongruenze rilevate da Morando sono illustrate nelle pp. 252 e 255-256 del libro. Da notare che Morando è un sostenitore a spada tratta dell’impianto accusatorio del “processo-mandanti”, come si vede sin troppo bene dal suo successivo libro La strage di Bologna, Feltrinelli, Milano 2023.     

[10]Cfr. Franco De Felice, “Doppia lealtà e doppio Stato”, Studi Storici, luglio/settembre 1989, pp. 493-563.

Tra gli innumerevoli critici di De Felice mi piace citare il saggio di Giovanni Sabbatucci Il golpe in agguato e il doppio Stato, facente parte del citato volume Miti e storia dell’Italia unita. Tra i contributi miei, il capitolo intitolato Terrorismo rosso, caso Moro e teoria del “doppio Stato” nelle pp. 399-437 del volume Vladimiro Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, Soveria Mannelli Rubbettino, 2006, 514 p. e Vladimiro Satta, “Il ‘doppio Stato’ si è estinto? Riflessioni sulla Giornata della Memoria 2009”, Nuova Storia Contemporanea, XIII, fascicolo settembre-ottobre 2009, pp. 89-103.

[11] Il Deep State viene evocato anche a pagina 1052. Nel Deep State “nulla è come appare”, scrivono suggestivamente i giudici.

[12]Mi attengo alla scelta iniziale di non aggiungere all’analisi delle 1.714 pagine del “processo-mandanti” quello delle 2.154 del processo Cavallini, benché anche quest’ultimo offra spunti, come si vede. Sulla sentenza Cavallini qui mi limito, pertanto, a riportare il commento del deputato Luigi Marattin al momento in cui essa fu resa nota: «fa riflettere il che l’Italia sia l’unico Paese avanzato in cui il fatto che le stragi abbiano avuto conniventi nelle istituzioni non è una cosa che si legge nei blog deliranti dei complottisti, ma nelle sentenze dei tribunali» fonte: Mauro Giordano, “Il plauso ai giudici di Pd e 5S, destra all’attacco”, Il Corriere di Bologna, 10 gennaio 2021. Cf. https://ristretti.org/index.php?option=com_content&view=article&id=96838:processo-strage-di-bologna-il-plauso-ai-giudici-di-pd-e-5s-destra-allattacco&catid=220:le-notizie-di-ristretti&Itemid=1).

[13] Escludendo le persone chiamate a parlare di questioni che non sono di storia (tra loro anche Cinzia Venturoli, una storica che però è intervenuta per parlare di vittime e dei problemi dei sopravvissuti), furono chiamati a testimoniare, in ordine alfabetico: Piera Amendola, Gianni Barbacetto, Antonella Beccaria, Paolo Bolognesi, Giorgio Gazzotti, Massimo Giraudo, Leonardo Grassi, Gigi Marcucci, Ilaria Moroni, Claudio Nunziata, Roberto Scardova, Giovanni Tamburino, Giuliano Turone. Giovanni Tamburino, Giuliano Turone.

[14] L’errore di forma rende viziata la motivazione dell’assenza di Pellegrino fornita da Cenni-Caruso a pagina 152, dove essi scrivono che l’audizione del Presidente della Stragi, richiesta dalla difesa dell’imputato Bellini, fu esclusa perché “rischiava di introdurre una valutazione di natura politica aggiuntiva” rispetto al “lavoro collettivo supportato da storici di professione” fissato negli atti della commissione acquisiti dalla Corte: come si è detto sopra, nessuna relazione fu frutto di “lavoro collettivo” dell’organismo parlamentare né tanto meno della totalità degli “storici di professione” che erano fra i consulenti della Stragi (altri consulenti non erano storici né di professione, né per vocazione).

[15] Al secondo punto dell’elenco, “Beccarai” è un refuso, che sta per “Beccaria”. All’undicesimo, in realtà gli autori sono i giornalisti Giovanni Fasanella e Corrado Incerti, mentre Sofia è la città della Bulgaria presso la quale avvenne l’incidente stradale di cui parla il volume.

[16] “TESTIMONE BOLOGNESI. Allora, tutti i libri, i libri che sono usciti, sono usciti fondamentalmente per fare in modo che le memorie che avevamo presentato diventassero il più possibile di dominio pubblico. Cioè, per intenderci, non puoi presentare la memoria di più di mille pagine per dire e fare in modo che diventi di dominio pubblico un volumone di questo tipo che è difficilissimo sia leggerlo che rimanere … Ecco, allora abbiamo radunato in vari libri, perché c’è prima “Strage e Mandanti”, poi “Italicus”, poi “Alto Tradimento”.

Ecco, questi tre volumi sono serviti fondamentalmente per fare in modo che ci fosse una divulgazione” (cfr. sentenza “processo-mandanti”, p. 494).

[17] “La P2 fu oggetto tra l’altro di un’inchiesta bicamerale del Parlamento. (….) La relazione di maggioranza, come del resto quelle di minoranza salvo quella del radicale Massimo Teodori, sono tutte viziate nella loro impostazione dal proposito di voler mantenere distinta la classe politica dal sistema di corruzione e di deviazione istituzionale rappresentato dalla P2 (….) Si tende, a questo scopo, a presentare la loggia come un organismo sovrapposto alle istituzioni politiche, una sorta di cupola che si arroga anche funzioni di indirizzo politico. Mentre invece era un segmento di commistione purulenta tra politica, amministrazioni ed affari (…) Anche in questo caso non si può parlare di “doppio Stato”, ma di profonda corruzione interna allo Stato e alla classe politica” (Piero Craveri, L’arte del non governo, Marsilio, Venezia 2016, p. 363, nota 22).

