Oscar 2021: pronostici e panoramica dei film principali
L’emergenza da Covid-19 sembra aver messo in pausa il mondo intero e il mondo dello spettacolo è uno dei settori che ha pagato il prezzo più alto di questa pandemia: da mesi, in tutto il mondo, cinema e teatri sono chiusi e numerosi sono i film, i concerti e gli eventi che sono stati rinviati o che si sono svolti in modalità del tutto differenti dal solito. E anche la 93esima edizione degli Academy Awards, che si terrà a Los Angeles il 25 aprile (in Italia nella notte tra il 25 e il 26), subirà dei notevoli cambiamenti: anche se la Notte degli Oscar, rinviata di ben due mesi a causa della pandemia, si svolgerà in presenza ci saranno soltanto i registi, gli attori e i professionisti del cinema candidati in una delle categorie; a quanto pare, dunque, niente Zoom e niente Skype. Si assisterà al consueto sfoggio di abiti eleganti (da quest’anno il dress code vieta jeans e felpe), ma con una serie di dovute misure sanitarie per garantire lo svolgimento dell’evento in tutta sicurezza. Confermate, al momento, le due location, entrambe a Los Angeles: il Dolby Theatre, dove si svolgerà la cerimonia della consegna dei premi, e la Union Station, dove si terrà invece il pre-show di 90 minuti. Dal punto di vista dei premi, il più importante cambiamento riguarda il comparto sonoro: infatti i due premi di “Miglior sonoro” e “Miglior montaggio sonoro” sono fusi in unico grande premio. Altro cambiamento di quest’anno è che, eccezionalmente, sono stati ammessi tutti i film usciti nel periodo compreso tra l’1 gennaio 2020 e il 28 febbraio 2021: si tratta della prima volta dalla sesta edizione degli Oscar che possono partecipare pellicole uscite in due anni solari differenti. Inoltre, per via della straordinaria chiusura delle sale cinematografiche dovuta alla pandemia, sono stati ammessi agli Academy Awards anche i film che non sono usciti al cinema, ma sulle più importanti piattaforme di streaming. Ma veniamo ai film in gara, analizziamoli più da vicino e vediamo quante probabilità hanno di riuscire a fare scorpacciata di statuette.
Cominciamo con il film che ha guadagnato più nomination (ben 10, tra cui “Miglior Film“). Mank è un vero gioiellino per i cinefili più puristi, dal momento che in esso si racconta la travagliata genesi del film “Quarto Potere” (Citizen Kane), pietra miliare del cinema che porta la firma di Orson Welles. La pellicola ruota intorno alla figura eccentrica e bizzarra di Herman “Mank” Mankiewicz, lo sceneggiatore a cui si deve la stesura del capolavoro sopra citato. Gary Oldman interpreta magistralmente la figura dell’antieroico e noir Mankiewicz, uno scrittore geniale, brillante e alcolizzato che si muove in una Hollywood dove capolavori d’autore e film d’alta levatura si alternano a giochi di potere e complotti politici. Oltre a ricostruire una pagina importante della storia del cinema, Mank, con la sue scenografie e la sua fotografia in bianco e nero, trasporta lo spettatore nelle atmosfere della Hollywood dell’Età dell’Oro, in un’America degli anni successivi alla Grande Depressione del ’29. Mank non è il solito biopic che mostra una personalità famosa e controversa con le sue luci e le sue ombre, ma un film che offre lo spaccato di un’America che apparentemente non c’è più ma che per alcuni versi c’è ancora: quella della corruzione, dei potenti magnati, del “pesce grande mangia pesce piccolo”. Mank è un film che si lascia vedere e apprezzare, ma che per lo spettatore medio può rivelarsi a tratti lento (soprattutto la fase centrale, quella dedicata alla campagna elettorale per il Governatore della California), e chi non ha visto e non conosce Quarto Potere potrebbe vedere nei 130 minuti di film uno scoglio insormontabile. Possono inoltre confondere e risultare limitanti i continui flashback e voli pindarici che trasportano lo spettatore avanti e indietro tra gli anni ’30 e gli anni ’40 del secolo scorso. Per il resto però, rimane un film godibile e brillante, che racconta la Hollywood che fu con freschezza e brillantezza, senza risultare mai banale e stucchevole. Tutti i premi a cui è stato nominato, soprattutto quelli tecnici, sono più che meritati. Bisogna aspettare la fatidica Notte degli Oscar per vedere quante statuette riuscirà a portare a casa il buon David Fincher, che con questo film raggiunge uno dei punti più alti della sua carriera registica.
Mank è attualmente disponibile su Netflix.
Nonostante vanti quattro nomination in meno di Mank, Nomadland è, a detta di molte testate cinematografiche, il favorito come Miglior Film. La pellicola è la storia di Fern, una vedova alla soglia dei sessant’anni che, ritrovatasi senza marito e senza lavoro a causa della crisi economica che ha provocato la chiusura della fabbrica dove lavorava a Empire, Nevada, decide di vivere come una nomade andando alla scoperta degli Stati Uniti con il suo furgone, mettendosi sulla strada alla ricerca di una vita al di fuori della società convenzionale, svolgendo piccoli lavoretti stagionali e facendo la conoscenza di chi ha scelto il suo stesso stile di vita: del resto, come precisa Fern (interpretata da una fantastica Frances McDormand) lei non è una senzatetto (homeless) ma una “senza casa” (houseless). A metà tra un documentario e un film, Nomadland è un viaggio on the road attraverso un flusso di autocoscienza: in altre parole quello di Fern è un percorso alla scoperta di sé stessa, ma in cui ognuno, in questo periodo storico pieno di grandi incertezze, si può riconoscere. Come viene detto esplicitamente in uno dei (pochi) dialoghi del film, Fern incarna infatti in un certo senso lo spirito dei primi pionieri alla scoperta dell’America e delle sue terre: ma lei non è alla ricerca di una casa, ma di un nuovo futuro, incerto ma non per questo meno affascinante. Quello della Zhao, nominata per la Miglior Regia, è un film che si distingue per i suoi ritmi lenti e per la brillante fotografia che esplora le lande desolate e immense degli Stati Uniti Occidentali, un paese pieno di contraddizioni e sfumature. Particolarità di Nomadland è che, a parte McDormand, la quale si litiga l’ambito premio di Miglior Attrice con Carey Mulligan, l’unico attore professionista è David Strathairn: tutte le altre figure con cui Fern interagisce, da Linda a Swankie passando per il famoso vandweller Bob Wells, sono veri “nomadi”, ovvero persone che hanno scelto di loro spontanea volontà di vivere una vita minimalista “a quattro ruote”, e che insegneranno a Fern come essere autosufficiente e come condurre in totale serenità uno stile di vita che non è per tutti. Nomadland è un film lento, a tratti anche fin troppo, con pochi dialoghi, ma tutti significativi, pregni di umanità e sentimento, che raccontano uno spaccato di vita particolare: quello degli “ultimi”, degli invisibili, di quelle persone che si accontentano di poco e danno valore a quello che hanno, che hanno scelto di vivere in dei furgoni per volontà o per esigenza. Un film delicato e sincero, non dinamico e ricco di trama, ma che ha il sapore di genuina umanità. Occhi puntati su questo film, che di sicuro alla Notte degli Oscar darà molte soddisfazioni alla regista Chloè Zhao.
