DOPPIA PROVA AL LICEO CLASSICO: ESCONO TACITO E PLUTARCO

Al debutto la “doppia” seconda prova nei banchi di Liceo Classico. I maturandi dovranno tradurre una versione di Tacito e commentare un passaggio di Plutarco di Cheronea. I due brani, oltre ad appartenere alla prosa storiografica, sono legati da un unico filo conduttore: la morte di Galba, il primo dei “Quattro Imperatori” del 69 d.C. In questo articolo traduzione e analisi della prova.

Attenti a quei due! Se in passato gli studenti di Liceo Classico dovevano stare attenti solo al greco o al latino, ora la minaccia è duplice. Ma niente paura: la versione da tradurre rimane solo una, nel caso dei maturandi di quest’anno si tratta del latino. Agli studenti classicisti capita quest’anno Publio Cornelio Tacito, lo storiografo latino per antonomasia: un autore non semplicissimo, anzi considerato forse la bestia nera degli studenti di liceo classico, al pari del suo corrispettivo ellenico Tucidide. Il testo taciteo da tradurre è corredato da una nota introduttiva, un pre-testo e un post-testo. Nella seconda pagina invece, gli studenti hanno trovato un brano di Plutarco di Cheronea, storiografo e biografo vissuto nello stesso periodo di Tacito, con traduzione a fronte, inserito nella prova come termine di confronto critico. I due brani, sia quello da tradurre che quello da commentare e confrontare, sono uniti da un unico filo conduttore: la morte di Servio Sulpicio Galba, il primo dei Quattro Imperatori che si successero nel 69 d.C. Il brano di Tacito è tratto, indubbiamente, dalle Historiae, mentre quello plutarcheo è tratto dalla Vita di Galba, una delle poche biografie (assieme a quella di Otone, Arato e Artaserse) a non far parte delle Vite Parallele. 

Interessante la scelta da parte del Ministero di inserire un autore notoriamente ostico, con uno stile nettamente opposto alla simmetria del periodare, ricca di asindeti e con figure retoriche più tipiche dei testi poetici che della prosa storiografica. Parimenti, desta anche stupore la scelta di valorizzare un tema e un periodo così delicato, ma soprattutto poco affrontato tendenzialmente al liceo, come l’anno dei Quattro Imperatori. I maturandi hanno a disposizione sei ore per tradurre il testo taciteo e per rispondere alle tre domande di comprensione del testo poste nel foglio finale della seconda prova. 

Prima di proporre una nostra traduzione del brano, analizziamo il periodo storico:

L’anno, dicevamo, è il 69 d.C. La Gens Iulio-Claudia è morta assieme a Nerone, il quale, in seguito alle decine di ribellioni e congiure ordite contro di lui, si uccide il 9 giugno 68, nella villa suburbana del liberto Faonte, pugnalandosi alla gola facendosi aiutare dal suo segretario Epafrodito e gridando, secondo la tradizione, “Che artista muore assieme a me!”
Parallelamente alla morte dell’Imperatore, con un plebiscito il Senato eleva alla porpora imperiale Servio Sulpicio Galba, Governatore della Hispania Tarraconensis. Galba, venuto a conoscenza della morte di Nerone e della sua elezione, marciò subito verso Roma e assunse il titolo di Caesar Augustus. Galba rimase al potere per ben otto mesi, nei quali attirò su di sé l’inimicizia dei soldati, ai quali non concesse mai elargizioni o ricompense, del popolo, che cominciava a rimpiangere Nerone, ma soprattutto dei Pretoriani, ai quali invece non diede il donativo che il senato aveva promesso loro dopo la morte di Nerone. Quello che fu fatale a Galba fu la scelta di adottare come successore e coadiutore Lucio Calpurnio Pisone Liciniano invece di Marco Salvio Otone, suo storico alleato. Come un burattinaio che tiene le marionette per i fili, Otone cominciò a cospirare contro Galba, fomentando i Pretoriani e l’esercito contro l’Imperatore, facendo leva sul loro malcontento.

Da queste premesse parte la testimonianza di Tacito, oggi oggetto di traduzione dei maturandi. Nel pre-testo leggiamo:

Nel frattempo Otone, che non poteva sperar nulla dal ristabilimento dell’ordine, anzi, fondava sul disordine ogni suo piano, era assillato da molti stimoli: un fasto che sarebbe stato oneroso anche per un principe, un’indigenza a mala pena tollerabile da un privato, ira contro Galba, invidia contro Pisone; creava timori anche a sé stesso, per eccitare la propria bramosia (…) pensava che bisognava quindi osare ed agire, mentre l’autorità di Galba era debole e quella di Pisone ancora non consolidata. Le mutazioni di governo sono propizie ai grandi tentativi, e non serve temporeggiare là dove l’inazione è più dannosa dell’audacia.

Trad. A. Arici, Torino, UTET, 1970

Il testo da tradurre è invece il seguente:

Octavo decimo kalendas Februarias sacrificanti pro aede Apollinis Galbae haruspex Umbricius tristia exta et instantis insidias ac domesticum hostem praedicit, audiente Othone (nam proximus adstiterat) idque ut laetum e contrario et suis cogitationibus prosperum interpretante. Nec multo post libertus Onomastus nuntiat expectari eum ab architecto et redemptoribus, quae significatio coeuntium iam militum et paratae coniurationis convenerat. Otho, causam digressus requirentibus, cum emi sibi praedia vetustate suspecta eoque prius exploranda finxisset, innixus liberto per Tiberianam domum in Velabrum, inde ad miliarium aureum sub aedem Saturni pergit. Ibi tres et viginti speculatores consalutatum imperatorem ac paucitate salutantium trepidum et sellae festinanter impositum strictis mucronibus rapiunt; totidem ferme milites in itinere adgregantur, alii conscientia, plerique miraculo, pars clamore et gladiis, pars silentio, animum ex eventu sumpturi.

La traduzione che vi propongo io è questa:

Diciotto giorni prima le Calende di Febbraio (il 15 gennaio) l’aruspice Umbricio predice a Galba che sacrificava di fronte al tempio di Apollo presagi (exta = letteralmente “interiora animali”, da cui gli aruspici traevano i loro vaticini) tristi, insidie incombenti e un nemico in casa, mentre Otone (che si era fermato lì vicino) intanto ascoltava e al contrario interpretava ciò come un responso lieto e favorevole per i suoi piani. E non molto dopo il liberto Onomasto annuncia di essere atteso dall’architetto e dagli appaltatori, fatto che era stato convenuto come segnale dei soldati già riuniti e della congiura pronta. Otone avendo inventato a coloro che chiedevano il motivo del (suo) allontanarsi di comprare per sé un vecchio podere, e di dover ispezionare le parti pericolanti in esso, appoggiatosi al liberto avanza attraverso il palazzo di Tiberio nel Velabro, e da lì fino al miliario aureo sotto il Tempio di Saturno. Lì, dopo averlo salutato come imperatore mentre lui (Otone) era preoccupato per l’esiguo numero dei presenti, ventitré guardie del corpo lo fanno salire in fretta sulla lettiga e, con le spade in pugno, lo portano via. Durante il tragitto si aggregano all’incirca altrettanti soldati, alcuni con coscienza, i più per la curiosità, una parte con spade e con grida, una parte in silenzio, pronti a prendere coraggio dall’evolversi degli eventi.

Trad. Michele Porcaro

A seguire, troviamo il seguito del brano, sempre nella traduzione di Arici:

Era di guardia nell’accampamento il tribuno Giulio Marziale. Questi, forse spaventato dalla gravità dell’improvviso attentato o forse temendo che nel campo fosse già troppo diffusa la congiura e che il resistere fosse per lui pericolo mortale, suscitò in molti il sospetto di complicità. Anche gli altri tribuni e centurioni preferivano un presento certo a un avvenire onorevole, ma incerto e tale fu la disposizione degli animi e tanta scelleratezza fu osata da pochi, voluta da molti e subita da tutti. 

Il brano si presenta tutt’altro che semplice, con diversi costrutti piuttosto ostici e macchinosi, ma di certo non improponibile. Sicuramente molto difficile per un diciottenne, la cui preparazione grammaticale e sintattica potrebbe non essere sufficiente per affrontare un “Mostro Sacro” come Publio Cornelio Tacito. La marginalità dell’episodio inoltre, poco considerato nei programmi di storia delle superiori, non è sicuramente d’aiuto agli studenti. Quello di Tacito è uno stile particolare, e già da questa versione emergono i punti salienti della lingua e dello stile dello storico latino. Lontano da una proposizione asciutta e cronachistica degli eventi, lo stile di Tacito è pieno di vigore, tensione e gravità: punto centrale è la varietà della prosa, che rende le sue letture da un lato avvincenti e mai banali, ma d’altro canto di difficile traduzione e interpretazione. La lingua è accuratamente selezionata, esente da termini bassi e volgari. Caratteristica propria dello stile tacitiano è l’impiego della brevitas, che lo storico ottiene attraverso l’ellissi di sostantivi o predicati, molto spesso coniugata all’asindeto. Non a caso una delle tre domande poste agli studenti, oltre alla traduzione, chiede loro proprio di individuare passaggi nel brano da loro tradotto gli elementi che caratterizzano la brevitas tacitiana. Nel brano esempi di brevitas sono nella frase “Otho, causam regressus … pergit” e in “consalutatum … trepidum … impositum” dove la simultaneità di più azioni di più soggetti è condensata in un’unica unità sintattica. La brevitas, ovvero la l’esigenza della concisione, rende lo stile di Tacito più condensato, spezzato, rapido, e, forse proprio per questo, più arduo da tradurre. 

