Thunderbird Android client is K-9 Mail reborn, and it’s in solid beta
Thunderbird’s Android app, which is actually the K-9 Mail project reborn, is almost out. You can check it out a bit early in a beta that will feel pretty robust to most users.
Thunderbird, maintained by the Mozilla Foundation subsidiary MZLA, acquired the source code and naming rights to K-9 Mail, as announced in June 2022. The group also brought K-9 maintainer Christian Ketterer (or “cketti”) onto the project. Their initial goals, before a full rebrand into Thunderbird, involved importing Thunderbird’s automatic account setup, message filters, and mobile/desktop Thunderbird syncing.
At the tail end of 2023, however, Ketterer wrote on K-9’s blog that the punchlist of items before official Thunderbird-dom was taking longer than expected. But when it’s fully released, Thunderbird for Android will have those features. As such, beta testers are asked to check out a specific list of things to see if they work, including automatic setup, folder management, and K-9-to-Thunderbird transfer. The beta will not be “addressing longstanding issues,” Thunderbird’s blog post notes.
Launching Thunderbird for Android from K-9 Mail’s base makes a good deal of sense. Thunderbird’s desktop client has had a strange, disjointed life so far and is only just starting to regain a cohesive vision for what it wants to provide. For a long time now, K-9 Mail has been the Android email of choice for people who don’t want Gmail or Outlook, will not tolerate the default “Email” app on non-Google-blessed Android systems, and just want to see their messages.
Google rischia lo “spezzatino”: il governo USA valuta la fine del monopolio nella ricerca online
Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti sta valutando la possibilità di forzare Google a cedere parti della sua attività per porre fine al suo dominio nel settore della ricerca online. Questa mossa, riportata dal Financial Times, rappresenta il tentativo più audace finora per limitare il potere di uno dei giganti tecnologici globali.
La svolta antitrust
Dopo anni di crescita incontrollata dei colossi del tech, il governo USA, guidato dal presidente Biden, sembra aver cambiato approccio. Il Dipartimento di Giustizia e la Federal Trade Commission hanno avviato azioni legali contro Google, Apple, Amazon e Meta, accusandoli di pratiche anticoncorrenziali.
Questa nuova ondata di interventi antitrust arriva dopo una storica vittoria del Dipartimento di Giustizia ad agosto, quando un giudice ha stabilito che Google ha violato la legge antitrust statunitense, definendo l’azienda un “monopolista“.
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Le possibili sanzioni a Google
Il Dipartimento di Giustizia sta considerando diverse misure per limitare il potere di Google, tra cui:
“Spezzatino” di Google: forzare l’azienda a cedere attività come il browser Chrome, l’app store Play e il sistema operativo Android per impedire che vengano utilizzati per favorire il suo motore di ricerca.
Condivisione dei dati: obbligare Google a condividere i dati di ricerca con i concorrenti.
Limitazioni sull’IA: limitare la capacità di Google di utilizzare i dati di ricerca per addestrare i suoi modelli di intelligenza artificiale.
Divieto di accordi esclusivi: vietare i contratti esclusivi, come quello da 20 miliardi di dollari l’anno con Apple per essere il motore di ricerca predefinito su Safari.
Un caso storico
Il caso Google potrebbe diventare la più grande vittoria antitrust per il Dipartimento di Giustizia dallo scioglimento di Microsoft nel 1999 (sentenza poi annullata in appello). Il processo entrerà ora in una seconda fase, in cui il giudice Mehta determinerà le sanzioni da imporre a Google. La decisione finale è attesa entro il prossimo agosto 2025.
La difesa di Google
Google si difende sostenendo che l’intervento del governo potrebbe avere conseguenze negative sull’innovazione e la competitività americana. L’azienda afferma che costringerla a condividere i dati di ricerca metterebbe a rischio la privacy degli utenti e che separare Chrome e Android danneggerebbe la sicurezza di questi prodotti. Il caso Google rappresenta un momento cruciale nella regolamentazione delle Big Tech. La decisione del giudice Mehta potrebbe avere un impatto significativo sul futuro del settore tecnologico e sul modo in cui le grandi aziende operano online.