Nomadland sarà disponibile su Disney+ dal 30 aprile per tutti gli abbonati.
Stando alle valutazioni di Imdb e Rottentomatoes.com Judas and the Black Messiah è, tra i film candidati, quello maggiormente apprezzato dal pubblico, motivo per il quale la pellicola di Shaka King potrebbe rivelarsi la sorpresa dell’ultimo minuto per quanto riguarda il Miglior Film. Siamo alla fine degli anni ’60, negli anni in cui il Movimento delle Pantere Nere (BPP) si batte con le unghie e con i denti per la libertà, il riconoscimento dei diritti fondamentali alle persone nere e la fine dei soprusi da parte delle forze di polizia. Il giovane criminale Bill O’ Neal (Lakeith Stanfield) è costretto da un agente federale a infiltrarsi nella sezione illinoisiana del Black Panther Party per fornire all’FBI tutte le informazioni che riesce a raccogliere riguardo al leader, il carismatico Fred Hampton (interpretato da un Daniel Kaluuya che per questo ruolo è probabilmente il favorito alla statuetta come Miglior Attore Non Protagonista). La storia è raccontata, già dal (geniale) titolo, attraverso la metafora di Giuda e Gesù Cristo, ma più che incentrarsi sul rapporto tra Bill e Fred (a cui è comunque dedicato buona parte della pellicola) punta la lente di ingrandimento sulla lotta di classe e sul conflitto tra bianchi e afroamericani. Grande rilevanza è data inoltre alla psicologia di Bill e al suo conflitto interiore che, come un Giuda dei tempi moderni, è profondamente combattuto se continuare a sostenere la battaglia di Hampton o se, al contrario, tradirlo per poter risolvere i suoi guai con la legge e con l’FBI. Le due personalità di O’Neal e Hampton, complementari e radicalmente opposte, primeggiano e si distinguono in uno scenario contraddistinto dal razzismo e dalla lotta reazionaria. Molto più di un semplice pellicola storica, Judas and the Black Messiah è un film bello, profondo e di forte impatto, che si distingue per una recitazione impeccabile, per le musiche sempre azzeccate e per una fotografia distinta e accurata. Difficile che torni a casa a mani vuote.
Judas and the Black Messiah negli Stati Uniti è disponibile su HBO Max. In Italia è in esclusiva digitale da venerdì 9 aprile, disponibile per l’acquisto e il noleggio premium su Apple Tv app, Amazon Prime Video, Youtube, Google Play, Timvision, Chili, Rakuten TV, PlayStation Store, Microsoft Film & TV e per il noleggio premium su Sky Primafila e Infinity.
Tratto dall’omonima pièce teatrale portata in scena dallo stesso regista, The Father si presenta alla Notte degli Oscar con ben sei nomination. Il film è un tortuoso e drammatico viaggio nella vita di Anthony, un anziano malato presumibilmente di demenza senile o di Alzheimer che rifiuta categoricamente ogni aiuto da parte della figlia e delle badanti. Con il passare del tempo, Anthony dovrà fare sempre di più i conti con la sua malattia, un vero e proprio calvario che mina la sua lucidità. Olivia Colman è più che convincente nei panni di Anne, la figlia che è costretta a sopportare i continui deliri e sbalzi d’umore di un padre la cui ragione è ormai annebbiata, ma la vera punta di diamante del film è la magistrale interpretazione di Anthony Hopkins, che lo vede al momento come candidato favorito alla statuetta di Miglior Attore. Per tutto il film non vi è una netta distinzione tra la realtà oggettiva e la “realtà” di Anthony, ma lo spettatore viene trascinato in questo percorso a metà tra l’onirico e la lucida follia di un anziano le cui allucinazioni e sragionamenti lo trascinano sempre di più verso il baratro. L’intreccio diventa appositamente caotico e confusionario, con informazioni che si contraddicono e personaggi che si alternano, venendo a creare un mondo, quello di cui ormai è prigioniero Anthony, deformato. Un film toccante, dal finale catartico, impreziosito da una magnifica scenografia teatrale e da un montaggio che scandisce perfettamente i tempi scenici, che tratta un argomento importante che ha un certo peso nella quotidianità di chi vive la situazione di avere un padre o un nonno affetto dalla stessa malattia di Anthony. Quello di Zeller non è semplicemente un film sulla demenza senile, ma sul mondo visto attraverso gli occhi di chi, questa malattia, è costretta a viverla sulla propria pelle. Difficilmente The Father uscirà dal Dolby Theatre senza statuette.
In Italia, The Father non è ancora uscito.
