I Crypto-Assets: schema Ponzi o pilastro dell’economia della conoscenza?

  ICT, Rassegna Stampa
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Fabio Panetta, membro dell’Executive Board dell’European Central Bank, in un recente intervento alla Columbia University (25 aprile) ha pesantemente attaccato il mondo cripto, sostenendo che “crypto assets are bringing about instability and insecurity, creating a new Wild West” e che “like in a Ponzi scheme, such dynamics can only continue as long as a growing number of investors believe that prices will continue to increase and that there can be fiat value unbacked by any stream of revenue or guarantee. Until the enthusiasm vanishes and the bubble bursts”.

Fermo restando il diritto costituzionale di manifestare liberamente il proprio pensiero, tali dichiarazioni da parte di un membro in carica dell’advisory board dell’ECB hanno un peso rilevante nel dibattito pubblico sulle cripto: Panetta, con tutto l’insostenibile peso della sua carica di membro dell’advisory board della massima istituzione monetaria europea, custode dell’euro, ha dichiarato che i crypto-assets sono uno schema Ponzi, cioè, sostanzialmente una truffa che scoppierà nelle mani di chi ci ha investito risparmi, tempo e (sia concesso dirlo) passione in quel sistema di monadi, ecosfere digitali ma anche community, che sono le blockchain.

Proprio nei giorni in cui Goldman Sachs decide di accettare i bitcoin come collaterale per l’emissione di prestiti in valuta corrente, l’intervento di Panetta colpisce per retorica, tempistiche e contenuto. Perché parlare di “schema Ponzi”? Perché proprio ora? Perché parlare solo di regolamentazione delle criptovalute?

In questo articolo, sosteniamo che l’evoluzione dell’universo “cripto” impone la necessità di una visione strategica secondo la quale la mera “demonizzazione” delle criptovalute per motivare un “regolatory push” rischia di minare i buoni intenti sociali alla base della regolamentazione stessa. E questo non ha a che fare con il “quanto stringenti saranno le regole”, ma con l’obiettivo che le normative europee si devono porre. Non c’è solo riciclaggio nell’universo “cripto”. C’è anche impresa, sperimentazione di economia digitale ed innovazione finanziaria, di cui l’economia europea ha estremamente bisogno, se non vuole continuare a perdere competitività sui mercati. 

Schema Ponzi: molto rilevante ma potenzialmente fuorviante

Panetta ha definito i crypto-assets uno schema Ponzi. Lo schema Ponzi consiste in una piramide di debito, nella quale nuovo debito viene emesso per ottenere liquidità che permette di rimborsare parti di debito pregresso. Il mondo “cripto” è un mondo di titoli finanziari di debito? No: una criptovaluta non è una “obbligazione di debito” in senso stretto. Allora? Il problema è che gli ecosistemi cripto offrono strumenti per il “trading” – cioè di pura compravendita – di criptomonete che permettono di andare “a leverage”: si prende a prestito una parte del capitale per finanziare le operazioni di compravendita, mettendo a garanzia un ammontare iniziale. Questo consente di guadagnare o di perdere un ammontare di capitale spesso ben più ampio di quello di cui si dispone nel proprio portafoglio prima della compravendita. In realtà, per amplificare guadagni o perdite legate alle fluttuazioni dei prezzi delle criptovalute, non occorre aprire portafogli virtuali o accounts presso cripto exchanges: alcuni mercati tradizionali – come la Borsa di Vienna – permettono già di acquistare dei titoli finanziari i cui rendimenti sono costruiti come multipli dei cambiamenti giornalieri di indici di criptovalute.

Quì nascono due questioni. Innanzitutto, come chiarito dal Financial Stability Board in un rapporto pubblicato nel 14 febbraio 2022, l’ammontare di leverage assunto dai partecipanti agli scambi è stimabile soltanto con un grado di confidenza limitato. In aggiunta a tutto ciò, i mercati delle criptovalute vedono la presenza di “whales”, cioè grandi investitori, che detengono quantitativi importanti delle cripto disponibili nel mercato: ciò crea un potenziale problema di manipolazione a fini speculativi, i cui effetti sui mercati possono essere amplificati dal ruolo delle compravendite a leverage.

Partiamo da un punto chiaro: una “criptomoneta” o “token fungibile” svolge la funzione di unità di conto, la quale viene tipicamente utilizzata per il trasferimento di risorse economiche. Certo, come abbiamo già detto, questa unità di conto può essere usata per fini puramente speculativi. Ma, solitamente, quale scopo viene perseguito dall’offerta “primaria” – cioè per la prima volta – di un token a favore degli acquirenti di mercato? Emettere un “nuovo” token permette di acquisire risorse economiche che vengono, poi, utilizzate per la realizzazione di progetti in un ecosistema di blockchain. Un token viene acquistato pagando tramite una “stable currency”, cioè in rapporto di cambio 1 ad 1 con valute del mondo reale: per esempio, un Tether viene scambiato per un dollaro statunitense. E chi emette un token finisce per ottenere valuta corrente dai compratori. Qui arriva la parte importante. I progetti che vengono finanziati tramite l’emissione di tokens possono consistere nella creazione di un’intera infrastruttura di blockchain, oppure nella realizzazione di applicazioni software che generano utilizzo della blockchain stessa. Si tratta dell’economia digitale, cioè l’economia della conoscenza: l’Unione Europea, con la strategia di Lisbona del 2000, aveva sbandierato al mondo che l’economia europea, entro il 2010, sarebbe dovuta diventare l’economia della conoscenza più competitiva al mondo; nel 2022, purtroppo, si può registrare il fallimento di tali roboanti dichiarazioni.