Plutarco di Cheronea, il cui brano è stato proposto agli studenti come confronto, nel complesso concorda con la versione tacitea. Unica differenza sostanziale, come si potrà leggere di seguito, è che, di fronte agli auspici di Umbricio, qui Otone rimane sconcertato, quasi come se non fosse pronto a far partire la congiura. In Tacito, al contrario, Otone interpreta i vaticini dell’aruspice come segni positivi, come se gli dei fossero favorevoli alle sue intenzioni. Vi è inoltre una descrizione fisica e psicologica di Otone: se nel corpo era tutt’altro che valente e robusto, caratterialmente vantava una tempra solida e tenace, che tuttavia vacilla di fronte ai preparativi dell’attentato a Galba. Il testo di Plutarco, proposto agli studenti in greco con la traduzione a fronte, è il seguente:

Quel giorno di buon mattino Galba sacrificava sul Palatino alla presenza di amici e l’aruspice Umbricio, nel prendere in mano le viscere della vittima per esaminarla, non in modo oscuro ma chiaramente disse di vedere segni di un grande scompiglio ed un pericolo di tradimento incombente sul capo dell’imperatore, mentre la divinità quasi gli consegnava in mano Otone. Egli infatti era presente alle spalle di Galba e stava attento a quanto veniva detto e mostrato da Umbricio: poiché era sconvolto e cambiava continuamente colore per la paura, gli si avvicinò il suo liberto Onomasto e gli disse che gli architetti erano arrivati e lo aspettavano a casa. Era questo il segnale del momento in cui Otone doveva andare incontro ai soldati. Dicendo dunque che aveva comprato una vecchia casa e voleva mostrare le parti sospette ai venditori, se ne andò e scendendo attraverso i cosiddetti palazzi tiberiani andò verso la piazza dove si innalza una colonna aurea, alla quale terminano tutte le strade costruite in Italia. Dicono che i primi ad accoglierlo qui e a salutarlo imperatore fossero non più di 23: per questo benchè non fosse debole di animo così come era debole e molle fisicamente, e fosse invece audace e impassibile di fronte ai pericoli, si spaventò. I presenti non permisero che tornasse indietro, ma circondando la sua lettiga con le spade in pugno ordinarono che venisse portato via, mentre lui ripeteva sottovoce che era perduto e incitava i portantini ad affrettarsi. Alcuni sentirono che furono sorpresi più che turbati dalla esiguità del numero di coloro che avevano osato l’impresa. Mentre per questo modo lo portavano attraverso il foro, si presentarono altrettanti soldati e poi altri ancora si unirono in gruppi di tre o quattro… 

Traduzione di Angelo Meriani e Rosa Giannatasio Andria, UTET, Torino 1998

Due interessanti prospettive di uno stesso episodio; due notevoli testimonianze storiche di un affascinante e delicato momento della storia di Roma, raccontato attraverso la prospettiva di uno storiografo romano e di un biografo greco. Un brano non facile da tradurre, ma che sicuramente mette alla prova tutte le nozioni della lingua latina apprese dagli studenti nel corso del quinquennio.

Piccola curiosità

Tacito non ha dovuto pazientare molto prima di essere ripescato come autore di seconda prova: l’ultima volta che gli studenti di Liceo Classico hanno dovuto affrontare, vocabolari alla mano, il temibile Publio Cornelio Tacito è stato nel 2015, quando il Ministero assegnò come seconda prova un brano tratto dagli Annales di Tacito relativo agli ultimi giorni di vita dell’Imperatore Tiberio. 

                              Michele Porcaro 

http://ilkim.it/doppia-prova-al-liceo-classico-escono-tacito-e-plutarco/




Rocketman non è il solito biopic, è molto di più…

Nonostante gli incassi registrati siano al di sotto delle aspettative, la pellicola biografica su Elton John è una chicca innovativa, dove i vizi, gli eccessi e i drammi interiori della pop-rockstar inglese sono mostrati nella loro più cristallina autenticità. A metà tra musical, documentario, fantasy e biopic, Rocketman è un film straordinario. Inevitabile il confronto con Bohemian Rhapsody, con il quale il biopic condivide il regista Dexter Fletcher.

Quando gli studios della Paramount e della 20th Century Fox chiesero a Sir Elton John di ridurre o di ovattare alcune scene troppo forti (dove la star era mostrata mentre faceva sesso con altri uomini o mentre consumava droghe) onde evitare di essere costretti ad apporre il divieto di visione per i minori di 13 anni, la rockstar inglese rispose con un laconico: “Io non ho vissuto una vita adatta ai minori di 13 anni”. Questo aneddoto da backstage riassume esaustivamente lo spirito con cui nasce il film basato sulla vita di Elton John, “Rocketman“, che prende il nome da uno dei successi più fortunati dell’artista e da uno dei suoi soprannomi. La pellicola porta la firma del regista Dexter Fletcher, che già ha avuto a che fare con un altro biopic dedicata a un artista il cui apice del successo si accompagnò a una vita di eccessi e bagordi: stiamo parlando di Bohemian Rhapsody, la pellicola dedicata ai Queen ma soprattutto a Freddie Mercury, della quale Fletcher dovette portare a termine il lavoro lasciato in sospeso da Bryan Singer, che sebbene fu licenziato poche settimane dal termine delle riprese, fu riconosciuto come unico regista del film, mentre Fletcher rimase screditato. A indossare gelosamente (al punto tale da recitare lui stesso una scena in cui l’artista, dopo un mix di alcol e farmaci, ha un attacco di cuore e cade dalle scale, rifiutando di essere sostituito da uno stuntman) i panni di Elton John è l’attore gallese Taron Egerton, divenuto famoso dopo un ruolo da co-protagonista in Kingsman – il cerchio d’oro. 

Gran parte del film è una lunga analessi che ripercorre la vita di Elton John dalla sua infanzia, non proprio spensierata, fino al successo presso il grande pubblico, addentrandosi nella sua vita pubblica e privata, fatta di tour stancanti, droghe e lussuria sfrenata. Punto di partenza (e, senza fare troppi spoiler) di chiusura, secondo uno schema circolare, è una clinica di riabilitazione per tossicodipendenti e alcolisti in cui il cantante decide di farsi curare dopo aver realizzato di aver raggiunto un punto di non ritorno. Lì, l’artista si presenta in pompa magna, sfoggiando un vestito sgargiante con brillanti, due gigantesche ali nere e due corna da Malefica, presentandosi agli altri pazienti con quella che è la sua nuova identità: Elton Hercules John. Immagine correlata

Cresciuto in una famiglia dove riceveva poco amore, Reginald Kenneth Dwight (nome di battesimo di Elton John) scopre come valvola di sfogo e punto d’evasione la musica, una passione che, nonostante sia un’eredità dei suoi genitori (il padre, Stanley Dwight, era un amante del jazz, mentre la madre Sheila Harris gli fece scoprire il rock ‘n roll di Elvis Presley) l’unica persona che lo incita a coltivarla è la nonna materna Ivy. Nonostante il formidabile talento nella musica classica, Reggie aspira a diventare esponente e pioniere un nuovo stile, a un nuovo tipo di musica più innovativo, d’avanguardia, che mescoli l’eleganza della musica classica all’eccletismo del pop e del glam rock. La scalata al successo sarà lunga e di certo non priva di ostacoli e diffidenze, ma Reggie Dwight, che sceglierà come nome d’arte Elton John, si farà strada grazie alla sua voce melodica e armoniosa, alla sua poliedricità artistica e ai bellissimi testi scritti assieme al paroliere e cantautore Bernard John “Bernie” Taupin, collega ma prima di tutto amico fraterno, uno dei pochi che all’epoca accettò e rispettò l’omosessualità di Elton-Reggie.