Anche Sound of Metal si iscrive al club dei film che quest’anno vantano ben sei nomination ai Premi Oscar. Stavolta non siamo di fronte a un film storico, ma seguiamo le vicende di Ruben (Riz Ahmed, candidato come Miglior Attore Protagonista), un batterista metal che, presumibilmente a causa dei continui tour della band formata da lui e dalla fidanzata Lou, perde l’udito. La compagna vorrebbe che lui si unisse a una comunità di non udenti guidata dal sordo ed ex alcolista Joe (Paul Raci, candidato come Miglior Attore Non Protagonista), ma Ruben vorrebbe solo farsi operare per avere un impianto cocleare e riprendere la sua vita da musicista. Nel corso della sua permanenza nella comunità Ruben imparerà che la sordità non è un handicap, ma semplicemente una prospettiva diversa attraverso la quale vedere la vita in tutte le sue bellezze, amarezze e sfumature. Il conflitto di Ruben è ben delineato all’interno del film: per il protagonista perdere l’udito non significa solo rinunciare a uno dei cinque sensi, ma significa vedersi la terra crollare da sotto i piedi. Lui, che in un certo senso “vive” per il suo udito (dovendolo comunque usare per suonare) si ritrova nell’antitetica condizione di dovere imparare a vivere facendone a meno. Ma la sordità non viene vissuta attraverso patetismi e infiocchettature disneyane, ma con un realismo e oggettività che rendono questo film un lavoro autorevole e imperdibile. Il lavoro sul sound design in tutto questo non è nient’altro che la ciliegina sulla torta: se in alcune scene sentiamo e udiamo i dialoghi e i rumori di fondo “con le nostre orecchie”, in altre scene tutti i suoni sono ovattati e fortemente ridotti, come se il regista volesse farci vivere l’esperienza e il dolore di Ruben; la continua alternanza ci permette dunque di poter vivere la realtà oggettiva, quella fatta di suoni, rumori e clamori, e quella di Ruben, la cui vita è segnata dalla sordità. Lodevole e profonda è l’interpretazione di Riz Ahmed, primo attore musulmano a essere nominato agli Oscar, il quale riesce a dare vita a un personaggio che esternamente può sembrare apatico e freddo, ma che dentro di sé vive di rancori e di rabbia repressa. Per le riprese di questo film, inoltre, Ahmed ha dovuto imparare in pochissimo tempo a suonare la batteria e a esprimersi con il linguaggio dei segni americano. Nonostante lo sforzo a dir poco erculeo, però, è difficile che Ahmed riesca a portare a casa la tanto agognata statuetta di Miglior Attore, dal momento che davanti a lui ci sono mostri sacri del cinema quali Gary Oldman e Anthony Hopkins. Ma per quanto riguarda il Miglior Sonoro, sulla statuetta sembra già esserci inciso il nome di Sound of Metal.
Sound of Metal è attualmente disponibile su Amazon Prime Video.
Anche questo film, in lizza per il premio di Miglior Film, si è aggiudicato ben sei nomination. Siamo nel 1968, nello stesso periodo in cui è ambientato “Judas and the Black Messiah” (con l’unica differenza che se in quest’ultimo film la morte di Fred Hampton viene mostrata esplicitamente qui essa viene solo raccontata) e l’esercito degli Stati Uniti d’America, impegnato nella guerra del Vietnam, ha sempre più bisogno di truppe fresche per poter continuare l’estenuante conflitto. Una folla di manifestanti guidata da sette attivisti contrari alla guerra (Abbie Hoffman e Jerry Rubin, capi e fondatori del movimento degli Yppies; Tom Hayden e Rennie Davis degli Students for a Democratic Society; David Dellinger del Comitato di coordinamento nazionale per la fine della guerra in Vietnam; Lee Weiner e John Froines) si prepara a protestare alla Convention Nazionale del Partito Democratico a Chicago, ma la contestazione degenera in uno scontro tra la polizia e i manifestanti. I cosiddetti “Chicago Seven” vengono dunque arrestati e accusati di aver cospirato e di aver aizzato la folla manifestante contro la Guardia Nazionale. Portati in tribunale assieme all’innocente Bobby Seale, presidente del Movimento delle Pantere Nere, i sette attivisti vengono processati da un giudice, l’ingiusto e sfacciatamente parziale Julius Hoffmann, che fin dall’inizio mostra una certa antipatia per gli accusati, volendo dare a tutti i costi ragione alla parte accusante. Come enunciato più volte dal personaggio di Abbie Hoffman, quello contro di loro diventa a tutti gli effetti un processo politico. “Il processo ai Chicago 7” è un film potente e significativo, tecnicamente ineccepibile, con tematiche più attuali che mai quali il razzismo e il pregiudizio. In più scene del film emerge un sottile attacco al sistema legislativo americano, che anziché tutelare i cittadini viola i loro diritti più basilari. Quello di Sorkin è però un film che va guardato con molta attenzione, dal momento che per meglio comprendere le vicende della pellicola è necessario memorizzare la lunga sequenza di date, nomi ed eventi che vengono sparati a tutta velocità per tutto il tempo. Unici nei del film sono la forse troppo eccessiva sdrammatizzazione del processo e la smisurata polarizzazione delle parti coinvolte (nel senso: Chicago 7 = buoni, accusatori = cattivi). Notevole è anche la performance di Sasha Baron Cohen, il quale rende alla perfezione la figura talvolta comica talvolta seriosa del pacifista Abbie Hoffman: riuscirà il comico inglese a strappare la statuetta di Miglior Attore Non Protagonista all’attualmente favorito Daniel Kaluuya?
Il processo ai Chicago 7 è attualmente disponibile su Netflix.
Chiudiamo il cerchio dei film che quest’anno si presentano alla notte degli Oscar con sei nomination con questo film dalle tonalità bucoliche e dai tratti veristici, una sorta di “Malavoglia” in sala coreana-americana. Nel 1983, la famiglia Yi, formata da papà Jacob (Steven Yeun, in nomination come Miglior Attore Protagonista), mamma Monica e i piccoli David e Anne, si trasferisce in Arkansas dalla California alla ricerca di una nuova vita. Jacob infatti, stufo del suo lavoro di sessatore di pulcini, è ormai ostinato a voler diventare un produttore agricolo di ortaggi coreani da poter rivendere alle numerose comunità sudcoreane presenti nel territorio americano. Tuttavia la moglie, preoccupata per le condizioni del figlio David (il quale soffre di soffi cardiaci) non sembra appoggiare del tutto la cocciutaggine del marito, motivo per il quale la coppia spesso finisce per litigare. A peggiorare il quadro familiare di suo già poco idilliaco contribuisce il trasferimento, dalla Corea del Sud, della mamma di Monica, Soon-Ja, con la quale il piccolo David non riesce ad andare d’accordo. Il film prende il nome dall’omonima pianta, da noi meglio nota come “prezzemolo giapponese“, che la nonna Soon-Ja e il nipotino David piantano sulle sponde del torrente che cresce non lontano dal terreno di famiglia su cui sorge la fatiscente e squallida tiny house (casa prefabbricata di modeste dimensioni). Jacob è così dedito al suo lavoro di agricoltore che sembra quasi mettere in secondo piano l’affetto della famiglia, mentre Monica rimpiange la vecchia vita californiana che comunque assicurava una certa solidità al suo nido: il tocco d’autore del regista consiste nel giocare con queste contrapposizioni senza scadere nel melodrammatico e nel banale. Come Parasite, l’altro film coreano che l’anno scorso si è aggiudicato il premio come Miglior Film, Minari è la storia di una famiglia che riversa in difficoltà economiche in cerca di riscatto sociale, ma al contempo è anche la storia di un incontro-scontro tra due culture, quella americana e quella coreana (ben visibile già nei dialoghi dei personaggi che tra di loro alternano battute in coreano e in inglese) e tra tre generazioni. Quello di Lee Isaac Chung è un film lento ma ipnotico, che si lascia vedere e scoprire, che calamita l’attenzione dello spettatore ansioso di scoprire il destino della famiglia Yi. A tratti Minari ricorda, come si diceva, un po’ i Malavoglia di Verga (vuoi per la figura matriarcale di Soon-Ja, vuoi per le speranze legate all’attività di famiglia), a tratti una tragedia greca in cui i dialoghi favoriscono l’introspezione dei personaggi. Un film potente, non particolarmente ricco di trama ma di sentimenti ed emozioni, che ha già dato molte soddisfazioni al regista coreano-americano, ma che difficilmente può aspirare ad eguagliare il successo raggiunto da Parasite.
