SE SPARISCE L’ORDINE DEI GIORNALISTI, CHE SUCCEDE AI GIORNALISTI ? Di Zaira Bertucca
Abolire l’ordine dei giornalisti non è impossibile. È anzi il passo necessario che l’Esecutivo post-Gentiloni è chiamato a fare. Almeno su questo aspetto sono concordi tutti i partiti politici, e compatti sono i giornalisti stanchi di non poter esercitare la propria professione liberamente. Sopraffatti, spesso, dall’impossibilità di diventare professionisti a causa di un esame di Stato gestito con criteri ambigui, su cui l’Ordine resta silente. Su quest’ultimo aspetto si è soffermato anche il giurista Antonio Giangrande, nel suo libro “Concorsopoli ed esamopoli”.
Che finora partiti, comunicatori, attivisti abbiano fallito, non conta poi tanto: la gestione poco chiara dei bandi di gara da parte dell’Odg e quella degli esami professionalizzanti non erano ancora cosa nota. Ora, grazie al tam-tam di internet, lo sono. Prima Carta di Roma, che fa capo all’Odg, poteva sembrare un’associazione contraddistinta da buoni propositi, oggi, grazie al contributo risolutivo del sito Lucadonadel.it e dell’esperta di comunicazione Francesca Totolo, sappiamo che dietro ai suoi propositi filo-immigrazionistici si nascondono la mano e il portafogli del magnate di Open Society George Soros.
Stangate per un ordine mantenuto a fatica da decenni che, già da solo, ha perso colpi: prima con l’andata rumorosa dell’ex presidente Enzo Jacopino, oggi con l’ingresso del napoletano Carlo Verna, già al centro dello scandalo nomine Usigrai. Ma allora perché non è ancora tutto finito? Perché il lavoro delle Procure sembra lento, assai lento, e, di recente, a causa dell’indecisione sulla formazione del nuovo governo. Di certo, ai nuovi inquilini di Palazzo Chigi spetterà farsi carico della patata bollente. Primo tra tutti, al nuovo ministro di Grazia e Giustizia, che vigila su tutti i Consigli e che avrà il potere – oltre che l’obbligo dettato dal suo dicastero – di sciogliere l’attuale Consiglio per inosservanza degli obblighi imposti dalla Legge. In questa ottica, infatti, vanno lette le questioni emerse a partire dallo scorso dicembre, di cui ha dato conto il sito Scenari Economici.
Al ministro con delega all’Informazione e alla Comunicazione, cui spetterà il compito di prendere atto del malcontento dei giornalisti impossibilitati a lavorare liberamente e di avanzare di grado se non si scende a patti con un sistema ambiguo. Non da ultimo, al Premier: si tratti di un leghista, un pentastellato o un berlusconiano, sarà chiamato a rintracciare soluzioni alternative che regolamentino la professione. Non sarà difficile, visto che l’alternativa è già pronta, ed è costituita dalla Legge 3/2013, “Disposizioni in materie di professioni non organizzate” in ordini e collegi, svolte in via prevalente mediante lavoro intellettuale. Questo, da un lato, continuerebbe a permettere l’esistenza di associazioni di settore, senza che nessuna abbia tuttavia carattere prevalente e senza obblighi di adesione da parte dei giornalisti. Con questo passaggio, anche l’Italia si allineerebbe finalmente agli altri Paesi europei ed extra-europei, meno corporativi e più lungimiranti in materia di “gestione” dell’informazione.
Nel pratico, cosa accadrebbe ai giornalisti? Non sussistendo più la divisione in elenchi gestiti da un ente, tutti sarebbero ugualmente giornalisti, sia chi svolge la professione in maniera esclusiva sia chi la svolge occasionalmente. A quel punto, un’abilitazione sul modello della Svizzera (dove è sufficiente provare la propria professionalità tramite curriculum), aiuterebbe a uscire dall’empasse di un possibile mare magnum di incompetenza. Verrebbe messo da parte l’obolo annuo all’ordine e anche quello ai sindacati di categoria, certo non famosi per le loro battaglie a tutela dei giornalisti o nei riguardi delle testate inadempienti. E l’esercito di precari, freelance e lavoratori senza contratto? Sempre stando al modello svizzero, per chi è in grado di provare l’esercizio della professione si potrebbero di certo aprire nuovi orizzonti lavorativi. Per chi già professionista lo è, tutto rimarrebbe invece invariato. Una vera riforma, che andrebbe ben oltre quella (solo apparente) sancita dalla Legge 198/2016 in materia di editoria.
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