Rai impantanata, tra nomine bloccate e rischio riduzione canone

La situazione della Rai peggiora, di settimana in settimana, e si aggrava con l’avvicinarsi dell’approvazione della “legge di stabilità”, perché nella finanziaria si scorgono varie “mine vaganti”, ovvero emendamenti che vanno ad incidere sulla ripartizione del canone radiotelevisivo ormai obbligatorio nella bolletta elettrica.

Il demone da esorcizzare è comunque ancor più grave, perché sembra registrarsi una qual certa sintonia all’interno della maggioranza, rispetto anche ad una prospettiva estrema, anzi estremista, quale sarebbe addirittura l’abolizione del canone Rai ovvero l’assimilazione di Viale Mazzini alle televisioni commerciali.

Prospettiva infausta, perché scardinerebbe uno dei tratti fondamentali del sistema televisivo (e mediale) italiano. Si dirà che in Spagna il canone televisivo è stato eliminato e il “public service broadcaster” è sopravvissuto alla tempesta… Si dirà che nel Regno Unito esiste un’emittente televisiva, parallela alla Bbc, qual è Channel 4, che svolge senza dubbio funzioni di servizio pubblico, anche se è finanziata prevalentemente dalla pubblicità… Senza dubbio, queste osservazioni sono corrette, ma si tratta di eccezioni alla “regola”: e la regola – semplice, essenziale, elementare – è che un “psb” dipendente dalla pubblicità tende ad omologarsi ai suoi concorrenti.

Abolire il canone Rai si tradurrebbe in una rapida mercificazione e mortificazione del servizio pubblico.

Viale Mazzini appare sempre più allo sbando, le tensioni della maggioranza si rispecchiano nel cda, e si registrano strane convergenze tra M5S, Italia Viva, Pd, e Lega, che chiedono una riduzione del canone… “punitiva”.

Giovedì 28 novembre si è tenuta una riunione del Consiglio di Amministrazione che avrebbe dovuto ufficializzare una significativa tornata di nomine, ma il tutto è stato ancora una volta rimandato, dato che – evidentemente – l’Amministratore Delegato Fabrizio Salini non riesce a trovare la quadra.

Alcune considerazioni di scenario appaiono indispensabili.

Il canone televisivo italiano è tra i più bassi d’Europa, eppure c’è chi lo vuole ridurre e chi addirittura eliminare.

Buttare il bambino assieme all’acqua sporca?

La Rai ha senza dubbio tanti difetti, ma eliminare il canone significherebbe buttare via il bambino assieme all’acqua sporca, punire la tv pubblica italiana rendendola schiava della pubblicità ed ancor più suddita della politica. Mercificazione e mortificazione, sono i due concetti-chiave, che ben sintetizzano il rischio latente.

La Rai che vediamo è quella voluta dalla cosiddetta “riforma Renzi” di fine 2015, una riformina che ha accentrato il potere di gestione aziendale nelle mani dell’Amministratore Delegato, e che ha determinato un salto di qualità (in basso): dalla Rai “partitica” alla Rai “governativa”.

L’Ad di Rai s.p.a. è infatti nominato dal socio Ministero dell’Economia, e già soltanto questo evidenzia la dipendenza dall’Esecutivo. La riforma renziana ha determinato la riduzione del numero dei consiglieri, da 9 a 7, di cui 2 scelti dal Governo, 2 eletti da Camera e 2 dal Senato, 1 dai dipendenti. 

In nome di decisionismo e semplificazione, si è messo in atto un paradossale processo di complessificazione, che ha reso la Rai più debole e dipendente dalla politica, anche perché si è deciso di abbassare il canone, dai 113,5 euro del 2015, ai 100 del 2016 ai 90 del 2017 e 2018, riducendo sì l’evasione (che era arrivata fino a quote del 30 %) facendo pagare questa imposta (tale è) attraverso la bolletta elettrica, ma non assegnando però tutto il gettito del canone a Rai, bensì utilizzandone una parte per scopi altri, in funzione dei desideri mutevoli del Parlamento, di anno in anno, in legge di bilancio.

Si è venuto a determinare un vero pasticcio: un brutto pasticcio, sia dal punto di vista economico (incertezza delle risorse) sia politico (immutata influenza dei partiti).

Esponenti di punta del Partito Democratico, come Antonello Giacomelli (già Sottosegretario alle Comunicazioni) hanno riconosciuto, a denti stretti, che la riforma renziana è fallita, ma l’autocritica è tardiva.

La riforma – che rafforzava l’influenza del Governo sulla Rai – era basata sul presupposto (illusorio) che il Paese fosse dotato di una maggioranza stabile. Il che non era e non è stato, nonostante le illusioni “napoleoniche” di Renzi.