Epic contro Google, il Play Store di Android è un monopolio da abbattere
Il Google Play Store è stato dichiarato un monopolio illegale e Google dovrà aprirlo alla concorrenza. Questa è la storica sentenza emessa dal giudice James Donato nel caso “Epic contro Google“, che potrebbe rivoluzionare il mercato delle app Android. Entro il 1° novembre 2024, Google dovrà consentire la distribuzione di app store rivali all’interno del Play Store e dare loro accesso al catalogo completo dei software ospitati.
Inoltre, Big G non potrà più obbligare gli sviluppatori a utilizzare il suo sistema di fatturazione e dovrà permettere loro di informare gli utenti su metodi di pagamento alternativi, aprendo la strada a una maggiore libertà e trasparenza. Gli sviluppatori potranno inoltre inserire link per scaricare le app al di fuori del Play Store, sfidando ulteriormente il controllo di Google.
Anni di battaglie
Questa vittoria di Epic Games arriva dopo anni di battaglie legali contro le pratiche monopolistiche di Google e Apple. Il giudice Donato ha riconosciuto che Google ha creato un ecosistema chiuso che ha soffocato la concorrenza, impedendo la nascita di store alternativi. Ora, gli store rivali avranno una reale possibilità di competere, offrendo agli utenti maggiore scelta e potenzialmente prezzi più bassi.
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Google, dal canto suo, non ha accolto con favore la sentenza e ha annunciato che farà ricorso, chiedendo una sospensione immediata dell’ingiunzione. L’azienda sostiene che i cambiamenti richiesti avranno conseguenze negative per consumatori, sviluppatori e produttori di dispositivi.
Nonostante il probabile ricorso, la sentenza segna un punto di svolta per il mercato delle app Android. L’apertura alla concorrenza potrebbe portare a maggiore innovazione e a un ecosistema più dinamico. Resta da vedere come Google implementerà i cambiamenti e quali saranno le reali conseguenze per il futuro di Android. La battaglia legale tra Epic e Google è lontana dalla conclusione, ma questa sentenza rappresenta un passo importante verso un mercato delle app più aperto e competitivo.
La cronostoria dei fatti
Epic Games ha fatto causa a Google il 13 agosto 2020, lo stesso giorno in cui si è mossa anche contro Apple. Lo sviluppatore aveva tentato di aggirare la commissione di entrambi i colossi pari al 30% sugli acquisti in-app con un aggiornamento a sorpresa del suo popolarissimo gioco Fortnite. Le due aziende tecnologiche hanno reagito espellendo Fortnite dai loro app store, per poi essere accolte da una campagna di azione coordinata #FreeFortnite e da un paio di cause legali che poggiavano sulla creazione di monopoli illegali.
Per quanto riguarda Apple, la Corte Suprema ha respinto l’appello finale di Epic a gennaio, che si è dovuta accontentare di un ordine che smantella le “regole anti-steering” di Apple, consentendo teoricamente agli sviluppatori di dire liberamente ai propri clienti come aggirare i sistemi di pagamento di Apple. La causa Google ha impiegato molto più tempo, con le cose che sono andate in modo molto diverso. La giuria lo scorso dicembre ha raggiunto un verdetto unanime secondo cui l’app store Google Play e il servizio Google Play Billing costituivano un monopolio illegale e che molti degli accordi speciali stipulati con gli sviluppatori di giochi e i produttori di telefoni costituivano un comportamento anticoncorrenziale.
Ad agosto, il giudice Donato ha avvertito che Google avrebbe pagato per il suo comportamento. Nelle udienze in cui si chiedevano un risarcimento, ha respinto ripetutamente le osservazioni di Google secondo cui soddisfare le richieste di Epic avrebbe richiesto troppo lavoro e tempo.
YouTube fixes glitch that wrongly removed accounts, deleted videos
As a message highlighted above the thread warned YouTube users that there were “longer than normal wait times” for support requests, YouTube continually asked for “patience” and turned off the comments.