Minari in Italia non è ancora disponibile.
Niente male come esordio quello di Emerald Fennell, che alla sua prima prova alla regia può vantare ben cinque nomination ai Premi Oscar, tra cui quella di Miglior Film. Cassandra “Cassie” Thomas è, come dice il titolo del film (in inglese “Promising Young Woman“), una giovane donna promettente, con il massimo dei voti all’università alla Facoltà di Medicina. Tuttavia la morte della sua migliore amica Nina, suicidatasi dopo essere stata violentata a una festa collegiale dal collega di corso Al, la porta ad abbandonare gli studi e a tornare dai suoi genitori in Ohio. Da allora, la vita di Cassie va avanti attraverso una duplice missione: insegnare agli uomini a non approfittarsene delle donne ubriache (come fece Al con Nina) e vendicare l’oltraggio subito dall’amica del cuore, dal momento che nessuno credette che quello che capitò a Nina fu un vero e proprio stupro. Un film del genere non può che strizzare l’occhio al femminismo, qui ritratto nella sua frontiera più sfrontata, e al #MeToo. Un vero e proprio inno contro la mascolinità tossica della durata di quasi due ore, che raggiunge l’apice con un finale inaspettato e geniale. Non fraintendiamoci: non è certo intento del film far passare Cassie come un’eroina o come un personaggio positivo, dato che i suoi piani di vendetta sono tutt’altro che condivisibili; lei è una menade dei giorni nostri, invasata di una primordiale quanto lucida follia, che la porta a rifiutarsi di sottostare alle regole imposte dal “sesso forte“. Quella di Cassie è, in poche parole, una forte rabbia repressa, un rancore verso il mondo maschile che a poco a poco sfocia nella sete di vendetta. Il film tratta dei temi delicati e spinosi, quali i limiti del consenso sessuale, le molestie e le violenze da parte di quelli che sono solo apparentemente dei “bravi ragazzi”, le coperture istituzionali e le falle del sistema giudiziario, che si preoccupa più della credibilità della vittima, piuttosto che indagare le responsabilità degli indagati. Le atmosfere pulp e l’interpretazione di Carey Mulligan (che può sicuramente ambire alla statuetta della Miglior Attrice Protagonista) rendono il film una pellicola interessante, ma che purtroppo presenta qualche buco e qualche forzatura a livello di sceneggiatura. A tratti commedia noir a tratti thriller pazzesco e spietato, Una donna promettente è un ottimo esercizio di stile da parte della debuttante regista britannica.
L’uscita di Una donna promettente nelle sale italiane (con la speranza che riaprano presto) è prevista per il 23 luglio 2021.
Tratto dall’omonima rappresentazione teatrale di August Wilson, Ma Rainey’s Black Bottom ci fa respirare a pieni polmoni l’aria dei Ruggenti Anni ’20. Siamo a Chicago e la “Mother of Blues” Ma Rainey (una magnifica Viola Davis) viene assoldata da una casa discografica per incidere per la radio alcuni dei suoi brani più celebri, tra cui “Ma Rainey’s Black Bottom” che dà il titolo al film. Tuttavia, tra una band litigiosa, in cui spicca l’intraprendente, ribelle ed energico (a volte fin troppo) trombettista Levee (uno straordinario Chadwick Boseman alla sua ultima interpretazione) e l’atteggiamento altezzoso da diva della cantante, le cose non sembrano affatto prendere il verso giusto. Fiori all’occhiello di questo film sono senz’altro il pedissequo rispetto per il canone teatrale (tutto il film, eccezion fatta per la scena iniziale, è ambientato nello studio di registrazione) gli sgargianti e raffinati costumi, che contribuiscono a ricostruire alla perfezione l’atmosfera dell’epoca, e le magistrali interpretazioni dei protagonisti. Chadwick Boseman si distingue in un paio di monologhi da brividi e rende giustizia a un personaggio in costante evoluzione (o forse è meglio dire involuzione, ma evitiamo di fare spoiler!) psicologica, e non è assurdo pensare che, vuoi per la straordinaria performance, vuoi per onorarne la prematura morte, l’Academy possa dedicargli l’Oscar come Miglior Attore Protagonista in memoriam. Viola Davis, per l’occasione notevolmente appesantita e truccata vistosamente, è più che abile nel mostrare allo spettatore la poliedricità del personaggio che interpreta: se da una parte Ma Rainey si mostra come viziata, fredda e insofferente, d’altro canto ella mostra di avere una profonda e intima sensibilità, che ben traspare in una scena nella quale confida al trombonista Cutler di essere avvilita dal fatto che quello che per lei è la sua linfa vitale, il blues, è per i bianchi semplicemente un motivo di guadagno. Dunque Ma Rainey’s Black Bottom è un film che, oltre di musica, parla anche di razzismo e del divario, esistente allora come oggi, tra i bianchi e gli afroamericani: attraverso le storie che i musicisti si scambiano nella sala prove dello studio di registrazione, emerge un’America che, sempre allora come oggi, è una terra di profonde contraddizioni, dove la libertà e i sogni si alternano all’intolleranza e alla tensione. Un film teatrale, forse anche fin troppo, ma dove i monologhi e i dialoghi danno vita a una sfilata di emozioni e personalità.