Dal dicembre 2015, sono trascorsi quattro anni: si è passati da un Ad di fiducia renziana, Antonio Campo Dall’Orto, che si è dimesso quando si è reso conto di non poter remare contro il suo “padrone” (Matteo Renzi), al nuovo Ad nominato nel luglio 2018, Fabrizio Salini, di fiducia del premier Giuseppe Conte nell’esecutivo giallo-verde.

Fabrizio Salini non ha brillato certo per decisionismo, ed è ormai messo in crisi dalla nuova maggioranza del “Conte 2”, ancora una volta costretto a “contrattare” penosamente le nomine dei dirigenti apicali in logica partitocratica.

Risultati concreti?! Il processo decisionale è ancora lento e macchinoso, il motore Rai è imballato.

Nel febbraio 2019 è stato approvato un “piano industriale” per il 2019-2021, che prevede un radicale cambiamento: da una Rai strutturata per “reti” ad una Rai strutturata per “generi”. Una mutazione epocale, che determina una riorganizzazione aziendale interna complicata, anche perché inevitabilmente si dovrà ragionare su modificazioni di “mansionario” per migliaia di dipendenti: un processo che i più temono, perché può produrre effetti devastanti in una “macchina burocratica” che, pur con tutti i suoi difetti, mantiene ancora una buona quota del mercato televisivo tradizionale.

“Nel bene e nel male”, la Rai è un “psb” con i maggiori ascolti in Europa

In effetti, va rimarcato che nel 2018 ancora il 36,3 % dei telespettatori italiani ha preferito Rai, a fronte del 31,2 che ha scelto Mediaset, del 4,2 di La7, dell’8 di Sky+Fox, del 6,8 di Discovery e del 13,5 % delle altre tv.

Nel bene e nel male, quindi la Rai è ancora oggi una delle tv pubbliche in Europa con la maggior quota di ascolti, anche se, con i suoi circa 13mila dipendenti, ha una forza-lavoro inferiore a quella dei “psb” tedeschi ovvero ai 32mila di Ard + Zdf + Deutsche Welle, ai 21mila della britannica Bbc e finanche ai 16mila della Francia.

Il canone è di 210 euro in Germania, 166 euro in Regno Unito, 139 euro in Francia.

Nel 2018, Rai ha chiuso l’esercizio con un totale di ricavi di 2.401 milioni di euro, sostanzialmente identico all’esercizio 2017, di cui 1.758 milioni da canone e 550 da pubblicità (94 milioni vengono da altre fonti). I ricavi da canone sono stati inferiori di 20 milioni di euro, nel 2018 rispetto al 2017: un paradosso, a fronte della sostanziale eliminazione dell’evasione. Perché una parte del canone è stata destinata dallo Stato ad altre attività, in primis il finanziamento del cosiddetto “fondo per il pluralismo”.

E, a differenza delle sorelle britanniche, tedesche, francesi, la Rai trasmette un bel po’ di pubblicità (inesistente nella tv pubblica britannica, limitata assai nelle tv tedesche).

L’economia politica della tv insegna che più una emittente pubblica dipende dalla pubblicità, più essa tenderà ad omologarsi alle concorrenti commerciali. Ed infatti la Rai è già un ircocervo.

Una fondazione, per garantire risorse stabili ed indipendenza dai partiti

Se le si volesse assegnare indipendenza dalla politica, le si dovrebbero assicurare risorse certe e stabili, ed una “governance” che ponga un filtro tra il Governo / Parlamento e il Cda, per esempio attraverso una fondazione cui partecipino gli esponenti della società civile. Qualche proposta di legge, nel corso degli anni, c’è stata, ma ha sempre registrato percorsi fallimentari, andando a finire sui binari morti dell’iter parlamentare.

Quel che è emerso negli ultimi mesi, è invece una bislacca idea del Movimento 5 Stelle di abolizione del canone, e di assimilazione della Rai ai tetti pubblicitari delle tv private: idea fatta propria a metà luglio dallo stesso Capo Politico del Movimento Luigi Di Maio, ma poi frenata e riemersa a metà novembre con una proposta della deputata Maria Laura Paxia (il cui testo, dopo quattro mesi di attesa, è stato reso noto soltanto la settimana scorsa: vedi “Key4biz” del 15 novembre 2019, “Abolizione canone Rai: pubblicata la proposta di legge di Maria Laura Paxia (M5S)”).