“We are very sorry for this error on our part,” YouTube said.
Unable to leave comments, thousands of users mashed a button on the support thread, confirming that they had “the same question.” On Friday morning, 8,000 users had signaled despair, and as of this writing, the number had notched up to nearly 11,000.
YouTube has not confirmed how many users were removed, so that’s likely the best estimate we have for how many users were affected.
On Friday afternoon, YouTube did update the thread, confirming that “all channels incorrectly removed for Spam & Deceptive Practices have been fully reinstated!”
While YouTube claims that all channels are back online, not all the videos mistakenly removed were reinstated, YouTube said. Although most of the users impacted were reportedly non-creators, and therefore their livelihoods were likely not disrupted by the bug, at least one commenter complained, “my two most-viewed videos got deleted,” suggesting some account holders may highly value the videos still missing on their accounts.
“We’re working on reinstating the last few videos, thanks for bearing with us!” YouTube’s update said. “We know this was a frustrating experience, really appreciate your patience while we sort this out.”
It’s unclear if paid subscribers will be reimbursed for lost access to content.
YouTube did not respond to Ars’ request to comment.
Data center, Google valuta l’approvvigionamento da centrali nucleari
Generative AI Insights è la rubrica curata da Recomb, il think tank dedicato all’esplorazione dell’impatto e del potenziale dell’AI generativa in vari aspetti della vita umana. Recomb studia l’AI generativa da tutte le angolazioni: professionale, etica, tecnica, legale, economica, ambientale, sociale, educativa e culturale. Per leggere tutti gli articoli della rubrica Generative AI Insights su Key4biz clicca qui..
L’articolo riporta le dichiarazioni di Sundar Pichai, CEO di Google, sulla possibilità di utilizzare energia proveniente da centrali nucleari per alimentare i data center dell’azienda, al fine di soddisfare la crescente domanda energetica dei progetti di intelligenza artificiale generativa.
Durante un’intervista a Tokyo, Pichai ha sottolineato che la tecnologia generativa rappresenta una rivoluzione trasversale che impatta tutte le operazioni di Google, comportando un notevole aumento dei consumi energetici. Per far fronte a questo scenario, l’azienda sta valutando ulteriori investimenti in energia solare e tecnologie nucleari modulari.
Google punta a raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2030, nonostante le emissioni di gas serra siano aumentate del 48% nel 2023 rispetto al 2019 a causa del massiccio consumo di energia della nuova tecnologia AI.
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La scelta di considerare l’energia nucleare segue mosse simili di altri giganti tecnologici come Amazon e Microsoft, i quali stanno già approvvigionandosi da centrali nucleari negli Stati Uniti. Pichai ha anche evidenziato il potenziale delle soluzioni AI per affrontare il problema dell’invecchiamento demografico del Giappone e l’intenzione di espandere ulteriormente gli investimenti in centri dati alimentati da energie rinnovabili nel paese.
A livello globale, il settore Big Tech è sotto scrutinio per il suo potere di mercato e le autorità giapponesi hanno avviato un’indagine sul mercato dell’AI generativa. Pichai ha ribadito l’impegno di Google nel collaborare con le autorità, pur difendendo l’importanza di mantenere innovazione e miglioramento continuo per offrire un’esperienza utente ottimale.
L’AI alimenta un boom degli investimenti nelle reti elettriche asiatiche
Le fonti di energia rinnovabile stanno generando una percentuale record dell’elettricità mondiale, con quasi un terzo dell’energia totale proveniente da risorse più pulite.
Tuttavia, la crescita delle installazioni di impianti eolici e solari non è supportata da reti elettriche sufficientemente sviluppate, il che potrebbe causare uno spreco di una parte significativa di questa elettricità. Il rapido aumento della domanda energetica, stimolato dai settori legati all’AI, sta accelerando gli investimenti nelle reti di trasmissione globali, favorendo i fornitori chiave di apparecchiature necessarie per questo settore.
Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, si prevede che quasi 3.700 gigawatt di nuova capacità rinnovabile saranno operativi entro il 2028. In Asia, le aziende stanno investendo massicciamente per aggiornare le infrastrutture di rete per far fronte alla nuova capacità, dato che la domanda del settore AI garantisce un ritorno rapido sugli investimenti.
Il funzionamento e l’addestramento dei servizi di AI generativa sono estremamente energivori, richiedendo circa 33 volte più energia rispetto alle attività tradizionali dei data center. Ad esempio, la Tokyo Electric Power Company Holdings (TEPCO) investirà oltre 3 miliardi di dollari fino all’anno fiscale 2027 per migliorare la sua infrastruttura di trasmissione.
La società ha inaugurato una nuova grande sottostazione a Inzai, nella prefettura di Chiba, in concomitanza con la costruzione di diversi data center nella zona, inclusi quelli di Google e NEC.
Un altro beneficiario locale è il conglomerato Hitachi, che fornisce apparecchiature per le reti elettriche e soluzioni di dispacciamento del carico, registrando un aumento dei profitti netti del gruppo nel trimestre di giugno a 1,2 miliardi di dollari. Il titolo di Hitachi è cresciuto dell’80% quest’anno, e si prevede che i settori dell’integrazione di rete e delle soluzioni di stoccaggio energetico diventeranno sempre più redditizi.
Samsung licenzia dipendenti nel Sud-Est asiatico, Australia e Nuova Zelanda
Samsung Electronics Co. ha avviato una serie di licenziamenti in Asia sud-orientale, Australia e Nuova Zelanda come parte di un piano per ridurre l’organico globale di migliaia di posti di lavoro. Secondo fonti vicine alla questione, i tagli potrebbero riguardare circa il 10% della forza lavoro in queste aree, con variazioni specifiche per ogni filiale.
L’azienda, che conta 147.000 dipendenti all’estero su un totale di oltre 267.800, non ha in programma riduzioni nel mercato interno sudcoreano. Samsung ha già ridotto del 10% i posti di lavoro in India e alcune parti dell’America Latina. La società giustifica i tagli come ‘normali adeguamenti del personale’ per migliorare l’efficienza operativa, senza indicare un obiettivo preciso per determinate posizioni. I licenziamenti mirano a mantenere intatti i posti di lavoro nel settore produttivo, concentrandosi invece sulle funzioni di gestione e supporto.
I licenziamenti arrivano in un momento difficile per Samsung, che sta lottando per recuperare terreno nel mercato dei chip di memoria utilizzati per l’AI, dove SK Hynix ha preso il comando. Inoltre, Samsung sta subendo una forte concorrenza dalla Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. nella produzione di chip personalizzati.
La gestione di questi cambiamenti è nelle mani di Jay Y. Lee, presidente esecutivo e nipote del fondatore dell’azienda.
But the rest of the AI world doesn’t march to the same beat, doing its own thing and churning out new AI models and research by the minute. Here’s a roundup of some other notable AI news from the past week.
Google Gemini updates
On Tuesday, Google announced updates to its Gemini model lineup, including the release of two new production-ready models that iterate on past releases: Gemini-1.5-Pro-002 and Gemini-1.5-Flash-002. The company reported improvements in overall quality, with notable gains in math, long context handling, and vision tasks. Google claims a 7 percent increase in performance on the MMLU-Pro benchmark and a 20 percent improvement in math-related tasks. But as you know, if you’ve been reading Ars Technica for a while, AI typically benchmarks aren’t as useful as we would like them to be.
Along with model upgrades, Google introduced substantial price reductions for Gemini 1.5 Pro, cutting input token costs by 64 percent and output token costs by 52 percent for prompts under 128,000 tokens. As AI researcher Simon Willison noted on his blog, “For comparison, GPT-4o is currently $5/[million tokens] input and $15/m output and Claude 3.5 Sonnet is $3/m input and $15/m output. Gemini 1.5 Pro was already the cheapest of the frontier models and now it’s even cheaper.”