Ma Rainey’s Black Bottom è attualmente disponibile su Netflix.
L’ultima fatica del regista della Trilogia di Bourne si presenta alla Notte degli Oscar con quattro nomination, aspirando fondamentalmente a premi tecnici. Tratto dall’omonimo romanzo di Paulette Jilles, Notizie dal mondo ci fa rivivere i tempi del vecchio e selvaggio West negli anni immediatamente successivi alla Guerra di secessione. L’ex capitano confederato Jefferson Kyle Kidd si guadagna da vivere girando di città in città per leggere e commentare alla popolazione semianalfabeta le notizie dei giornali locali e nazionali in cambio di pochi spicci. Un giorno, mentre è in viaggio, si imbatte in una bambina dagli occhi turchini e dai capelli biondi, ma che contro ogni aspettativa non parla inglese ma solo la lingua dei Kiowa. Johanna infatti (questo è il nome della bambina) è figlia di due immigrati tedeschi ma, rimasta orfana durante la guerra, è stata rapita e allevata dai nativi, a loro volta sterminati e cacciati dalle loro terre dall’esercito americano. Sarà dunque compito dell’ex capitano cercare una nuova casa alla bambina. Notizie dal mondo è un western atipico, con pochissima azione e molto spazio lasciato all’introspezione dei personaggi, soprattutto quella del combattuto protagonista. Tom Hanks è più che convincente nei panni di un cantastorie dei tempi moderni che ancora porta le cicatrici, fisiche e psicologiche, della Guerra di secessione e che ha una sua ferrea etica e virtù morale. La brillante fotografia ci mostra per poco meno di due ore i bellissimi paesaggi del vecchio West, mentre la colonna sonora, sempre azzeccata, rende scorrevole e godibile l’intreccio e il viaggio on the road di Kidd e Johanna. Il lungo tragitto percorso dai due protagonisti diventa non solo un viaggio della speranza attraverso intemperie e malintenzionati, ma un cammino verso la redenzione e verso la piena conoscenza della propria identità e dei legami affettivi. Ma la difficile traversata dei due protagonisti diventa anche l’occasione per mostrare un‘America divisa e dalle mille sfaccettature, dove il razzismo e l’intolleranza la fanno da padrone: in questo senso è inevitabile tracciare dei parallelismi con l’America degli anni della presidenza di Trump. Unico scivolone del film, perdonabile, è un’imbarazzante computer grafica visibile in alcune, fortunatamente brevi, scene.
Notizie dal mondo è attualmente disponibile su Netflix.
Quest’anno la Disney-Pixar si presenta con ben due film alla cerimonia degli Oscar, ma mentre Onward-Oltre la magia si deve accontentare della nomination come Miglior Film d’animazione, Soul aspira anche ai premi di Miglior Colonna Sonora e Miglior Sonoro. Joe Gardner (Jamie Foxx) insegna in una banda delle scuole medie, ma sogna di più e la sua ambizione di una vita è quella di suonare come musicista. Grazie all’ex allievo Curly, Joe ha finalmente la possibilità di suonare nel miglior jazz club di New York City con la leggenda del jazz di fama mondiale Dorothea Williams. Sfortunatamente, durante un impeto di gioia mentre torna a casa, Joe cade in un tombino scoperto e si ritrova sull’ascensore cosmico per l’Oltremondo. Joe non è ancora pronto ad arrendersi e fugge invece nell’Antemondo, una dimensione fantastica in cui ogni anima acquisisce la propria personalità prima di dirigersi sulla Terra. Presto si ritrova a collaborare con l’anima sarcastica e impertinente 22 (Tina Fey) che, al contrario suo, non ha alcun desiderio di andare sulla Terra. Ma mentre Joe unisce le forze con 22 per aiutare entrambi a ottenere ciò che vogliono, inizia a rivalutare anche la sua stessa vita e comincia a scoprire le risposte ad alcune delle più grandi domande della sua esistenza. Soul è un film maturo, forse fin troppo, che potrebbe lasciare indifferenti i bambini che non hanno tempo né voglia di porsi certi interrogativi che non competono alla loro età. Il primo approccio che si ha, nei primi minuti del film, è quello con la morte, che sopraggiunge inaspettata e prematura. Quella di Joe è una (quasi) dipartita goffa, trattata con una leggerezza quasi da Darwin Award, priva di quella drammaticità e di quel pathos che contraddistingue le morti dei film Disney e Pixar (siamo tutti, in un modo o nell’altro, ancora segnati dalla morte della mamma di Bambi e di Mufasa). Di lì in poi, Soul acquisisce una dimensione metafisica, tentando di rispondere, a modo suo, a due domande su cui i filosofi di ogni epoca hanno speso fiumi d’inchiostro: Cosa c’è prima della vita? E cosa c’è dopo? (sebbene già in Coco abbiamo assistito a una prima rappresentazione, più folkloristica e fantasiosa che metafisica, dell’aldilà). Soul, come si può capire, è un film Disney-Pixar atipico, che per certi versi continua e segue la falsariga di Inside Out, che già si era occupato di analizzare l’introspezione emotiva, aggiungendo però un significato ancora più profondo e incisivo, quello che le nostre passioni, le nostre “scintille” non devono diventare le nostre catene. Non dobbiamo vivere per le nostre passioni, ma dobbiamo coltivare le nostre passioni per vivere. Il vero scopo della vita è la vita stessa, con le sue gioie e i suoi dolori. Le chiavi di analisi e interpretazioni dell’ultimo film di casa Pixar sono molteplici e stratificate, impreziosite da una sceneggiatura nel complesso abbastanza solida. Il tutto è incorniciato da una splendida colonna sonora jazz, genere musicale che rappresenta una delle colonne portanti del film, che può aspirare senza troppi ostacoli all’Oscar, e da un’animazione meravigliosa che incrocia la tecnica tradizionale alla computer grafica tridimensionale.
Soul è attualmente disponibile su Disney+.