Nonostante i tour in sold out, i milioni di dischi venduti, i primi posti in tutte le classifiche musicali e le ricchezze provenienti dal suo successo, i problemi personali di Elton sembrano non solo persistere, ma addirittura amplificarsi: con il padre non riuscirà mai a instaurare alcun tipo di rapporto; la madre, pur consapevole della sessualità del figlio, non sembra accettare la sua omosessualità; John Reid, suo manager e produttore discografico, approfitterà del sentimento che l’artista prova per lui per sfruttarlo e per manipolarlo. La vita pubblica di Elton John, fatta di abiti griffati, occhiali glamour e gioielli si affianca a un dissidio interiore, a una depressione permanente che nemmeno le più potenti droghe, psicofarmaci e alcolici riescono ad arginare ma che anzi trascineranno l’artista sull’orlo del baratro. Man mano che Elton John racconta il suo passato in quel della rehab, a poco a poco si spoglia dei pezzi di quell’abito costosissimo con cui era entrato, metafora di un guscio protettivo al di sotto del quale si cela un uomo debole, incapace di affrontare il suo passato, al contempo vittima e carnefice di sé stesso. 

Rocketman non è il classico biopic dove si elogia e si incensa un artista edulcorandone o addirittura celandone i difetti, i quali in questo film vengono invece messi a nudo, quasi alla berlina. Gli eventi raccontati in questa pellicola non sono riportati “nudi e crudi“, senza troppe smussature. Bohemian Rhapsody, che sia ai botteghini che agli occhi della critica ha avuto più successo, aveva proprio questo difetto: quello di non mostrare troppo approfonditamente l’edonismo di Mercury per non peccare di lesa maestà nei confronti del compianto frontman dei Queen. Se l’omosessualità del Freddie di Bohemian Rhapsody era citata, accennata, ammiccata, quella dell’Elton John di Rocketman è mostrata nella sua integrità, senza troppi finti perbenismi e imbarazzi di sorta: stiamo parlando del primo film di una major dove è mostrata una scena di sesso gay in modo esplicito. E ancora, se in Bohemian Rhapsody i festini di Freddie Mercury erano stati banalizzati a carnevalate molto animate (quando in realtà erano dei veri e propri baccanali sfrenati, dove si racconta che addirittura vi erano nani che servivano piatti di cocaina agli ospiti) i vizi e gli eccessi di Elton John sono mostrati in Rocketman con una fedeltà praticamente assoluta. Punto in comune con il biopic sui Queen potrebbe essere una buona manciata di libertà creative e di licenze poetiche, ma a differenza di Bohemian Rhapsody eventi e personaggi non risultano pesantemente romanzati. Rocketman segue, per lo schema narrativo degli eventi narrati, lo stesso tòpos cinematografico del film di Singer: origini, successo, follia, declino e redenzione. Tuttavia, il film di Fletcher cerca di non rimanere troppo ancorato a questo clichè ma di superarlo, di mostrare al meglio l’io umano di Elton John.

Immagine correlata

La musica non può non avere una sua centralità nel film: a differenza di Bohemian Rhapsody tuttavia, Rocketman non si sofferma particolarmente sulla genesi di album e canzoni, ma sottolinea invece quanto i più grandi successi dell’artista siano pregni di un aspetto autobiografico. Taron Ergeton, oltre a recitare la parte di Elton John, canta i suoi brani più famosi, che vengono inseriti nel film a mo’ di musical, accompagnati da effetti speciali, coreografie spettacolari e sequenze oniriche che rendono Rocketman, di fatto, un fantasy musical, come la ha definito lo stesso Elton John. L’interpretazione di Taron Egerton è magistrale e riesce a cogliere le molteplici sfumature dell’artista, da quelle esuberanti e stravaganti che la pop-rockstar inglese sfoggia sul palco, a quelle più deboli e fragili dell’intimità e della vita privata. Le sequenze delle canzoni, nella loro fantasiosa rappresentazione musical, oltre a estasiare i fan (storici e occasionali) dell’artista inglese, conferiscono all’intera pellicola colore, passione e fantasia, omaggiando quello stile glam tanto caro all’Uomo Razzo.

Rocketman si propone dunque di abbattere gli standard troppo rigidi del genere biopic, innovandolo, o quanto meno provando a innovarlo. Cerca di riproporre gli eventi senza ancorarsi troppo a uno schema documentaristico, ma nel farlo, commette qualche scivolone in sede di sceneggiatura e post-produzione. Manca totalmente un’indicazione cronologica degli eventi: si passa da un Reggie Dwight bambino a un Elton John maturo in cerca di riscatto, passando per un Elton John spigliato e senza freni inibitori, senza mai avere idea dell’anno in cui il film sta catapultando lo spettatore. Il transito da una fase all’altra della carriera e della vita della pop-rockstar inglese si configura non come un passaggio, ma come un volo pindarico, con conseguente banalizzazione di diversi passaggi della vita di Elton John. L’esempio più eclatante è indubbiamente la resa della pseudo-relazione tra Elton John e la sua assistente Renate Blauel: dal matrimonio al divorzio passa poco più di un giro di orologio. Questa e altre scene sono il risultato di un taglio drastico effettuato in sala di montaggio: stando a quanto riporta la stessa Paramount in un comunicato stampa, la prima versione del film durava 158 minuti, a fronte dei 121 minuti della pellicola in questo momento in distribuzione nei cinema di tutto il mondo. Il sacrificio di molte scene (soprattutto relative agli affetti e alla vita privata del cantante) presenta i suoi pro e i suoi contro, che penalizzano il film ma che fortunatamente non ne intaccano lo spirito.

Rocketman, prima di essere un film biografico di uno dei più grandi artisti della nostra epoca, è prima di tutto la storia di un uomo in perenne conflitto con sé stesso e con il mondo circostante, che nasconde la sua fragilità, la sua intima delicatezza dietro paillettes, occhiali e costumi kitsch. Le musiche di Elton John più che a fare da colonna sonora del film svolgono la funzione di un coro tragico greco, catartico e riflessivo, che mettono in risalto la natura sensibile e creativa di un formidabile artista inglese, le cui note risuoneranno fino al 2021, anno in cui Elton John appenderà il microfono al chiodo per dedicare il resto della sua vita al marito David Furnish e ai suoi figli. 

Un film brillante, pulito, con poche sbavature e tante emozioni, unico nel suo genere. La commistione di biopic, fantasy e musical funziona senza essere stucchevole, e mette in risalto sbalorditivamente la profonda umanità di Sir Elton John, l’Uomo Razzo. Non un semplice biopic, ma molto di più…

Voto finale: Risultati immagini per 4 stars out of 5

                                                                                                                                      Michele Porcaro

http://ilkim.it/rocketman-non-e-il-solito-biopic-e-molto-di-piu/




INTERVISTA A LABADESSA, IL FUMETTISTA DEGLI UCCELLI ANTROPOMORFI


Napoletano classe 1993, Mattia Labadessa (noto semplicemente come Labadessa) è un fumettista noto sul web per aver dato alle paure e alle ansie dei “millenials” le forme di uccelli rossi che si muovono su sfondi gialli. Intervistato da Michele Porcaro in occasione della XXV Edizione del Romics, Labadessa ci racconta di “Bernardo Cavallino”, la sua ultima pubblicazione edita da Feltrinelli Comics.

[embedded content]

Servizio, montaggio e intervista di Michele Porcaro
Riprese di Federico Concetti

About the Author Michele Porcaro

Scrittore e romanziere storico. Nato a Benevento nel 1995. Diplomato al Liceo Classico “Anco Marzio” di Ostia e laureato in Lettere Classiche presso l’Università degli Studi di Roma “Sapienza” con tesi in Archeologia. Appassionato di lingua, civiltà, storia e archeologia greca e romana. Nel 2016 ha esordito con il romanzo storico “La prigione di pietra”, che si è aggiudicato la menzione d’onore di “Miglior Romanzo Storico” al Premio Letterario “Urbe Parthenicum”. Nel 2017 ha pubblicato il suo secondo romanzo storico, “La lancia e la croce”, ambientato nella Provincia Romana della Giudea, e il suo primo saggio “THANATOS – La visione della morte nel mondo greco”. Nel tempo libero svolge attività di rievocazione storica, come membro delle associazioni “Legio III Gallica” di Carbognano e “ANTICAE VIAE”.

http://ilkim.it/intervista-a-labadessa-il-fumettista-degli-uccelli-antropomorfi/




MOSTRA “CLAUDIO IMPERATORE. MESSALINA, AGRIPPINA E LE OMBRE DI UNA DINASTIA”


Al Museo dell’Ara Pacis dal 6 aprile  fino al 27 ottobre la vita e le opere dell’Imperatore Claudio raccontate attraverso un allestimento fatto di immagini e suggestioni visive e sonore, costituisce la caratteristica saliente del percorso espositivo.