Google also increased rate limits, with Gemini 1.5 Flash now supporting 2,000 requests per minute and Gemini 1.5 Pro handling 1,000 requests per minute. Google reports that the latest models offer twice the output speed and three times lower latency compared to previous versions. These changes may make it easier and more cost-effective for developers to build applications with Gemini than before.
Meta launches Llama 3.2
On Wednesday, Meta announced the release of Llama 3.2, a significant update to its open-weights AI model lineup that we have covered extensively in the past. The new release includes vision-capable large language models (LLMs) in 11 billion and 90B parameter sizes, as well as lightweight text-only models of 1B and 3B parameters designed for edge and mobile devices. Meta claims the vision models are competitive with leading closed-source models on image recognition and visual understanding tasks, while the smaller models reportedly outperform similar-sized competitors on various text-based tasks.
Willison did some experiments with some of the smaller 3.2 models and reported impressive results for the models’ size. AI researcher Ethan Mollick showed off running Llama 3.2 on his iPhone using an app called PocketPal.
Meta also introduced the first official “Llama Stack” distributions, created to simplify development and deployment across different environments. As with previous releases, Meta is making the models available for free download, with license restrictions. The new models support long context windows of up to 128,000 tokens.
Google’s AlphaChip AI speeds up chip design
On Thursday, Google DeepMind announced what appears to be a significant advancement in AI-driven electronic chip design, AlphaChip. It began as a research project in 2020 and is now a reinforcement learning method for designing chip layouts. Google has reportedly used AlphaChip to create “superhuman chip layouts” in the last three generations of its Tensor Processing Units (TPUs), which are chips similar to GPUs designed to accelerate AI operations. Google claims AlphaChip can generate high-quality chip layouts in hours, compared to weeks or months of human effort. (Reportedly, Nvidia has also been using AI to help design its chips.)
Notably, Google also released a pre-trained checkpoint of AlphaChip on GitHub, sharing the model weights with the public. The company reported that AlphaChip’s impact has already extended beyond Google, with chip design companies like MediaTek adopting and building on the technology for their chips. According to Google, AlphaChip has sparked a new line of research in AI for chip design, potentially optimizing every stage of the chip design cycle from computer architecture to manufacturing.
That wasn’t everything that happened, but those are some major highlights. With the AI industry showing no signs of slowing down at the moment, we’ll see how next week goes.
https://arstechnica.com/?p=2052711
“Not a good look”: Google’s ad tech monopoly defense widely criticized
Google wound down its defense in the US Department of Justice’s ad tech monopoly trial this week, following a week of testimony from witnesses that experts said seemed to lack credibility.
The tech giant started its defense by showing a widely mocked chart that Google executive Scott Sheffer called a “spaghetti football,” supposedly showing a fluid industry thriving thanks to Google’s ad tech platform but mostly just “confusing” everyone and possibly even helping to debunk its case, Open Markets Institute policy analyst Karina Montoya reported.
“The effect of this image might have backfired as it also made it evident that Google is ubiquitous in digital advertising,” Montoya reported. “During DOJ’s cross-examination, the spaghetti football was untangled to show only the ad tech products used specifically by publishers and advertisers on the open web.”
One witness, Marco Hardie, Google’s current head of industry, was even removed from the stand, his testimony deemed irrelevant by US District Judge Leonie Brinkema, Big Tech On Trial reported. Another, Google executive Scott Sheffer, gave testimony Brinkema considered “tainted,” Montoya reported. But perhaps the most heated exchange about a witness’ credibility came during the DOJ’s cross-examination of Mark Israel, the key expert that Google is relying on to challenge the DOJ’s market definition.
Google’s case depends largely on Brinkema agreeing that the DOJ’s market definition is too narrow, with an allegedly outdated focus on display ads on the open web, as opposed to a broader market including display ads appearing in apps or on social media. But experts monitoring the trial suggested that Brinkema may end up questioning Israel’s credibility after DOJ lawyer Aaron Teitelbaum’s aggressive cross-examination.
According to Big Tech on Trial, which posted the exchange on X (formerly Twitter), Teitelbaum’s line of questioning came across as a “striking and effective impeachment of Mark Israel’s credibility as a witness.”