Tratto dalla omonima pièce teatrale di Kemp Powers, Quella notte a Miami… immagina un simposio intellettuale tra il fervente attivista Malcolm X, il pugile Cassius Clay, il re del soul Sam Crooke e il campione di football americano Jim Brown in quel dell’Hampton House Motel la sera del 25 febbraio 1964, giorno in cui Cassius Clay, il futuro Muhammad Alì, si aggiudica la cintura del titolo dei pesi massimi dopo un’agguerrita contesa con Sonny Liston. Adattando la sua opera, lo sceneggiatore Kemp Powers arricchisce lo scenario con fatti storici e verità su ciascuno dei suoi personaggi. Immagina ciò che le quattro celebrità si sono detti durante il loro incontro nella vita reale e la scrittura trova un’accuratezza emotiva nella sua licenza drammatica. Quella notte a Miami… è un film coinvolgente, pieno di momenti memorabili e di discorsi e discussioni stimolanti. I risultati di King e dei quattro protagonisti sono ancora più impressionanti se ci si ferma a pensare alle ombre che questi uomini proiettano, sia nelle loro incarnazioni nella vita reale che nelle loro rappresentazioni cinematografiche. Ogni attore eccelle nella sua parte, gestendo magistralmente i propri momenti individuali e le scene del loro insieme. Malcolm X è interpretato da Ben-Adir con una fragilità che prefigura sottilmente l’assassinio del leader dei diritti civili l’anno successivo. La sua serietà è scossa e il suo freddo intelletto portato all’ebollizione dall’energico e altrettanto vigoroso Cooke. Nella loro convinzione – o forse arroganza – Cooke e Malcolm X sono ritratti come due facce della stessa medaglia. Nel complesso, un’ora e cinquantacinque minuti che scorrono velocissime, senza mai tediare troppo lo spettatore, ma anzi stimolandolo con argomenti e trattazioni che, in una società logorata dal razzismo, sono più attuali che mai.
Quella notte a Miami… è attualmente disponibile su Amazon Prime Video.
Nonostante le feroci critiche che ha ricevuto da parte della critica internazionale, l’ultima fatica cinematografica di Ron Howard riesce a strappare all’Academy ben due nomination ai premi Oscar. Elegia americana (Hillbilly Elegy) è la storia autobiografica di J.D. Vance, studente di Yale cresciuto nell’agreste Ohio in una famiglia particolarmente difficile. Mentre è sul punto di ricevere un’importante borsa di studio, J.D. riceve la telefonata della sorella Lindsay, la quale lo avvisa che deve tornare a casa poiché la madre Bev è ricaduta nel vortice dell’eroina. J.D. affronta dunque un viaggio personale che lo porta a comprendere e accettare la propria famiglia. Attraverso il confronto tra tre generazioni diverse, spesso in contrasto tra loro, la storia della famiglia di J.D. riscopre la sua stessa essenza, tra alti e bassi. Giudicare un film del genere è un compito non di facile portata: le critiche che ha ricevuto dai recensori americani e italiani, seppur eccessivamente severe in alcuni casi, non sono affatto infondate. É oggettivamente vero, infatti, che Ron Howard trasforma un libro che critica lo stato assistenziale, il declino del mito del sogno americano e il divario tra classi sociali e tra realtà differenti in un film melodrammatico in cui il focus è fondamentalmente incentrato sulla dipendenza dall’eroina della madre. Glenn Close dà il meglio di sé (non a caso ha ricevuto la nomination come Miglior Attrice Non Protagonista) nel ruolo della nonna Mamaw, un personaggio di suo banale e senza particolare profondità, ma che comunque eccelle rispetto a tutto il resto. Vedendo le foto originali dei personaggi nei titoli di coda, lo spettatore può ben vedere che eccellente è stato il lavoro di trucco e acconciature sugli attori, motivo per il quale Elegia Americana può aspirare all’Oscar per tale categoria. Per il resto un film senza infamia e senza lode, che racconta uno spaccato di vita quotidiana attraverso flashback e riflessioni senza particolari colpi di brillantezza e genialità. Non il punto più basso della carriera di Ron Howard, come qualcuno ha sostenuto, ma di sicuro neanche il più alto.
Elegia Americana è attualmente disponibile su Netflix.
Scelto per rappresentare la Danimarca ai Premi Oscar di quest’anno, Un altro giro (Druk in originale) ha fruttato al regista Thomas Vinterberg, oltre alla nomination come Miglior Film Straniero, la nomination come Miglior Regista. La trama ruota intorno a una singolare teoria dello psichiatra norvegese Finn Skårderud, secondo il quale il raggiungimento di un certo livello di alcol nel sangue potrebbe rendere le persone più creative, socievoli, rilassate e, più in generale, felici. I quattro insegnanti Martin (Mads Mikkelsen), Tommy, Peter e Nikolaj, depressi e annoiati, vedono in questa ipotesi scientifica la loro ancora di salvezza per rivoluzionare le loro vite, ragione per cui cominciano a bere per far sì che il loro tasso alcolemico raggiunga la quota di 0,05. In un primo momento, l’esperimento produce gli effetti desiderati, e i quattro amici notano un notevole miglioramento della qualità della vita e dei rapporti sociali. Ma non appena decideranno di aumentare la quantità di alcol, i problemi non tarderanno ad arrivare. Un po’ dramma e un po’ commedia, Un altro giro si fa notare per l’originalità dei contenuti, che si fa fatica a credere che non provengano dalla mente di un cineasta americano. In tutto il film riecheggia uno spirito dionisiaco di nietzschiana memoria: i quattro insegnanti vedono infatti nell’alcol la chiave di volta che può cambiare le loro vite grigie e senza entusiasmo. L’alcol diventa la soluzione definitiva alle loro crisi di mezz’età, un farmaco per il corpo, per la mente e per lo spirito. Ma quella che sembra essere una cura si trasforma presto in veleno, dal momento che poi uno dei protagonisti non riuscirà a sfuggire al demone dell’alcolismo. Ma Un altro giro è molto più che un semplice film sulle luci e le ombre dell’alcol, ma si concentra di più sulle conseguenze sociologiche di quest’ultimo, vale a dire quanto influisce, a conti fatti, all’interno delle nostre vite e di quelle di coloro che ci circondano. Non è dunque un film che vuole bacchettare su uno consapevole dell’alcol, ma una pellicola che fa leva sul profondo senso civico insito in ognuno di noi. Le migliori parole per descrivere questo film sono quelle dello stesso regista, il quale spiega che “Per quanto riguarda la vita, le cose sono più complicate, e bisogna valutare bene la situazione: se la routine e il tran tran quotidiano di stanno uccidendo, o rovinando la tua relazione, allora esplora, corri qualche rischio, lotta e mettiti in gioco usando la tua curiosità.“
In Italia, Un altro giro è ancora inedito.