Dal 6 aprile fino al 27 ottobre 2019 sarà visitabile presso il Museo dell’Ara Pacis la mostra “Claudio Imperatore. Messalina, Agrippina e le ombre di una dinastia” un allestimento che ripercorre la vita, il regno, l’operato e la personalità del quarto imperatore romano. La mostra è il frutto di una felice collaborazione tra Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e il Musée des Beaux-Arts di Lione. Lungo le sale del Museo dell’Ara Pacis sono esposti numerosi e straordinari reperti concessi in prestito da importanti e prestigiosi istituzioni nazionali e internazionali, attraverso i quali il visitatore potrà rivivere i momenti salienti della vita di Claudio e della famiglia Giulio-Claudia. Sottovalutato da Augusto, che preferiva come suo successore suo fratello Germanico, Claudio divenne imperatore quasi per caso. Dopo la sospetta morte di Germanico in Siria nel 19 e la dipartita di Tiberio nel 37, a vestire la porpora imperiale fu il nipote di Claudio, Caligola. Quando quest’ultimo cadde vittima di un complotto nel gennaio del 41, il corpo dei pretoriani elesse come imperatore proprio Claudio, che salì al potere all’età di 50 anni. Conquiste militari, opere pubbliche, incremento dello sviluppo amministrativo ma anche giochi di potere e intrighi di corte, soprattutto con le mogli Messalina e Agrippina, segnano l’esistenza di Claudio. Quella dell’Imperatore Claudio è infatti una figura storica assai controversa, dal momento che la letteratura latina lo ricorda come un uomo debole fisicamente e mentalmente, nonchè facilmente manipolabile dalle mogli e dai liberti. La mostra “Claudio Imperatore” mette dunque in discussione quest’immagine cupa e poco lusinghiera di Claudio giunta a noi dalle fonti antiche in favore di un ritratto storico più obiettivo, da cui traspare la figura di un sovrano colto e saggio e di un ottimo amministratore della cosa pubblica.

Servizio, riprese e montaggio di Michele Porcaro

[embedded content]

http://ilkim.it/mostra-claudio-imperatore-messalina-agrippina-e-le-ombre-di-una-dinastia/




UNA GUERRA CIVILE “DIVINA”: OTTAVIANO/APOLLO VS ANTONIO/ERCOLE

Il potere delle immagini come testimonianza della storia: una guerra civile raccontata attraverso l’exemplum mitico della contesa del tripode. Da una parte Marco Antonio, protetto di Ercole, dall’altra Ottaviano, presunto figlio di Apollo…

Delle tre guerre civili romane, quella che vide opporsi Marco Antonio e Ottaviano fu senza dubbio la più cruenta, quella che registrò il maggior numero di danni e morti. La battaglia per la supremazia della Repubblica tra Ottaviano e Antonio fu combattuta tanto con navi e legioni quanto con parole e immagini. E in quest’ultimo ambito rientrava la scelta dei numi tutelari a cui i due eredi del potere di Cesare si rivolgevano. La scelta di dichiararsi pupilli, figli, protetti o discendenti di una divinità olimpica non era una novità: già tra la fine dell’età classica e per tutta l’età ellenistica numerosi sovrani e capi militari si erano dichiarati discendenti, se non addirittura figli, di dèi dell’Olimpo. La rivendicazione di una discendenza o di una filiazione divina aveva indubbiamente come fine quello di legittimare sacralmente il potere di un singolo individuo o di un’intera dinastia. E anche Ottaviano e Antonio erano consapevoli di questo dettaglio nient’affatto trascurabile: l’uno chiamava dalla sua parte Apollo, il dio dell’arco e delle arti, l’altro invocava invece la forza di Ercole, dio del vigore. Quella che nasceva come una guerra tra due capi militari divenne la sfida tra due dei…

Già le fonti antiche attestano la relazione che collega Marco Antonio all’eroico figlio di Giove: nella “Vita di Antonio” Plutarco afferma infatti che in più occasioni Antonio si era pubblicamente dichiarato discendente diretto di Ercole, più precisamente di Antone, uno dei tanti figli bastardi del semidio. E per enfatizzare tale mitica discendenza, Antonio metteva in risalto tutte le caratteristiche psicofisiche che lo collegavano all’eroe:

“La barba finemente lavorata, il sopracciglio ampio e il naso aquilino gli conferivano un aspetto potente e mascolino che ricordava alla gente i dipinti e le storie di Ercole.”

Anche per possanza fisica, Antonio poteva dirsi discendente di Ercole: proprio come il suo leggendario avo, Antonio vantava una corporatura massiccia e robusta. Non a caso, oggi si suole identificare come un “marcantonio” una persona fisicamente prestante e gagliarda. Ma c’era un dettaglio, inoltre, che accomunava Marco Antonio al semidio greco: Ercole, dopo aver portato a   termine le dodici fatiche, dopo una serie di disavventure, si ritrovò in Lidia, dove si innamorò perdutamente di Onfale, la regina di quella terra. Proprio come l’eroe, Antonio, qualche anno dopo la morte di Cesare e all’alba della guerra civile, aveva consegnato il suo cuore a una regina orientale, la sensuale e avvenente Cleopatra. Eppure, la dicotomia Antonio-Ercole e Cleopatra-Onfale funzionava poco, e anzi si prestava a una contro-interpretazione: Ercole, nel mito, divenne schiavo della regina Onfale, che lo costringeva a servirla vestito da donna, mentre lei si faceva beffe di lui giocherellando con la sua clava e con la pelle del leone. In un artificioso e sottile meccanismo propagandistico, Ercole e Onfale fornivano al rivale Ottaviano un modello mitologico in cui identificare il suo nemico Marco Antonio: questi, di statura possente e notevole come il figlio di Giove era stato irretito e domato da una regina straniera, Cleopatra, lussuriosa e subdola come la mitica Onfale. Il mito di Ercole e Onfale si dipingeva così di toni politici, dove la schiavitù e la ridicolizzazione di Ercole erano enfatizzate e rimarcate con insistenza proprio per screditare la sua incarnazione romana, Antonio. In questa interpretazione politica della leggenda erculea, la femminilizzazione di Antonio consisteva nella rinuncia al mos maiorum, alle virtù patrie di Roma in favore dei costumi ellenistici frivoli a cui l’ex luogotenente di Cesare si era avvicinato da quando si era trasferito in Egitto.      
Tra le altre identificazioni mitologiche di Antonio, la più celebre è forse quella con Dioniso, che si accompagnava a Cleopatra-Osiride. Ma anche quest’altra identificazione diveniva oggetto di bersaglio da parte del rivale Ottaviano: dai Romani, Dioniso e Osiride erano associati alla luxuria esotica e orientale. Il genere di vita che Antonio conduceva in Oriente con Cleopatra e la sua corte era un esempio di quella corruzione e di quella effeminatezza che stavano portando Roma verso l’abisso.

Sulla nascita di Ottaviano si aggira un alone di mistero e leggenda molto simile a quella di Alessandro Magno. Svetonio racconta che Azia, madre del futuro Augusto, dopo essersi recata a una cerimonia in onore di Apollo, si appisolò nella cella del tempio, mentre le altre donne facevano ritorno a casa. Un serpente, allora, strisciò intorno alle sue membra, per poi andarsene. Quando Azia si risvegliò, si accorse che sul suo corpo era rimasta una macchia a forma di serpente. Nove mesi dopo quell’insolito evento, nacque Ottaviano, che da allora fu considerato figlio di Apollo. La sera prima delle doglie, si dice che Azia sognò che le sue viscere si estendevano fino alle stelle, coprendo tutto lo spazio tra terra e cielo, mentre Gaio Ottavio, padre di Ottaviano, la stessa sera sognò che dal ventre di Azia nasceva un raggio di sole, simbolo di Apollo. La fecondazione di Azia da parte del serpente era una scena così celebre nell’immaginario romano che venne ritratta anche su uno dei registri decorativi del Vaso Portland, ceramica in pasta vitrea del I secolo d.C.          

In ogni caso, Ottaviano mostrava una seria devozione verso Apollo (basti pensare che innalzò la propria residenza imperiale a fianco al Tempio di Apollo Palatino) ma non si vantò mai pubblicamente della sua presunta filiazione al dio. Eppure, nella produzione monetale e artistica era ben visibile il rapporto cultuale che legava il dio al futuro princeps: in tutte le effigi di Apollo scolpite durante il principato augusteo, il dio presenta (eccezion fatta per la chioma ricadente a riccioli sulle spalle) i tratti facciali di Augusto. Addirittura, gli scultori adottarono soluzioni iconografiche così precise che gli stessi romani facevano fatica a distinguere il principe dal dio in una statua posta nella biblioteca del tempio di Apollo sul Palatino. In una gemma sardonica della fine del I secolo a.C. inoltre, il profilo ritratto sembra essere una mescolanza dei tratti del dio e quelli del princeps, con i capelli del primo e i tratti facciali del secondo.      