During his testimony, Israel told Brinkema that Google’s share of the US display ads market is only 25 percent, minimizing Google’s alleged dominance while emphasizing that Google faced “intense competition” from other Big Tech companies like Amazon, Meta, and TikTok in this broader market, Open Markets Institute policy analyst Karina Montoya reported.
On cross-examination, Teitelbaum called Israel out as a “serial ‘expert’ for companies facing antitrust challenges” who “always finds that the companies ‘explained away’ market definition,” Big Tech on Trial posted on X. Teitelbaum even read out quotes from past cases “in which judges described” Israel’s “expert testimony as ‘not credible’ and having ‘misunderstood antitrust law.'”
Israel was also accused by past judges of rendering his opinions “based on false assumptions,” according to USvGoogleAds, a site run by the digital advertising watchdog Check My Ads with ad industry partners. And specifically for the Google ad tech case, Teitelbaum noted that Israel omitted ad spend data to seemingly manipulate one of his charts.
“Not a good look,” the watchdog’s site opined.
Perhaps most damaging, Teitelbaum asked Israel to confirm that “80 percent of his income comes from doing this sort of expert testimony,” suggesting that Israel seemingly depended on being paid by companies like Jet Blue and Kroger-Albertsons—and even previously by Google during the search monopoly trial—to muddy the waters on market definition. Lee Hepner, an antitrust lawyer with the American Economic Liberties Project, posted on X that the DOJ’s antitrust chief, Jonathan Kanter, has grown wary of serial experts supposedly sowing distrust in the court system.
“Let me say this clearly—this will not end well,” Kanter said during a speech at a competition law conference this month. “Already we see a seeping distrust of expertise by the courts and by law enforcers.”
“Best witnesses money can buy”
In addition to experts and Google staffers backing up Google’s proposed findings of fact and conclusions of law, Google brought in Courtney Caldwell—the CEO of a small business that once received a grant from Google and appears in Google’s marketing materials—to back up claims that a DOJ win could harm small businesses, Big Tech on Trial reported.
Google’s direct examination of Caldwell was “basically just a Google ad,” Big Tech on Trial said, while Check My Ads’ site suggested that Google mostly just called upon “the best witnesses their money can buy, and it still did not get them very far.”
According to Big Tech on Trial, Google is using a “light touch” in its defense, refusing to go “pound for pound” to refute the DOJ’s case. Using this approach, Google can seemingly ignore any argument the DOJ raises that doesn’t fit into the picture Google wants Brinkema to accept of Google’s ad empire growing organically, rather than anti-competitively constructed with the intent to shut out rivals through mergers and acquisitions.
Where the DOJ wants the judge to see “a Google-only pipeline through the heart of the ad tech stack, denying non-Google rivals the same access,” Google argues that it has only “designed a set of products that work efficiently with each other and attract a valuable customer base.”
Evidence that Brinkeman might find hard to ignore include a 2008 statement from Google’s former president of display advertising, David Rosenblatt, confirming that it would “take an act of god” to get people to switch ad platforms because of extremely high switching costs. Rosenblatt also suggested in a 2009 presentation that Google acquiring DoubleClick for Publishers would make Google’s ad tech like the New York Stock Exchange, putting Google in a position to monitor every ad sale and doing for display ads “what Google did to search.” There’s also a 2010 email where now-YouTube CEO Neal Mohan recommended getting Google ahead in the display ad market by “parking” a rival with “the most traction.”
On Friday, testimony concluded abruptly after the DOJ only called one rebuttal witness, Big Tech on Trial posted on X. Brinkema is expected to hear closing arguments on November 25, Big Tech on Trial reported, and rule in December, Montoya reported.
https://arstechnica.com/?p=2053142
How breaking up Google could lower your online shopping bill
As the US Department of Justice aims to break up Google’s alleged ad tech monopoly, experts say that remedies sought in the antitrust trial could potentially benefit not just advertisers and publishers but also everyone targeted by ads online.