Dopo quattordici anni, torna il giornalista kazako più eccentrico e controverso del cinema, stavolta intento a ritornare negli USA per espiare le colpe del primo film, accompagnato dalla figlia Tutar (una bravissima e convincente Maria Bakalova, candidata come Miglior Attrice Non Protagonista). In un’America segnata dalla presidenza di Donald Trump e dal COVID-19, Borat si presta alle sue solite messinscene spassose e imbarazzanti, che regalano al pubblico un’abbondante ora e mezza di risate. Pur non vantando la stessa demenzialità e comicità del primo film, Sasha Baron Cohen riesce nell’impresa di rinnovare e rinfrescare un personaggio che rischiava di diventare stantio e fine a sé stesso: agli elementi originali del personaggio, quali il maschilismo e l’antisemitismo, si aggiunge infatti una sottile e raffinata satira nei confronti della politica di Trump. Ma il sequel di Borat è molto più di questo: è un film che mostra un’America scissa in due, che da una parte cerca di conformarsi al politically correct, ma che d’altro canto dà voce ai fanatici negazionisti del virus e agli attivisti QAnon, convinti che Trump sia un salvatore pronto a proteggere l’America. Ancora una volta la genialità di Sacha Baron Cohen è consistita nel mescolare il genere della candid camera al mockumentary, con “finte” interviste nelle quali gli interlocutori di Borat si lasciano andare a esternazioni razziste, xenofobe e sessiste. Un’operazione, questa, non scevra da rischi e pericoli: ne sono un esempio l’irruzione dell’attore britannico al comizio di Mike Pence travestito da Donald Trump e l’esecuzione di una canzone razzista e violenta in una manifestazione di estrema destra. Il bello di Borat- Seguito di film cinema è proprio quello di fare una sonora pernacchia all’odio e all’intolleranza frutto del governo di Trump mettendolo alla berlina. Il film di Woliner, apparentemente sboccato, irriverente e volgare, è dunque una veemente denuncia a un’America che deve cambiare, che non può più nascondersi dietro alle sue contraddizioni e ai suoi difetti.
Borat – Seguito di film cinema è attualmente disponibile su Amazon Prime Video.
Passiamo al primo dei due film che, pur non essendo candidato come Miglior Film Straniero, in un certo senso rappresenterà l’Italia alla Notte degli Oscar. Matteo Garrone dopo “Il racconto dei racconti – The Tale of Tales” (ispirato all’antologia fiabesca Il Cunto de li Cunti) e “Dogman” (ispirato invece ai raccapriccianti eventi del Canaro della Magliana) decide di portare in scena il Pinocchio di Collodi, aggiudicandosi la nomination per i migliori costumi e per il miglior trucco e parrucco. Il cast, che vanta grandi nomi del teatro italiano (comico e non), è di tutto rispetto: eccezionale è il Mangiafuoco di Gigi Proietti e convincenti sono Ceccherini e Papaleo (forse più il primo che il secondo) nei panni del Gatto e della Volpe. Ma il vero vanto del film è Roberto Benigni, che dopo aver interpretato il burattino collodiano nel 2002 viene qui proposto nelle vesti del buon Geppetto, ruolo che interpreta magistralmente. Se Garrone avesse dedicato l’intera pellicola alla figura di Geppetto, a quest’ora staremmo parlando di un film meraviglioso: Benigni rende alla perfezione l’umanità, la gratuità e l’intima delicatezza di questo personaggio. Con il suo accento toscaneggiante e quella sua mimica bizzarra e sbarazzina, Benigni rende giustizia alla figura umile e amorevole di Geppetto, che tanto si prodiga e si affanna per quel figliolo “nato” per magia da un ceppo di legno. Il Pinocchio di Garrone mantiene nella narrazione una certa fedeltà al testo collodiano, senza tuttavia rimanervi attaccato pedissequamente: con le sue atmosfere un po’ dark un po’ fantasy il regista cerca di creare un microcosmo tutto suo, un mondo a sé stante, con luci e ombre (molte, molte ombre!) che sembra quasi avere una propria mitologia interna. Nel voler dare vita a questo mondo magico e fiabesco, tuttavia Garrone scivola nell’orrido e nel raccapricciante: ne sono una testimonianza gli animali antropomorfizzati, i mostri ripugnanti e il design dello stesso burattino che più che un burattino sembra un bambino con la pelle di legno, una sorta di freak dei circhi americani d’inizio ‘900. Il vero problema di questo Pinocchio è Pinocchio stesso: interpretato senza troppe sbavature da un promettente Federico Ielapi, manca in questa figura quella raffinata complessità che Collodi aveva tratteggiato nel romanzo. Non c’è quella lotta tra bene e male, non c’è la tentazione che prevale sui buoni propositi. Manca del tutto quel viscerale desiderio di diventare un bambino che ha distinto tutti gli altri “Pinocchi” del cinema. Il Pinocchio di Garrone è un personaggio piatto, vuoto, indifferente, fine a sé stesso, vittima degli eventi e di un mondo crudele e meschino. Manca in lui quel conflitto interiore che mette in contesa la svogliatezza e la volontà di essere un buon figlio e un buon scolaro; mancano il rimorso, il senso di colpa, quell’indolenza che si alterna e si contrappone al senso del dovere: mancano, in generale, quelle mille sfumature e contraddizioni che rendono questo personaggio uno dei più affascinanti della letteratura mondiale. In questo film, l’acerbità, la banalità e la più totale mancanza di consapevolezza di sé rendono questo Pinocchio un personaggio difficile da empatizzare, anzi quasi ispirano indifferenza. Forse indifferenza è la parola che contraddistingue questo film: le due ore e cinque minuti di film scorrono abbastanza velocemente, ma il film non trasmette grandi emozioni. Non lascia quella morale intensa e profonda che sembra quasi arricchire l’anima. Racconta una storia che è già stata raccontata, la riassume sommariamente dimenticandosi di inserire quegli elementi patetici e commoventi che servono oggi più che mai alle nuove generazioni. Un film non brutto, ma che disperde la tensione tra la dolcezza di una povertà rassegnata e la frenesia di una reazione inevitabilmente distruttiva. Questo Pinocchio ha la grave colpa di non riuscire a immergere lo spettatore in quel mondo rurale a volte statico a volte dinamico che aveva immaginato Collodi.