Nella tradizione mitologica, Ercole, per aver involontariamente ucciso l’amico e ospite Eurito, cercò l’espiazione a tale colpa presso il Santuario di Delfi. Ma la colpa dell’Anfitrionide (la violazione della xenìa, ovvero dell’ospitalità) era troppo grave, e neanche la Pizia apollinea volle consigliargli un rimedio per ripulirsi dallo spregevole reato, e rimase in silenzio di fronte a ogni domanda del forzuto semidio. Ercole, colto dalla rabbia, rubò il tripode, il seggio da cui la Pizia emanava gli oracoli e, per estensione, simbolo del santuario stesso. Apollo in persona fu costretto a intervenire, e l’episodio della contesa è così importante da essere ritratto in decine e decine di anfore e ceramiche fin dall’epoca dello stile geometrico e da essere immortalato sul frontone del Tesoro dei Sifni, uno degli edifici posti sulla Via Sacra di Delfi che conduceva al santuario di Apollo. Ercole e Apollo si litigarono e si strapparono di mano a vicenda quel tripode finché Zeus, padre di entrambi i litiganti, non intervenne per riportare il tutto alla normalità. La più importante rappresentazione a Roma dell’episodio è una delle cosiddette “Lastre Campana” in terracotta che ornavano il Tempio di Apollo sul Palatino costruito da Ottaviano nel 36 a.C. Nel rilievo, dai contenuti e temi totalmente estranei alla ceramica attica (ma con notevoli precedenti nella statuaria e nella toreutica arcaica) il tripode, posto al centro della scena, divide Apollo (sulla destra armato di arco e con i capelli raccolti a chignon sulla nuca e trattenuti da una fascia) ed Ercole (ritratto sulla sinistra imberbe, armato di clava e vestito solo della pelle del leone). I due sono l’uno di fronte all’altro, si fissano in cagnesco e con grugno carico d’odio: entrambi reggono il tripode per le anse poste all’estremità, e la presa delle mani salda sulle armi e sul tripode sembra sottolineare che nessuno dei due ha intenzione di cedere, ma che anzi è disposto a combattere pur di ottenere quel trono. Se la ceramografia e la letteratura greca sembrano suggerire in più tratti una riappacificazione tra il dio e l’eroe, la Lastra Campana non prevede nient’altro che uno scontro all’ultimo sangue che è in procinto di scoppiare. Anche in questo caso, l’episodio assume una sfumatura politica: lo scontro tra Apollo ed Ercole è infatti la trasposizione mitologica della terza guerra civile romana, quella tra Ottaviano e Marco Antonio. Se infatti Marco Antonio insisteva sulla sua somiglianza fisica con l’eroe greco e su una presunta discendenza che faceva di Ercole un suo antenato, Ottaviano ambiva invece a identificarsi con Apollo. La sfida tra Apollo ed Ercole rappresenta ideologicamente la guerra tra Ottaviano e Antonio, e così come Apollo riottiene il suo tripode (che in questo caso rappresenta Roma) ottenendo di fatto la vittoria, così Ottaviano ha la meglio sul suo nemico Antonio, che come Ercole, violento predone e violatore del tempio, viene sconfitto. In quello che è uno dei tanti sublimi esempi della propaganda augustea, la vittoria di Ottaviano su Antonio sembra già prevista dalla scelta dei due generali delle loro divinità protettrici: a quanto pare, Antonio aveva puntato sul dio sbagliato

                                                                                                                                                                                           Michele Porcaro

http://ilkim.it/una-guerra-civile-divina-ottaviano-apollo-vs-antonio-ercole/




EPIPOLA, LA MULAN GRECA

Il mito di una donna guerriera che ricorda particolarmente la leggenda della famosa eroina cinese Hua Mulan, la cui storia è stata resa celebre dal cartone Disney.  Cinesi e Greci erano in stretto contatto? Attraverso la storia della coraggiosa Epipola, è possibile scoprire un inedito dettaglio storico…

Che le varie mitologie di tutto il mondo presentino numerose somiglianze tra loro non è una novità: il veterotestamentario Diluvio Universale è presente anche nel mito greco di Deucalione e Pirra e nell’accadica epopea di Gilgamesh; Il Ragnarok norreno ricorda per certi versi la Gigantomachia esiodea, e addirittura nel mito del semidio hawaiano Maui troviamo diverse coincidenze con il mito di Prometeo.
Storicamente, non sono particolarmente noti contatti tra Greci e Cinesi, specie se consideriamo che l’area di influenza greca (almeno dall’età arcaica fino al primo ellenismo) era concentrata nella penisola ellenica, nell’Egeo e nel bacino del Mediterraneo. Eppure, la presenza di un singolare mito sembra farci mettere in discussione la certezza che tra Greci e Cinesi non esistessero rapporti… 

La storia è quella di Epipola di Caristo, una coraggiosissima giovane greca. La sua leggenda è strettamente collegata con la più grande guerra del mito greco, quella di Troia. Quando infatti Agamennone e Menelao cominciarono a reclutare i più valenti uomini greci per quell’epica spedizione che sarebbe stata decantata secoli dopo nei versi di Omero, l’ordine di reclutamento arrivò anche a un certo Trachione, nobiluomo di Caristo, villaggio situato nel cuore dell’Eubea. Probabilmente, questi doveva essere uno dei nobili che aveva giurato a Menelao che sarebbe intervenuto contro chiunque avesse osato profanare il matrimonio dell’Atride e della bellissima Elena. Ma Trachione era vecchio e debole, e partire per Troia significava andare incontro a morte certa: le sue vecchie ossa non sarebbero state in grado di respingere le orde troiane guidate dal prode Ettore. Tuttavia, il vecchio non poteva disertare: un giuramento era un giuramento, e non partecipare a quella guerra verso cui si stavano per imbarcare eroi come Achille, Odisseo e Aiace Telamonio significava dare prova a tutti i popoli greci della propria viltà. Ma Epipola, la figlia di Trachione, non poteva permettere che suo padre morisse di una morte così misera. E così, sul fare dell’alba del giorno della partenza, la giovane rubò al padre le armi e la corazza, e indossando un elmo chiuso per rendere più profonda la sua dolce voce femminile, radunò gli uomini di Caristo e li condusse in Aulide, laddove le navi achee erano pronte per salpare verso i Dardanelli ed Ilio. Per diversi mesi, il piano di Epipola ebbe successo, e nessuno dubitò circa il reale sesso di quella guerriera che si spacciava per Trachione. Nessuno, tranne Palamede, re dell’Eubea. Sebbene le grandi saghe epiche e tragiche non lo approfondiscano dettagliatamente (eccezion fatta per una tragedia di Euripide, giunta a noi in frammenti), la sua figura è molto interessante: noto per essere un sovrano saggio, giusto, furbo e avveduto, fu l’unico che smascherò l’astuzia di Odisseo, il quale in un primo momento si era finto pazzo pur di non partire in guerra. A lui i Greci riconoscevano l’invenzione della scrittura, dei numeri, delle unità di misura e persino dei dadi e degli scacchi. In ogni caso Palamede, tutt’altro che stupido, cominciò a notare presto dei dettagli da non sottovalutare: come mai Trachione, nonostante l’età avanzata, si destreggiava nel campo di battaglia volteggiando veloce come una libellula? Appostatosi di fronte alla tenda del guerriero, Palamede scoprì presto la verità: sotto quelle armi di bronzo lucente non si nascondeva un vegliardo ossuto e ingobbito, ma una bellissima donna dalle forme avvenenti. Palamede trascinò allora Epipola al centro dell’accampamento, denunciandola di fronte agli altri nobili e guerrieri achei. La sua colpa era quella di essersi messa in mezzo a questioni che non riguardano le donne. La guerra, nell’antica Grecia, era roba da uomini. Non era un caso che le Amazzoni, le temibili guerriere figlie di Ares, erano per i Greci sinonimo di barbarie e rozzezza. Epipola in lacrime supplicò l’aiuto di Achille, il migliore tra gli eroi greci ma anche il più umano, il quale difese con tutto sè stesso la guerriera: era vero che si era spacciata per suo padre e aveva guidato un esercito che non era il suo, ma si era pur sempre distinta in battaglia, dimostrandosi un lodevole elemento tra le schiere. Achille inoltre era l’unico che poteva comprendere il suo dramma: mentre la giovane si era vestita da uomo per partire in guerra al posto di suo padre, lui al contrario si era travestito da donna e si era finto figlia di un re per non partire per Troia e per non realizzare quell’oracolo che voleva che se fosse partito in guerra sarebbe morto giovane. Ma Palamede, che godeva della fama di uomo integerrimo, sapiente e avveduto presso l’esercito, convinse Agamennone e Menelao a mettere a morte la donna. Accordata la sentenza di morte, tutti i soldati cominciarono a prendere a sassate la giovane guerriera. E così Epipola morì a Troia, non crivellata dalle frecce o squartata dalle spade dei troiani, ma lapidata dai suoi stessi commilitoni…

A vendicare Epipola ci pensò Odisseo: giocando un colpo basso, egli fece credere ai capi achei che Palamede complottava con l’esercito nemico in cambio di denaro. Sentenziata la condanna a morte, Palamede fu lapidato proprio come Epipola.