So far, the DOJ has argued that through acquisitions, Google allegedly monopolizes the ad server market, taking a substantial cut of every online ad sale by tying together products on the buyer and seller sides. Locking publishers into using its seller-side platform to access its large advertiser demand, Google also allegedly shut out rivals by pushing advertisers into a corner, then making it hard for publishers to switch platforms.
This scheme also allegedly set Google up to charge higher “monopoly” fees, the DOJ argued, allegedly putting some publishers out of business and raising costs for advertisers.
But while the harms to publishers and advertisers have been outlined at length, there’s been less talk about the seemingly major consequences for consumers perhaps harmed by the alleged monopoly. Those harms include higher costs of goods, less privacy, and increasingly lower-quality ads that frequently bombard their screens with products nobody wants.
By overcharging by as much as 5 or 10 percent for online ads, Google allegedly placed a “Google tax” on the price of “everyday goods we buy,” Tech Oversight’s Sacha Haworth explained during a press briefing Thursday, where experts closely monitoring the trial shared insights.
“When it comes to lowering costs on families,” Haworth said, “Google has overcharged advertisers and publishers by nearly $2 billion. That’s just over the last four years. That has inflated the price of ads, it’s increased the cost of doing business, and, of course, these costs get passed down to us when we buy things online.”
But while it’s unclear if destroying Google’s alleged monopoly would pass on any savings to consumers, Elise Phillips, policy counsel focused on competition and privacy for Public Knowledge, outlined other benefits in the event of a DOJ win.
She suggested that Google’s conduct has diminished innovation, which has “negatively” affected “the quality diversity and even relevancy of the advertisements that consumers tend to see.”
Were Google’s ad tech to be broken up and behavioral remedies sought, more competition might mean that consumers have more control over how their personal data is used in targeted advertising, Phillips suggested, and ultimately, lead to a future where everyone gets fed higher-quality ads.
That could happen if, instead of Google’s ad model dominating the Internet, less invasive ad targeting models could become more widely adopted, experts suggested. That could enhance privacy and make online ads less terrible after The New York Times declared a “junk ad epidemic” last year.
The thinking goes that if small businesses and publishers benefited from potentially reduced costs, increased revenues, and more options, consumers might start seeing a wider, higher-quality range of ads online, experts suggested.
Better ad models “are already out there,” Open Markets Institute policy analyst Karina Montoya said, such as “conceptual advertising” that uses signals that, unlike Google’s targeting, don’t rely on “gigantic, massive data sets that collect every single thing that we do in all of our devices and that don’t ask for our consent.”
But any emerging ad models are seemingly “crushed and flattened by this current dominant business model that’s really arising” from Google’s tight grip on the ad tech markets that the DOJ is targeting, Montoya said. Those include markets “for publisher ad servers, advertiser ad networks, and the ad exchanges that connect the two,” Reuters reported.
At the furthest extreme, loosening Google’s grip on the online ad industry could even “revolutionize the Internet,” Haworth suggested.
One theory posits that if publishers’ revenues increased, consumers would also benefit from more information potentially becoming available on the open web—as less content potentially gets stuck behind paywalls as desperate publishers seek ways to make up for lost ad revenue.
Montoya—who also is a reporter for the Center for Journalism & Liberty, which monitors how media outlets can thrive in today’s digital economy—noted that publishers depending on reader funding through subscriptions or donations is not sustainable if society wants to “have an open in free market where everybody can access information that they deserve and have a right to access.” By reducing Google’s control, the DOJ argues that publishers would be more financially stable, and Montoya hopes the public is starting to understand how that could benefit the open web.
“The trial is really allowing the public to see a full display of Google’s pattern of retaliatory behavior, really just to protect its monopoly power,” Montoya sad. “This idea that innovation and ways to monetize journalistic content has to come only from Google is wrong and this is really their defense.”
https://arstechnica.com/?p=2051545
Ars is seeking a seasoned senior reporter for all things Google
Update: We’ve resurfaced this posting one more time to make sure everyone who might be interested can see it. If it sounds like your jam, be sure and apply as soon as possible. We’re looking forward to working with you!
