Alphabet (Google) come porta monopolista su Internet, viene per questo sanzionata con una sentenza storica negli USA dall’antitrust (Sherman Act , 1890) per violazione della concorrenza tra i motori di ricerca on-line essendo installato su oltre il 95% degli smartphone.
Primo caso di una sentenza che contrappone il Governo degli Stati Uniti ad una società tecnologica negli ultimi 20 anni e con un forte “effetto annuncio” sulle altre sorelle high tech connesse (la sentenza potrebbe avere un effetto a catena su altre grandi aziende tecnologiche, spingendole a rivedere le loro pratiche commerciali per evitare enormi sanzioni).
Forse troppo in ritardo e dopo che “i buoi sono scappati dalla stalla”? Certo “meglio tardi che mai” si direbbe guardando al bene del sistema economico nel suo complesso sotto la minaccia di recessione e per spingere una ripresa della concorrenza in questo campo critico della conoscenza e della ricerca di informazioni sulla faglia sensibile della privacy (utenti finali) e del copyright (brevetti) su “fragili” stringhe di software e già condannata 8 mesi fa per distorsioni nell’uso del suo app-store per causa avviata da EpicGames.
Quindi Google il gigante dei motori di ricerca non è stato sanzionata solo dall’Europa ma ora anche dagli USA e dopo anni che gli uffici legali di Mountain View cercano di deviare le sentenze su “binari morti” mettendole in sonno, ma nel frattempo “modellando” i mercati preventivamente a loro immagine e somiglianza parando i colpi potenziali dell’antitrust, che seppure in ritardo sono arrivati. Anche la patria di Google si è resa conto dell’elefante nella cristalliera diventata immobile con le violazioni della concorrenza per abuso di posizione dominante nelle ricerche on-line già avviate da anni da parte di diversi Stati dell’Unione.
Certo tremano anche le “mega-sorelle” come Amazon, Apple, Meta. Su quest’ultima corporation di Mark Zuckerberg starebbe per essere sganciata una multa UE da oltre 10 miliardi di euro per il collegamento illegale della Platform Place a Facebook creando un vantaggio indebito a discapito dei concorrenti. Quindi su entrambe le sponde dell’Atlantico si è intervenuti per sanzionare comportamenti scorretti con danni per l’intero sistema industriale-commerciale high tech (e non solo) consentendo a questi pachidermi di crescere in modo anomalo nei valori borsistici ma senza adeguati stimoli ad investire in innovazione.
E’ infatti noto che in ordine decrescente di capitalizzazione Apple, Microsoft, Nvidia, Amazon, Meta (Facebook), Alphabet (Google) e Tesla hanno raggiunto un abnorme valore di borsa di 13mila miliardi di dollari. Valore superiore all’intero prodotto lordo dell’area euro con Apple che è una volta e mezza l’Italia. Raggiungendo insieme il 25% dell’intera capitalizzazione della borsa americana che a sua volta vale il 70% delle borse mondiali. Le “sette sorelle” high tech valgono insieme come le borse del G7. Un enorme squilibrio di aziende appunto con testa gonfiata (dalla speculazione borsistica mondiale) e corpo “flaccido e fragile” da under-investment innovativo.
Perché da rentier quali sono diventate non sono incentivate ad investire adeguatamente limitandosi a sovra-remunerare gli azionisti, “mangiandosi i concorrenti” quando necessario (Wapp tra queste per esempio). Dunque ora si tratterà di capire quali saranno le scelte del giudice Amit Mehta, ossia se costringerà Google ad un cambio di comportamento (potrebbe dover rivedere i suoi contratti con i produttori di smartphone e altri partner per evitare ulteriori violazioni antitrust) oppure a vendere parte delle attività.
E’ evidente che la prima scelta è inefficiente o inutile vista la enorme ricchezza accumulata da Google (ma certo dipenderebbe dal livello della multa), mentre la seconda potrebbe invece avere effetti di sistema rilevanti facendo ripartire la macchina dell’innovazione come fu con lo scioglimento di AT&T nel 1983 e con l’entrata in settori distanti dalle telecomunicazioni e con la creazione di compagnie telefoniche indipendenti.
L’abnorme dimensione di queste compagnie è di per sé una barriera all’innovazione ed è il motivo per cui andrebbero “affettate” (costrette a vendere segmenti dei loro business – core e/o non core) nel loro stesso interesse per gemmare nuove ondate di innovazione aprendo il mercato a nuovi concorrenti e offrendo agli utenti più opzioni.
Anche perché è falsa l’argomentazione della “maggiore qualità del loro motore di ricerca” tesa a spiegare la meccanica della concentrazione, dato che in questi 20 anni ha pagato centinaia di milioni di dollari ad Apple LG e Samsung Electronics per assicurare il posizionamento privilegiato di Google-Crome nei loro device a fronte di incassi annuali superiori ai 300 milioni di dollari generati dai semplici annunci di ricerca, leva della raccolta monopolistica di pubblicità digitale e per la quale dovrà difendersi in altro processo in avvio dal 9 settembre detenendo il 40% della raccolta pubblicitaria globale (Meta con il 18% e Amazon con il 7%).
Tanto che solo nel 2021 Google ha versato a queste tre big corporation del SW_HW con altre compagnie telefoniche come AT&T e Verizon ben 26,3 miliardi di dollari per imporre il suo motore di ricerca l’opzione di default all’accensione degli smartphone. Infatti, queste imprese non innovano da almeno tre lustri perché si limitano ad acquisire start up innovative ricoprendole d’oro, magari – paradossalmente – per “spegnerle” in quanto sottrattive di profittabilità e in contrasto con il sostegno all’accelerazione innovativa.
Fattori che non sono estranei al gonfiamento della bolla high tech alimentata dagli (eccessivi?) investimenti AI dell’ultimo anno e alla delusione per “ritardi performativi” rispetto alle attese (come avvenuto in tutti i salti precedenti con Internet, chip super-veloci e con i social negli ultimi 40 anni).
Dunque connessi alla caduta delle borse di questa ultima settimana nello stato di grande incertezza geostrategica globale anche in relazione a banche centrali “dubbiose” sulle decisioni di riduzione dei tassi, forse utili almeno per frenare i rischi emergenti di recessione e di riduzione del dinamismo dell’intero ecosistema dell’innovazione globale.
Nelle mani del giudice Amit Mehta stà dunque la responsabilità di riattivazione delle regole antitrust come chiave per accelerare lo sviluppo di nuove ondate tecnologiche di innovazione diversamente da come pensano alcuni “nuovi tycoon” di Silicon Valley (come Peter Thiel) che ritengono che sia invece il monopolio la strada necessaria, anche se la storia ci dice cose non solo diverse ma opposte, perché la società della conoscenza e dell’informazione devono mantenersi aperte e libere con una dinamica competizione tra eguali negli accessi in condizioni di contendibilità.
Non c’è competizione senza libertà di accesso e non c’è accesso libero senza una democrazia funzionante bilanciata da poteri in equilibrio (legislativo, esecutivo, giudiziario dialoganti con corpi intermedi flessibili) capace di favorire la convergenza tra efficienza e adattabilità, tra visione e razionalità. Decidendo dunque se vogliano essere foreste rigenerative (orizzontali, inclusive, aperte, auto-organizzate, adattative, plurali e circolari) o formicai riproduttivi (verticalmente integrati da un controllo top-down, in un corporatismo chiuso e immobile).
David Hume nel 1739 nel “Trattato sulla Natura Umana” indicava la prima strada e aveva ragione !
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