Praticamente uguale, eccezion fatta per l’epilogo, è la leggenda di Hua Mulan, argomento di un poema epico del VI secolo d.C. noto come la “Ballata di Hua Mulan”. L’autore del poema originale è ad oggi ignoto (si propende per un’attribuzione al filosofo cinese Liang Tao), ma il testo è riportato per intero in un’antologia del XII secolo di Guo Maoqian, e la storia ha ispirato un dramma di Xu Wei, l’eroina Mulan va in guerra al posto di suo padre, e il romanzo di Sui e Teng del XVII secolo.
La storia ha inizio durante l’epoca delle dinastie del Nord (IV-VII secolo d.C.), periodo in cui i confini dell’impero cinese era minacciati dalle incursioni degli Xiognu e degli Unni. Tra i reclutati chiamati alle armi dall’Imperatore per la guerra contro gli invasori figura anche Hua Hu, condottiero cinese che già in passato aveva collezionato vittorie importanti. Ma erano passati molti anni da quei trionfi, e Hua Hu era visibilmente invecchiato. Nonostante il cuore intrepido e l’animoso coraggio che lo distingueva da molti altri guerrieri, i segni dell’età cominciavano ad avere la meglio su di lui. Eppure, nonostante l’età e la salute, Hua non poteva non rispondere alla chiamata alle armi, pena lo svilimento dell’onore della famiglia. La figlia di Hua Hu, Hua Mulan, per proteggere l’anziano padre (che come il greco Trachione è consapevole che è troppo malridotto per poter combattere) e portare alto il nome della famiglia e degli antenati, si presentò dunque all’appello militare indossando le armi del padre e con il nome del fratello più piccolo. Nonostante un primo periodo di strenue difficoltà, tra la paura di essere scoperta, le atrocità della guerra e la severità dell’ambiente marziale, Mulan si abituò presto alla vita del soldato, combattendo con tenacia e arrivando addirittura a sconfiggere in duello uno dei più feroci capi guerrieri degli Unni. Mulan servì l’esercito cinese sotto mentite spoglie per dodici anni, ma rifiutò con disprezzo ogni onore e premio per paura di esporsi troppo e correre il rischio di essere scoperta. Alla fine della guerra, quando tutti i soldati vennero premiati per il loro servizio Mulan, che nel frattempo era stata promossa al grado di generale, chiese solo un cammello con il quale poter tornare a casa. Tempo dopo, alcuni commilitoni, accompagnati da un comandante, si recarono a casa di Hua Hu per salutare quel guerriero che tanto si era distinto sul fronte. Con loro sorpresa scoprirono la verità: quel generale era in realtà una donna. Seppur sorpresi da tale rivelazione (“Dodici anni siamo stati insieme nell’esercito e nessuno sapeva che Mulan fosse una ragazza.”) i soldati applaudirono la virtù e il coraggio di Mulan, complimentandosi con Hua Hu per la valorosa e saggia figlia che aveva cresciuto. La leggenda tradizionale racconta questi eventi, eppure le numerose varianti che si sono succedute dal Medioevo a oggi modificano parti della storia più o meno importanti: nel lungometraggio animato Disney, quello che senza alcun dubbio ha reso celebre la leggenda di Mulan nel mondo occidentale, l’eroina viene scoperta quando, ferita al costato in battaglia, viene medicata nell’accampamento dai dottori che, mentre la hanno in cura, scoprono il suo segreto.

Dipinto di Hua Mulan risalente al XVII secolo.

Epipola e Mulan, due leggende incredibilmente simili, eppure distanti nel tempo e nello spazio secoli e chilometri. Ci può essere un filo conduttore che le lega? Cosa possiamo dedurre dall’incredibile somiglianza dei due miti? Può trattarsi di una mera serie di strane ma interessanti coincidenze? 
Partiamo dal presupposto che il nome di Epipola non compare mai nei poemi omerici né è mai neanche citato nelle grandi saghe tragiche d’età classica. L’unica fonte di tale leggenda è il grammatico greco d’età imperiale Tolomeo Efestione, i cui riassunti della bibliografia sono giunti a noi tramite la Biblioteca del bizantino Fozio. La leggenda di Epipola è per caso una leggenda d’invenzione ellenistica, se non addirittura di epoca successiva? O forse la sua storia era nota nella memoria collettiva greca antica ma non era ritenuta abbastanza interessante per trovare spazio nei poemi e nei cicli epici? In ogni caso un fantasioso (ma non troppo) punto di contatto con la leggenda di Mulan è spiegabile con delle recenti ricerche archeologiche che vogliono che tra i Greci e i Cinesi ci fossero dei contatti politici e commerciali, favoriti e stimolati dalle conquiste di Alessandro Magno, il cui impero sfiorava proprio i confini del territorio cinese. Se dunque la straordinaria somiglianza di statue come quelle del cosiddetto “esercito di terracotta” è stata spiegata con la plausibile convergenza di maestranze e artigiani greci e artisti asiatici e con una probabile influenza dell’arte ellenistica nella cultura materiale cinese, perchè non possiamo supporre che tali artisti greci portarono con sé, oltre alla propria arte, anche le proprie conoscenze, raccontando ai loro “allievi” con gli occhi a mandorla le storie di quegli eroi le cui gesta riecheggiavano nei secoli? Forse così la leggenda di Mulan è giunta alle orecchie dei cinesi, i quali, nei secoli seguenti, la riadattarono raccontando la leggenda di una formidabile guerriera che si era sacrificata al posto del padre… facendo una fine più dignitosa di quella della povera Epipola.

                                                                                                                                                                               Michele Porcaro

http://ilkim.it/epipola-la-mulan-greca/




SCUOLA E ATTIVITA’ MOTONAUTICHE: TRA DIVERTIMENTO ED EDUCAZIONE

Si è conclusa anche quest’anno, con grande successo, l’iniziativa “Scuola e attività motonautiche”, tenutasi al Laghetto dell’Eur. Oltre a sfrecciare sull’acqua con le “Formula uno dell’acqua”, i giovanissimi studenti dei licei romani hanno imparato i valori dello sport, della crescita e della condivisione delle regole.

L’iniziativa “LA SCUOLA E LE ATTIVITA’ MOTONAUTICHE”, organizzato dalla Cast Sub Roma 2000, in collaborazione con la Federazione Italiana Motonautica e il contributo della Regione Lazio ha ancora una volta conseguito un grandissimo successo e un numero sempre crescente di consensi. L’innovativo progetto ha dato la possibilità ai ragazzi di entrare in contatto con le attività nautiche in una location unica nel suo genere, la Piscina delle Rose, presso il Laghetto dell’Eur.

Il progetto è stato portato avanti tra metà Novembre e la fine di Gennaio, e ha coinvolto i giovanissimi alunni di numerosissime scuole del territorio, i quali hanno avuto modo, attraverso una facile didattica sia a livello teorico che pratico, di salire a bordo di un’imbarcazione e provare l’ebbrezza della guida. Tra le attività praticate dagli studenti vi è stata anche l’uso del simulatore. Il punto di forza dell’iniziativa è stato il giusto connubio tra l’elemento ludico e quello formativo-educativo: l’obiettivo principale di questo progetto, oltre a quello di sensibilizzare i ragazzi ai valori dello sport, era quello di far conoscere ed appassionare i giovani partecipanti a questa avvincente disciplina sportiva. Sono state toccate inoltre tematiche attualmente di grande interesse ed attenzione. Infatti, gli istruttori impiegati, sono stati capaci di unire il gusto dell’avventura sportiva al rispetto per il mare evidenziando i gravi danni causati dall’incuria e dalla mancanza di rispetto da parte dell’uomo nei confronti dell’elemento liquido. Molti di questi seminari sono stati tenuti dal pluricampione mondiale di offshore e Delegato regionale della Federazione Italiana Motonautica Fabio Bertolacci.

Tra divertimento ed educazione, i giovanissimi partecipanti dell’iniziativa hanno avuto modo di provare l’ebbrezza della motonautica giovanile ma anche di imparare i più alti valori che contraddistinguono questo bellissimo sport e la cultura marinara.

                                                                                                                                                  Michele Porcaro

http://ilkim.it/scuola-e-attivita-motonautiche-tra-divertimento-ed-educazione/




ARRIVANO “ARTONAUTI”, LE FIGURINE SUI TESORI DELL’ARTE

In edicola dal 15 marzo il primo album di figurine interamente dedicato alle opere d’arte. Un’originale avventura culturale che farà scoprire ai bambini le meraviglie della storia dell’arte.