[18] “Una camera dell’eco è una struttura sociale che rinforza le credenze di un gruppo screditando ogni fonte di controprove. Per essere parte di una camera dell’eco bisogna condividere un insieme di credenze di fondo, le credenze che costituiscono l’identità del gruppo, fra le quali vi sono anche quelle che motivano la disparità di fiducia epistemica che il gruppo nutre verso certe fonti epistemiche, rispetto alle fonti dei membri del gruppo” (Filippo Ferrari – Sebastiano Moruzzi Verità e post-verità. Dall’indagine alla post-indagine, 1088press, Bologna, edizione 2022, capitolo 5).

[19] Juan Avilés Farré, La estrategia de la tension, cit., pp. 228-229 e 252-253. A giudizio dell’autore, Gelli non avrebbe dovuto essere condannato nemmeno per l’operazione di depistaggio che prese il nome di “Terrore sui treni”e non era un Grande Vecchio coordinatore della strategia della tensione (ibidem).

[20] Questa conclusione, che riporto e condivido, è di un “giornalista appassionato” e saggista che ha analizzato La spia intoccabile, Giorgio Boatti (cfr. “Nella Repubblica dei ricatti”, Doppiozero, 2 marzo 2021).

[21] Al riguardo, richiamo un interessante contributo di Marco Grispigni Sull’abuso del concetto di strategia della tensione (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/sull-abuso-del-concetto-di-strategia-della-tensione, 2 marzo 2022), dove l’autore sostiene che sarebbe corretto parlare di “strategia della tensione” limitatamente al 1969 (tesi sulla quale concordo). Un altro noto studioso, Mirco Dondi, estende la “strategia della tensione” fino al 1974 ma non oltre e, per di più, vede differenze di scopo tra la strage del 1969 che considera “di provocazione” e le stragi del 1974, che definisce “di intimidazione” (L’eco del boato, Laterza, Roma-Bari 2015). Francesco Maria Biscione concorda con la delimitazione al 1974 (“Il partito del golpe nella strategia della tensione”, Dimensioni e problemi della ricerca storica, fascicolo n. 2/2020, pp. 43-73) e prima di lui si erano espressi nello stesso senso anche Franco Ferraresi (Minacce alla democrazia, Feltrinelli, Milano 1995) e Mimmo Franzinelli (La sottile linea nera, Milano, Rizzoli, 2008).

[22] Si vedano, tra gli altri, Ernesto Galli Della Loggia, “Tensione senza strategia”, Il Corriere della Sera, 18 agosto 2000, e Massimiliano Griner, Piazza Fontana e il mito della strategia della tensione, Torino, Lindau 2011, 312 p..

[23] Cinzia Venturoli, Storia di una bomba, Castelvecchi, Roma 2020

[24] A pagina 208 della sentenza Cenni-Caruso si afferma che la formula “destabilizzare per stabilizzare” è “l’attuale spiegazione storicamente più accreditata delle vicende storiche di quel periodo”.

[25] Danilo Coppe, Crimini esplosivi, Milano, Mursia, 2020, pp. 366-367.

[26] Ibidem.

[27] Cfr. l’intervista  di Umberto Baccolo a Danilo Coppe datata 2 febbraio 2022 e intitolata Parla il perito del tribunale nella Strage di Bologna Danilo Coppe: la verità deve ancora uscire, in: www.spraynews.it/post/parla-il-perito-del-tribunale-nella-strage-di-bologna-danilo-coppe-la-verit%C3%A0-deve-ancora-uscire?fbclid=IwAR0nIxGRoIjfpVDSpFgLmjVwGYol_Ch1PoFTRK2epDBQQ5ztgMsFBNFrF_w

Di parere del tutto diverso da Coppe è un giornalista, Ugo Dinello, autore del libro La via delle armi (Laterza, Roma-Bari 2022. Egli, malgrado l’affinità tematica, non si confronta con il lavoro di Coppe in nessun punto. Dinello tende a imputare gli attentati avvenuti in Italia dal 1969 in poi ad una struttura unica, l’organizzazione comunemente chiamata Gladio (sezione italiana di una rete internazionale, Stay Behind, che faceva capo agli alleati dell’Occidente).

[28] Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, op. cit., pp. 427-428.

[29] Commissione creata nella legislatura XVII, istituita nel 2014, riunitasi per l’ultima volta in seduta a febbraio 2018, presieduta dall’onorevole Giuseppe Fioroni. 

[30] Franco Piperno:Si poteva salvare Moro. Gotor? Scrive balle, intervista di Paolo Persichetti a Franco Piperno, Il Dubbio, 26 aprile 2018”.

[31] La preoccupazione di non esporsi al “revisionismo storico e giudiziario” è esplicita nelle pp. 124, 181, 208.  A pagina 488, citando Paolo Bolognesi, tutti i <tentativi di introdurre piste alternative agli eversori neri” sono equiparati a depistaggi.

https://www.key4biz.it/democrazia-futura-processo-mandanti-la-storia-non-si-fa-con-le-bolle/455528/