Si tratta di una idea – come abbiamo già segnalato con cura su queste colonne – sostanzialmente condivisa dalla Lega, e, da qualche giorno, anche da Italia Viva, se è vero che il deputato Michele Anzaldi ha addirittura promosso una petizione su web, che ha superato in pochi giorni le 25mila firme. Anzaldi ha anche proposto che, a fronte dell’inadempienza della Rai (secondo lui) ai suoi compiti di servizio pubblico, la si vada a… punire riducendo progressivamente, di anno in anno, il canone! Alla faccia della “indipendenza” del servizio pubblico: meglio il bastone e la carota!

Gli ha fatto eco, dal Pd, il Ministro per gli Affari Regionali Francesco Boccia, sostenendo che, visto come Rai si sta comportando (per esempio nel seguire – male, a parer suo – i gravi eventi climatici delle ultime settimane), è meglio destinare una parte del canone Rai a favore delle tv locali…

Queste sortite, oscillanti tra il populista ed il demagogico, non sono basate su analisi minimamente serie, ma sono la conferma di come molti politici vogliano continuare ad imbrigliare la Rai.

Negli ultimi due anni, non c’è stato un partito uno che si sia fatto promotore di una riflessione tecnica, accurata e strategica, sul futuro del servizio pubblico nella nuova dimensione digitale: totale assenza di analisi comparative internazionali, nel deserto di idee, nemmeno un convegno! Unico conato di attenzione s’è registrato tre settimane fa, per una iniziativa, ma… “uti singuli”, del senatore grillino Primo Di Nicola, che non ci sembra abbia registrato particolari adesioni o entusiasmi di sorta (vedi “Key4biz” dell’8 novembre 2019, “Una nuova Rai è possibile?”).

Rai ha certamente tanti difetti, ma eliminare il canone significherebbe decretarne la morte identitaria e la sua omologazione alla televisione commerciale.

Patuanelli ministro contraddice Patuanelli deputato?!

Quel che stupisce, nella situazione attuale, è il livello intenso delle “contraddizioni interne” della maggioranza di Governo.

Il titolare del Mise è quello stesso Stefano Patuanelli che il 17 luglio scorso (precedente maggioranza e “Conte 1°”) co-firmava un disegno di legge il cui titolo era esattamente lo stesso della proposta di legge della collega deputata Maria Laura Paxia (Atto Camera n. 1983). E questa proposta non punta alla riduzione del canone, ma alla sua eliminazione! Va osservato che la proposta a firma Stefano Patuanelli e Gianluigi Paragone (ormai tra i dissidenti interni del M5s) è stata annunciata il 17 luglio (Atto Senato n. 1417), ma al 29 novembre il testo non è ancora disponibile (anche la proposta Paxia ha vissuto una lunga quanto strana gestazione…).

Il quesito di fondo è: Patuanelli ministro non la pensa come Patuanelli deputato?! È forse questa la ragione per la quale il testo della proposta a sua firma in Senato resta… misterioso?! “Nessun testo disponibile”, recita ancora oggi la scheda sul sito del Senato.

Va anche osservato che lo stesso Patuanelli (ministro) pochi giorni fa ha prospettato una soluzione “intermedia”, un compromesso tra “mantenimento” ed “eliminazione”: “riduzione”. Martedì 19 novembre, il Ministro, in audizione in Commissione Vigilanza, ha dichiarato: “credo che il passaggio del canone nella bolletta elettrica con la riduzione dell’evasione e dunque con l’incremento del gettito, debba portare a una riduzione del canone partendo dalle fasce più deboli. Ciò deve essere fatto dopo una riorganizzazione e una razionalizzazione dei costi. E in questo esprimo la posizione del governo”. Siamo sicuri che questa sia la “posizione del Governo”?!

In ogni caso, va osservato che il Ministro precisa “dopo una riorganizzazione”: si riferisce a quella che Fabrizio Salini ha in cantiere, ovvero il radicale passaggio dalla struttura “per reti” a quella “per generi”?! E cosa intende per “razionalizzazione dei costi”, allorquando i nuovi obblighi imposti dal Contratto di Servizio tra Stato e Rai richiederebbero, per essere soddisfatti a pieno (basti pensare al canale internazionale in lingua inglese) risorse nuove ed integrative, che certamente non possono derivare da una generica “razionalizzazione” dei costi. Comunque, nelle parole del Ministro, conta molto quel “dopo”.

E cosa pensa in materia la Sottosegretaria Mirella Liuzzi, che tanto si interessa di telecomunicazioni e media, sebbene non abbia ancora ricevuto le deleghe dal Ministro suo compagno di partito?!

Si ricordi anche che nel “Programma Telecomunicazioni” del M5S (programma parziale del 20 luglio 2017), si leggeva: “altro punto da tener presente quando si parla di servizio pubblico è il suo finanziamento. In Italia vige un sistema “ibrido”, per questo abbiamo strutturato una proposta che permetta di restare ancorati alla missione di servizio pubblico, circoscrivendo la pubblicità a un solo canale e prevedendo determinati vincoli”.