Celo celo, manca manca” è uno dei tormentoni più citati nei corridoi di tutte le scuole d’Italia. Il fascino delle figurine non tramonta mai: esistono le figurine degli eroi dei fumetti,  dei cartoni Disney, dei Pokèmon e addirittura dei nostri amici a quattro zampe. Le più famose, da decenni oramai, sono quelle dei Calciatori Panini, la cui rete di scambi tra bambini dà vita a un traffico da fare invidia ai cartelli sudamericani della droga . Ma ben presto Cristiano Ronaldo, Donnarumma e Icardi saranno affiancati da Giotto, Van Gogh e Botticelli.
Dal 15 marzo uscirà in tutte le edicole di Italia “Artonauti“, il primo album di figurine in Italia e nel mondo interamente dedicato alle opere d’arte. Artonauti, nato dalla società Wizart S.r.l.i.s in collaborazione con la casa editrice La Spiga Edizioni e con il sostegno di Fondazione Cariplo, si propone come un album di figurine appositamente pensato per bambini dai 7 agli 11 anni. L’album, che sarà venduto al prezzo di 3 euro (con in omaggio tre bustine di figurine) è composto da 64 pagine che contengono un racconto introduttivo, 28 illustrazioni, 65 opere d’arte, 20 quiz e indovinelli e 2 pagine di giochi. Per completarlo, i bambini dovranno incollare ben 216 figurine. 
Tra le opere d’arte presenti nel gioco troviamo opere celebri come il Doriforo di Policleto la Gioconda di Leonardo, l’autoritratto di Van Gogh, il Giudizio Universale di Michelangelo, ma anche le pitture paleolitiche di Lascaux, le Tahitiane di Gaugin e le Teste Composte del manieristico Arcimboldo. Ma non solo figurine: Artonauti nasce anche come avventura grafica, che vede due bambini, Ale e Morgana, viaggiare nel tempo assieme al loro cane Argo alla scoperta dell’arte e dei segreti che si nascondono dietro ai grandi capolavori. 

Argo (meglio conosciuto come Agente 00 Setter), il cane che accompagnerà Ale e Morgana nella loro avventura all’insegna dell’arte, esiste davvero! È la mascotte ufficiale di “Artonauti” e, a detta dei fondatori del progetto, la realizzazione di quest’album non sarebbe stata possibile senza di lui.

Con Artonauti, l’arte diventa un gioco, e si stimola così la fervida immaginazione dei bambini attraverso il potere comunicativo dell’arte. Certo, sarà difficile soppiantare il primato di cui godono le ben più note figurine dei calciatori, ma in un paese come il nostro dove l’arte e la storia dell’arte sembrano essere un fronzolo superfluo, iniziative come queste servono come l’acqua nel deserto. L’idea di unire attraverso un album di figurine l’elemento ludico e quello formativo nasce infatti da un’idea di Daniela Re, insegnante e fondatrice del progetto, che da anni promuove una battaglia: rendere l’arte e la creatività elementi indispensabili nell’educazione del bambino. E trasformare in un gioco quelle opere d’arte che di solito vengono stampate sulle pagine dei libri di scuola (e che diventano automaticamente sinonimo di noia) significa avvicinare, stimolare, invogliare i più piccoli a quei tesori che giacciono nei musei di tutto il mondo in attesa di essere amati, colti, apprezzati. E se per Artonauti varrà lo stesso meccanismo tipico di tutti i giochi di figurine, ovvero quello degli scambi, del “Celo celo manca!”, della ricerca ossessiva e odissiaca della figurina mancante, questo vorrà dire che i bambini familiarizzeranno con le opere e con gli artisti che le hanno dato vita. Come recita uno slogan presente sul sito dell’iniziativa:

Vogliamo che i bambini crescano con la bellezza negli occhi e nel cuore

 Le figurine degli Artonauti vi aspettano in edicola a partire da venerdì 15 marzo. Che aspettate? Collezionatele tutte! 

                                                                                                                                                   Michele Porcaro 

http://ilkim.it/arrivano-artonauti-le-figurine-panini-sui-tesori-dellarte/




LE GRANDI DIONISIE: GLI “OSCAR” DELL’ANTICA GRECIA

A poche ore dalla notte degli Oscar, facciamo un tuffo nel passato alla scoperta della più prestigiosa celebrazione delle rappresentazioni teatrali: le Grandi Dionisie, la festa dedicata a Dioniso, durante le quale venivano portate in scena le saghe tragiche e le commedie più irriverenti. 

Per gli amanti del cinema, la notte degli Oscar è un giorno sacro almeno quanto il Natale. Il Dolby Theatre di Hollywood è stato addobbato a festa per accogliere gli attori più acclamati e le attrici più amate, che sfileranno sul red carpet con i loro abiti raffinati e sgargianti. La giuria è pronta a premiare i film più belli, le migliori regie e le prestazioni istrioniche più brillanti. In diretta da Los Angeles, la premiazione degli Academy Awards sarà trasmessa stanotte in tutto il mondo a partire dalle 17:00 (23:00 italiane). Sul web è già partito il TotoOscar: chi potrà mostrare alle telecamera la luccicante statuetta? Riuscirà il Freddie Mercury di Rami Malek a trionfare sul Van Gogh di William Dafoe o sul Dick Cheney di Christian Bale? La regia di Alfonso Cuaròn sarà più apprezzata di quella di un mostro sacro come Spike Lee? Non resta che rimanere svegli fino all’alba (con un abbondante thermos di caffè vicino!) e scoprirlo.

I Premi Oscar sono senza dubbio il più prestigioso riconoscimento cinematografico, e soprattutto il più antico: la prima assegnazione degli Academy Awards risale al maggio 1929. Non esiste regista o attore al mondo che non desideri vedersi consegnata quella lucente statuetta dorata. Il cinema, come sappiamo, è l’erede degno del teatro: probabilmente non esisterebbero Scorsese o Scott se non fossero mai esistiti Molière, Goldoni, Shakespeare e Alfieri. Allora perché non analizzare la storia dell’antesignano della notte degli Oscar?

Risultati immagini per greek actors vase

In assenza di microfoni, gli attori utilizzavano delle maschere per amplificare il volume della voce per farsi sentire da tutti gli spettatori seduti in platea.

Se la cerimonia degli Oscar è vissuta dai cinefili come una festa, le Grandi Dionisie, dedicate a Dioniso, dio dell’estasi, dell’ebbrezza e del vino, erano una vera e propria festa religiosa, culturale e civile. Celebrate ad Atene durante il mese di Elafebolione (tra marzo e aprile), a organizzare le Grandi Dionisie era l’arconte eponimo, il magistrato supremo della pòlis, il quale era addetto all’intera organizzazione dell’agone tragico. Dovere dell’arconte era l’assegnazione della coregia, ovvero la scelta dei tre cittadini più abbienti e carismatici a cui spettava un delicato compito: quello di finanziare l’allestimento degli spettacoli che sarebbero andati in scena, fornendo alla “troupe” i costumi, le maschere, gli strumenti musicali e l’affitto dei padiglioni per le prove. Essere scelto come corego era un privilegio inimmaginabile, in quanto tale nomina accresceva la popolarità del personaggio: non a caso, a ricoprire questa carica furono personaggi come Temistocle (che finanziò le Fenicie di Frinico) Pericle e Alcibiade. In quanto facoltosi e ricchi, questi coregi non badavano a spese pur di godere del consenso e dell’affetto della folla. Il grande teatro di Dioniso, i cui resti sono ancora visibili ai piedi dell’Acropoli, veniva addobbato a festa con nastri, decorazioni floreali e statue di pregiata qualità. Il “palinsesto” veniva annunciato il giorno della grande processione in onore di Dioniso, al termine del sacrificio rituale al dio.

Ma quanto costava partecipare a questa festa? E chi poteva partecipare?
Il biglietto, stando ad Aristofane e ai suoi scoliasti, costava due oboli, prezzo totalmente irrisorio, che serviva giusto a compensare le spese statali, che prevedevano il pagamento degli attori e dei coreuti. Inoltre, in questi due oboli era compreso il prezzo del pasto: gli spettacoli duravano tutto il giorno, e per non mettere in difficoltà gli abitanti dei dèmi (suddivisioni territoriali interne di Atene) più lontani, veniva offerto agli spettatori qualcosa da mettere sotto ai denti tra uno spettacolo e l’altro. 
L’ingresso era consentito a tutti: uomini, bambini, donne (la cui vita sociale era pressocché inesistente) e addirittura schiavi potevano sedersi tra gli spalti del teatro per assistere ai drammi che andavano in scena sulla skenè. Nessuno poteva mancare alla grande festa di Dioniso! 

Risultati immagini per oscar tickets 750 $

Un biglietto per assistere alla cerimonia degli Oscar costa 750 $… Altro che due oboli!