Google is a company in transformation—but “from what“ and “to what“ are not always clear. To catalog and examine Google’s moves in this new era of generative AI, Ars Technica is hiring a Senior Technology Reporter to focus on Google, AI, Android, and search. While attention to so-called “consumer products” will be important, this role will be more focused on Google’s big moves as a technology and infrastructure company, moves often made to counter perceived threats from companies like OpenAI, Microsoft, and Perplexity. Informed skepticism is the rule around here, so we’re looking for someone with the chops to bring a critical eye to some deep technical and business issues.
As this is a senior role owning an important beat, it is not an entry-level position. We’re looking for someone who can primarily self-direct when it comes to their reporting and someone who is comfortable working remotely within a similarly remote team. We’d also like someone who can bring to the table deep and intelligent analyses on broader Google topics while also hitting smaller daily news stories.
This is a full-time union job with benefits.
All candidates:
Must have prior professional experience in technology journalism
Must be living in and eligible to work in the United States
Should expect to travel two to three times per year for major event coverage
Corte Ue salva Google, niente multa da 1,5 miliardi di euro
La sentenza della Corte Ue che salva Google
Non si tenuto conto “dell’insieme delle circostanze”, così la Corte di Giustizia dell’Unione europea (Ue) ha annullato inaspettatamente la multa inflitta dalla Commissione europea a Google, in relazione alla piattaforma pubblicitaria AdSense.
Giuste le valutazioni, si legge nelle motivazioni della sentenza del tribunale comunitario, ma “non sono state tenute nel giusto conto l’insieme delle circostanze pertinenti nella sua valutazione della durata delle clausole contrattuali che aveva qualificato come abusive“.
Sostanzialmente, l’Antitrust Ue ha commesso errori nella valutazione della durata delle clausole controverse, nonché del mercato da esse coperto nel 2016, secondo il tribunale, non dimostrando che le tre clausole da essa individuate costituissero ciascuna un abuso di posizione dominante e costituissero congiuntamente una violazione unica e continuata.
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Non dimostrando, inoltre, che le clausole fossero idonee a dissuadere gli editori dall’approvvigionarsi presso gli intermediari concorrenti di Google, né che fossero dirette ad impedire ai concorrenti l’accesso a una parte significativa del mercato dell’intermediazione pubblicitaria.
Le sanzioni decise dalla Commissione europea contro Google per abuso di posizione dominante
Le sanzioni in questione erano state inflitte al motore di ricerca nel marzo del 2019, per abuso di posizione dominante sul mercato dell’intermediazione pubblicitaria relativa ai motori di ricerca online.
Secondo l’accusa, Google ha consolidato la propria posizione dominante nella pubblicità collegata alle ricerche online, mettendosi al riparo dalla pressione della concorrenza con l’imposizione di restrizioni contrattuali anticoncorrenziali ai siti web di terzi.
Con una quota di mercato superiore al 70 %, tra il 2006 e il 2016 Google è stato di fatto di gran lunga l’attore più forte nell’intermediazione pubblicitaria nei motori di ricerca nello Spazio economico europeo.
Pratiche illegali ai sensi delle norme antitrust dell’UE e tale condotta illegale, secondo Bruxelles, si è protratta per oltre 10 anni, negando ad altre società la possibilità di competere sulla base dei meriti e di innovare e ai consumatori di godere dei vantaggi della concorrenza.
Come funziona AdSense
I siti web dei quotidiani, i blog o gli aggregatori di siti di viaggio, sono spesso dotati di una funzione di ricerca. Quando un utente effettua una ricerca utilizzando questa funzione, insieme ai risultati della ricerca, il sito web propone annunci pubblicitari collegati alla ricerca.
Attraverso AdSense for Search, Google fornisce queste pubblicità ai proprietari dei siti “publisher”. Google agisce da intermediario, ovverosia come un intermediario pubblicitario, tra inserzionisti e proprietari di siti web che vogliono trarre profitto dallo spazio intorno alle pagine dei risultati della ricerca. AdSense for Search funziona quindi come una piattaforma di intermediazione pubblicitaria nei motori di ricerca.