Pinocchio è attualmente disponibile su Sky On Demand.
Non ci si poteva aspettare un esordio cinematografico migliore di così per la cantante Andra Day, che in questo film ricopre egregiamente il non facile ruolo di Billie Holiday, leggenda del jazz dall’esistenza travagliata. L’opera di Lee Daniels ricostruisce dunque, anche se in maniera episodica e in alcuni tratti con un po’ di approssimazione, la vita di una grandissima artista, vittima delle droghe e di una società opprimente verso gli artisti di colore. Ma il film si focalizza inoltre sull’operazione condotta dal Dipartimento Federale della Narcotici, guidata dall’agente afroamericano Jimmy Fletcher (Trevante Rhodes), che ha come obiettivo proprio la cantante, la cui canzone Strange Fruit ha suscitato scalpore. Dopo che Fletcher riesce a entrare nelle grazie della cerchia ristretta della cantante e ne organizza l’arresto, lotta con la sua coscienza: è convinto che la droga stia distruggendo la comunità nera, ma si rende anche conto di essere diventato uno strumento di un’organizzazione corrotta e razzista delle forze dell’ordine. Si trasforma quindi in una sorta di contro-agente, continuando a lavorare per l’ufficio mentre cospira con (e si innamora) la stessa Holiday. Ma nonostante tutta la semplicità della sua sceneggiatura e la diretta schiettezza dei suoi dialoghi, questo film è anche incredibilmente confuso. Le varie personalità (spacciatori, compagni di band, manager) entrano ed escono dalla vita di Holiday alla velocità della luce, ma è difficile avere un vero senso di queste relazioni. Andra Day comanda lo schermo, in particolare quando canta, mentre nel frattempo il personaggio dell’agente Fletcher sembra essere qui collocato principalmente per illustrare il suo suddetto dilemma centrale; si sente come un’idea piuttosto che come una persona. In effetti, la maggior parte dei personaggi del film sembrano esistere principalmente per sottolineare idee specifiche. Un film senza infamia e senza lode, non indimenticabile ma nemmeno spiacevole. Un’interessante panoramica su una personalità in eterno conflitto con sé stessa e con il mondo che la circonda.
In Italia The United States vs Billie Holiday è ancora inedito.
Un’impeccabile Sophia Loren e un promettente Ibrahima Gueye dominano la scena in questo film, trasposizione cinematografica del romanzo di Romain Guery del 1975. Diretto da Edoardo Ponti, figlio della stessa Sophia Loren, “La vita davanti a sè” è l’altro film che rappresenta il Belpaese alla notte degli Oscar, pur non concorrendo come “Miglior film straniero”. Madame Rosa è un’ex prostituta ebrea che, per sbarcare il lunario, si occupa dei figli delle altre prostitute che non possono accudirli per via del loro lavoro. Un giorno il medico di Madame Rosa, il dottor Cohen, chiede alla donna di prendersi cura di Momò, un bambino senegalese orfano che, senza figure genitoriali al suo fianco, si sta avvicinando sempre di più al mondo della delinquenza e della criminalità organizzata. Nonostante l’iniziale astio tra la severa e rigida Madame Rosa e il discolo e impertinente Momò (il quale, prima di essere adottato da Madame Rosa, aveva tentato di derubarla), tra i due nascerà una delicata e intima amicizia. Edoardo Ponti trasferisce le vicende del romanzo di Guery dalla multietnica Parigi degli anni’70 alla Bari dei giorni nostri, dove le bellezze del lungomare pugliese si alternano a scene di degrado e di malaffare. Il film racconta, con un notevole tatto e senza scendere in banalità d’occasione, il difficile rapporto tra generazioni, etnie, religioni e culture diverse: Madame Rosa è una reduce dell’Olocausto, mentre Momò, pur mantenendo e conservando le sue origini, cerca una vita agiata e senza pensieri. Sophia Loren, con una bravura che solo una stella del cinema del suo calibro può avere, racchiude all’interno della figura della protagonista (quasi) tutti i ruoli che l’hanno fatta diventare famosa: Madame Rosa è infatti una donna dal passato travagliato, che la vita ha inacerbito e irrigidito, ma che conserva dentro di sé un grande e profondo senso di umanità. A impreziosire il toccante e delicato finale vi è inoltre “Io sì (Seen)“, il commovente brano di Laura Pausini, già vincitore del Golden Globe, che punta alla statuetta di “Miglior Canzone Originale“.
La vita davanti a sé è attualmente disponibile su Netflix.
Miglior Film | Nomadland |
Miglior Regista | Chloè Zhao (Nomadland) |
Miglior Attore Protagonista | Anthony Hopkins (The Father) |
Miglior Attrice Protagonista | Carey Mulligan (Una donna promettente) |
Miglior Attore Non Protagonista | Daniel Kaluuya (Judas and the Black Messiah) |
Miglior Attrice Non Protagonista | Olivia Colman (The Father) |
Miglior Sceneggiatura Originale | Il processo ai Chicago 7 |
Miglior Sceneggiatura Non Originale | Nomadland |
Miglior Film Straniero | Un altro giro – Durk (Danimarca) |
Miglior Film d’Animazione | Soul |
Miglior Fotografia | Erik Messerschmidt (Mank) |
Miglior Montaggio | Giorgos Lamprinos (The Father) |
Miglior Scenografia | Donald Graham Burt, Jan Pascale (Mank) |
Migliori Costumi | Ann Roth (Ma Rainey’s Black Bottom) |
Miglior Trucco e Acconciatura | Eryn Krueger Mekash, Matthew Mungle e Patricia Dehaney (Elegia Americana) |
Miglior Colonna sonora | Trent Reznor, Atticus Ross, Jon Batiste (Soul) |
Migliori Effetti Speciali | Andrew Jackson, Andrew Lockley, Scott R. Fisher, Mike Chambers (Tenet) |
Miglior Sonoro | Phillip Bladh, Nicolas Becker, Jaime Baksht, Michelle Couttolenc, Carlos Cortés, Carolina Santana (Sound of Metal) |
Miglior Canzone Originale | Speak now – Sam Ashworth; Leslie Odom Jr. (One Night in Miami) |
Miglior Documentario | Il mio amico in fondo al mare |
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