                                                                                                                       

I tre autori finanziati dai rispettivi coregi dovevano portare in scena una tetralogia, ovvero una saga a tema mitologico (ndr. fanno eccezione le Fenicie e la presa di Mileto di Frinico e i Persiani di Eschilo) composta da tre tragedie e un dramma satiresco.  Nel Teatro di Dioniso andarono in scena le più toccanti e struggenti tragedie, quali Edipo Re, Aiace, Sette contro Tebe, Alcesti e l’Orestea, opere che affrontavano temi delicati quali la caducità dell’esistenza umana, la morte, il freddo distacco degli dèi di fronte alle vicende umane, e l’espiazione dalla colpa. Sono drammi che parlano di eroi che si ritrovano di fronte al proprio io, di divinità capricciose e vendicative, di uomini che sbagliano e pagano caro il prezzo dei propri errori. I vari Edipo, Medea, Eracle o Agamennone diventavano rappresentanti della vasta gamma di emozioni umane, e ciò che assicurava ai tragediografi la vittoria era il senso di partecipazione che connetteva il pubblico alla tragedia che veniva recitata sulla scena: Aristotele, nella Poetica, definisce questo legame “catarsi“, prendendo in prestito tale vocabolo dal lessico medico. Lo spettatore infatti si immedesimava così tanto nei personaggi che aveva di fronte ai suoi occhi, i quali passavano da uno stato di beatitudine a una condizione drammatica, che si sentiva parte dello spettacolo; le vicende narrate suscitavano nella platea forti emozioni, e il pubblico si ritrovava a provare pietà per i protagonisti del dramma e terrore all’idea che anche ciascuno di loro avrebbe potuto trovarsi in situazioni simili a quelle rappresentate. La catarsi diventava a questo punto una purificazione, una liberazione delle proprie passioni che faceva provare agli spettatori un’esperienza unica e irripetibile. Come molti film, anche le tragedie avevano una morale o un messaggio da trasmettere: esso poteva essere un invito all’ospitalità (la xenìa, valore fondamentale nella mentalità greca), un’esortazione al giusto senso della misura o alla pietà umana. L’ingrediente patetico era una formula vincente per ottenere il primo premio…

Belle le corone d’edera… ma nulla a che vedere con una statuetta d’oro 24 carati!

E qual era il premio? 

Al termine della gara veniva attribuito un premio al miglior attore, al miglior autore e al miglior coro. Mancano solo i premi per i migliori effetti speciali e per il migliore attore o attrice non protagonista per fare delle Grandi per fare delle Grandi Dionisie i perfetti antesignani dei premi Oscar! Anche il corego, in caso di vittoria, riceveva un premio ufficiale. La giuria era composta da dieci persone, generalmente non esperti, ma spettatori pescati a sorte tra il pubblico, uno per tribù, chiamati a scrivere il nome del vincitore su una tavoletta e a depositarla poi in un’urna. Certamente il voto della giuria popolare era molto influenzato dalla reazione del pubblico che aveva assistito alle rappresentazioni dei drammi. Forse proprio per questo si arrivò a stabilire che la fortuna avesse un certo peso, perché dall’urna in cui i dieci depositavano la tavoletta con la loro personale graduatoria venivano estratte solo cinque tavolette. Per tutti i vincitori era prevista una gratificazione economica, non solo simbolica (il corega ad esempio vinceva un tripode d’oro), ma talvolta anche affiancata da una cospicua somma di denaro. Uno dei premi più in uso era la corona d’edera, simbolo di Dioniso.  A volte i resoconti con i nomi dei vincitori veniva inciso sulle epigrafi esposte pubblicamente, quasi come per consacrare a imperitura memoria il trionfo dell’agone.

Esisteva anche il premio per la miglior commedia, per la quale era previsto però un agone a parte. Cinque commediografi presentavano ognuno una commedia. A differenza delle tragedie, che sottolineavano l’interiorità, le debolezze e l’umanità dei personaggi della mitologia, le commedie si basavano su personaggi e situazioni estrapolate dalla quotidianità dell’epoca, e mettevano alla berlina le stravaganze, i vizi e il malcostume degli ateniesi, parodiando e sbeffeggiando senza troppe censure i politici o i personaggi più in voga della pòlis.

Anche il kòmos, il banchetto all’insegna della baldoria e dell’eccesso, riscontra notevoli somiglianze con i party che vengono organizzati in concomitanza alla cerimonia dei premi Oscar.

La notte degli Oscar e le Grandi Dionisie presentano numerose differenze e analogie: entrambi premiano le migliori prestazioni e le migliori sceneggiature, ma mentre la prima è una cerimonia dal valore artistico, la seconda era invece una celebrazione di carattere religioso, civile e culturale, che si rifletteva sul tessuto sociale della pòlis di Atene. Non è un caso che le tragedie di Sofocle, Eschilo ed Euripide siano considerate tra le più preziose perle dell’intera letteratura greca e occidentale. In ogni caso le somiglianze che si possono riscontrare tra gli Oscar e le Grandi Dionisie sono la prova che la storia tende a ripetersi ciclicamente, a ripresentarsi con i suoi corsi e ricorsi, a essere riadattata secondo le esigenze pur sfruttando il passato come base portante… 

                                                                                                                                                         Michele Porcaro

http://ilkim.it/le-grandi-dionisie-gli-oscar-dellantica-grecia/




SAMI MODIANO ALLA FESTA DEL LIBRO DI OSTIA

Sabato alle ore 16:00 al salone della Parrocchia di Santa Monica Sami Modiano, uno dei pochissimi sopravvissuti agli orrori dell’Olocausto, racconterà la sua esperienza durante la Festa del Libro e della Lettura organizzata dall’Associazione Culturale Clemente Riva.

Per anni abbiamo sentito parlare di Olocausto: ce l’hanno raccontato i film, i libri, le canzoni, le testimonianze. Ogni 27 gennaio celebriamo la Giornata della Memoria per ricordare gli orrori che sono stati perpetrati ad Auschwitz, Birkenau, Dachau e negli altri innumerevoli campi di sterminio in cui venivano condotti coloro che erano di religione ebraica. Le stime calcolano sei milioni di morti tra ebrei, omosessuali, oppositori politici, rom, asociali e testimoni di Geova. Samuel Modiano, detto Sami, è uno dei pochissimi sopravvissuti a quelle barbarie che il genere umano deve impedire che si verifichino di nuovo. 

Nato a Rodi (all’epoca provincia italiana) nel 1930, Sami visse un’infanzia particolarmente travagliata: nel 1938, mentre frequentava la terza elementare, si ritrovò espulso dalla scuola in quanto ebreo. Infatti proprio in quell’anno vennero promulgate le leggi razziali, che ruppero la serenità di un’intera isola nella quale le comunità cristiane, islamiche ed ebraiche, convivevano pacificamente. L’esclusione dagli studi è solo la prima delle tante sofferenze che il piccolo Sami è costretto a subire: nei mesi seguenti il padre Giacobbe, sempre a causa delle leggi razziali, si ritrova disoccupato, e la madre Diana Franco muore per una grave malattia. Ma nonostante queste ingiustizie, la vita di Sami sarà relativamente tranquilla fino al 1943, anno in cui l’armistizio e lo scioglimento dell’alleanza tra Italia e Germania causerà l’invasione nazista della Grecia. L’estate seguente, anche Rodi fu invasa dai Nazisti, che prelevarono dall’isola tutti gli abitanti di fede ebraica per deportarli verso quelle macchine di morte chiamate lager

Tra i deportati c’erano anche Sami, il padre Giacobbe e la sorellina Lucia. Gli orrori che il piccolo Sami vide in quel di Birkenau sono tra i peggiori che l’essere umano possa tollerare…

Da più di dieci anni, Sami si dedica a far conoscere la sua esperienza nelle scuole di tutta Italia, soprattutto nel litorale romano. Sabato 23 febbraio Sami Modiano racconterà la propria esperienza nel salone parrocchiale di Santa Monica, nel corso della Festa del Libro e della Lettura di Ostia organizzata dall’Associazione Culturale Clemente Riva.

Gianni Maritati, presidente dell’Associazione Clemente Riva, dichiara:

“Sono orgoglioso della partecipazione di Sami Modiano alla Festa del libro di Ostia, anche a nome di tutti i soci della Clemente Riva. La sua testimonianza di sopravvissuto alla Shoà è un contributo commovente e costruttivo, una lezione di tolleranza, rispetto e democrazia da calare nel nostro vissuto quotidiano”.

L’invito, per chi sta leggendo questo articolo e abita nei dintorni, è di assistere all’intervento di Sami Modiano, figura attiva di pace e libertà, un uomo dal grande coraggio, i cui dolori non gli hanno impedito di raccontare ad alta voce, con coraggio e con impegno, le crudeltà di un genocidio. 

                                                                                                                                                     Michele Porcaro

http://ilkim.it/sami-modiano-alla-festa-del-libro-di-ostia/