Eliminare… il canone?!

Eliminare… la pubblicità?!

Eliminare… la Rai???

Grande confusione, allora come oggi.

L’Usigrai ha tuonato, con un intervento netto del Segretario Vittorio Di Trapani: ricorda che “il ministro Patuanelli sia uno dei due firmatari del piano industriale triennale. Il contratto di servizio prevede che il piano industriale venga presentato tenuto conto delle risorse derivanti dal canone. E lui che fa? Cambia le carte in tavola, rendendo impossibile l’attuazione del piano. Al momento della firma nel marzo 2018, si sapeva che l’intero gettito sarebbe andato alla Rai, ma così non è stato. E a marzo, non un altro ministro ma proprio Patuanelli ha vidimato il piano, controllando in precedenza soldi e obiettivi. Sconfessando le premesse che stanno alla base del piano industriale, il ministro viola il piano di servizio”.

Deprimente la reazione di Fabrizio Salini, audito martedì scorso 26 novembre in Commissione Vigilanza: qualche battuta sconsolata, ricordando che, semmai Rai fosse costretta ad una cura dimagrante rispetto alle risorse previste, anche lo stesso “Piano industriale 2019-2021” (approvato il 4 marzo 2019) sarebbe destinato a restare un castello di carte.

E già qualcuno sostiene che l’Amministratore Delegato stia valutando l’ipotesi estrema: dimissioni. Salini ha ricordato che dal canone arrivano a Rai risorse inferiori a quelle del 2013: un autentico paradosso. Nessuna risorsa aggiuntiva attraverso l’inserimento del canone in bolletta elettrica: a Viale Mazzini arriva 1 euro su 2 di quelli recuperati all’evasione. Ha precisato: “se dovesse avvenire” un’altra riduzione delle risorse alla Rai (vedi supra, gli emendamenti-mina alla manovra che propongono di prelevare ancora un 10 % del canone da destinare al Fondo per il pluralismo, o peggio-ancora una qualche legge-bomba di riforma), “dovremmo sederci tutti e rivedere il Contratto di servizio e anche la fattibilità del Piano industriale”. Ed allora “bye bye baby”, per il “Piano Industriale” ed il futuro di medio periodo della Rai.

Come ci siamo domandati anche su altre colonne (vedi il nostro articolo odierno sul quotidiano “il Riformista”), in ipotesi di abolizione del canone, gli estremisti liberisti esulterebbero, ma avremmo forse un sistema mediale più plurale, in una fase così delicata della nostra democrazia, che richiede piuttosto baluardi di selezione qualitativa rispetto al flusso crescente delle fake news?!

Il quesito di fondo è: chi sta stimolando questa anomala alleanza tra Partito Democratico (una parte del Pd, andrebbe precisato), il Movimento 5 Stelle (una parte del M5S, andrebbe precisato), Italia Viva (per ora si è espresso soltanto il “soldato” Michele Anzaldi e non il “dominus” Matteo Renzi, che però già nel gennaio 2018 auspicava l’abolizione di quella che definiva una “brutta tassa”) e la Lega Salvini?! Da Liberi e Uguali (Leu), che pure di questo governo sono partner, silenzio-stampa.

Ci piace ricordare quel che sosteneva nel gennaio 2018 Carlo Calenda, allora Ministro dello Sviluppo Economico, rispetto all’abolizione del canone, in polemica con l’allora Presidente del Pd Matteo Renzi: “i soldi dello Stato sono i soldi dei cittadini e dunque sarebbe solo una partita (presa) di (in) giro”. Non è certo stata determinante questa vicenda, ma Calenda è uscito dal Pd a fine agosto 2019, lanciando il 21 novembre scorso una sua nuova formazione politica, Azione, di ispirata al “liberalismo sociale”.

Quel che va osservato è che il (non) dibattito non beneficia di un confronto, aperto e pubblico, con la società civile, ma avviene soltanto nelle sempre più segrete stanze di quelle che un tempo s’usava definire “segreterie di partito”, e che oggi sono sfuggenti riunioni a porte chiuse in misteriosi palazzi.

Questa vicenda è grave e delicata, strategica per il futuro culturale del Paese e – ci si consenta – per la stessa democrazia. Va ben oltre le solite polemiche sulle nomine dei dirigenti apicali, sui conflitti di interesse, sul ruolo degli agenti, sulla gestione non trasparente degli appalti per la produzione di fiction…

C’è un complotto per uccidere la Rai?!

Rai impantanata, tra nomine bloccate e rischio riduzione canone