Il messaggio è semplice: la natura centrale del problema economico finanziario non ha niente a che fare con lo schema di Ponzi. E questo ci porta ad un punto fondamentale: si tratta di portare gli incentivi fuori dalla strada della mera speculazione di breve periodo, verso la direzione della creazione della nuova economia digitale.  

Il Far West tra cinema e digitale, tra sceriffi e criminali

Nella cinematografia del “Far West”, il nome di Sergio Leone – un italiano – viene spesso associato a quello di Clint Eastwood – uno statunitense. In riferimento alle cripto, possiamo ora accostare il nome di Fabio Panetta a quello di Gary Gensler. Infatti, è stato proprio Gensler, Presidente della Securities and Exchange Commission, l’authority di regolamentazione finanziaria statunitense, e peraltro già professore di blockchain al MIT, a proporre un uso metaforico del termine Far West per indicare il mondo cripto. Ma si tratta davvero di un territorio selvaggio? A parere di chi scrive, tale affermazione è passibile di una duplice interpretazione: da una parte il “Far West” come assenza di un quadro regolamentare chiaro; dall’altra il ‘Far West’ nel senso di un mercato in cui operano principalmente gruppi criminali che pongono in essere attività illecite.

Dal punto di vista regolamentare, alla data attuale, i principali paesi del mondo occidentale stanno lavorando alacremente nella fucina legislativa delle commissioni parlamentari per fornire un quadro regolamentare chiaro e ben definito al mondo cripto. Per quanto riguarda la Unione Europea, l’iter di approvazione della proposta di regolamento nota come MICA (“Markets in Crypto Assets Regulation”) – la quale stabilirà un quadro regolamentare definito per i “crypto-assets” – è in stato già fortemente avanzato. Il Parlamento Europeo ha, altresì, in cantiere il TFR (il “recast” del “Transfer of Fund Regulation”), cioè l’atto normativo che estenderà alle criptovalute il regime regolamentare previsto per i trasferimenti di denaro in euro. In particolare, possiamo ricordare la cosiddetta “travel rule”, in base alla quale gli operatori del mercato del trasferimento di fondi in monete in cripto dovranno acquisire e verificare i dati relativi ai mittenti e ai beneficiari dei flussi di pagamento.

Il fatto che un quadro regolamentare chiaro sul mondo cripto è in arrivo a breve nei principali paesi occidentali è sicuramente un fatto positivo per tutti i soggetti coinvolti poiché permetterà agli operatori del settore di poter sviluppare il proprio business all’interno di un framework regolamentare certo, trasparente e chiaramente definito.

Si può parlare di “Far West” anche nel senso che tutto il sistema delle criptovalute è, in realtà, un modo per offrire all’industria internazionale del riciclaggio una efficiente piattaforma totalmente anonima by default per l’effettuazione di transazioni illecite: un grandissimo velo digitale calato ad arte sul crimine internazionale. E’ vero? Non esistono informazioni certe in proposito ma quello che (ragionevolmente) si può dire è che, se da una parte, nei sistemi delle blockchain si muovono diversi gruppi criminali i quali hanno naturalmente fiutato l’opportunità di sfruttare le opportunità dell’anonimato strutturale che, almeno a oggi, caratterizza le blockchain; dall’altra, nella galassia blockchain operano e lavorano una moltitudine di soggetti, persone fisiche o imprese, che stanno sviluppando nuovi modelli di business, molti dei quali nell’ambito dell’industria creativa, e che nulla hanno a che fare con il riciclaggio. A tale proposito, recenti fatti di cronaca indicano come la criminalità organizzata sia stata – e in molti casi è ancora – attore attivo in settori economici importanti, come l’edilizia e le opere infrastrutturali pubbliche, lo smaltimento dei rifiuti e la sanità (sia pubblica che privata). Ma ciò non significa che si tratti di settori economici “marci” o “criminali” “by default”: una considerazione ovvia. In fin dei conti, nei film del genere “western”, gli sceriffi esistono per proteggere i buoni.

Quali sono i veri termini della questione quando si parla di regolare i mercati delle criptomonete in Europa?

A nostro avviso, parlare di “schema Ponzi” rischia di portare l’attenzione delle istituzioni e del dibattito pubblico verso una direzione che non cattura l’essenza dei problemi. Il nostro pensiero si basa su tre tipi di considerazioni.

In primo luogo, come già detto sopra, parlare di criptovalute non significa parlare soltanto di “finanza”, ma anche di “imprese digitali”: da questa prospettiva, demonizzare le criptomonete rischia di mettere in dubbio le opportunità che possono emergere dalla token economy. E questo ha a che fare con lo stesso processo di evoluzione della struttura economica che ha caratterizzato le economie occidentali dal periodo della prima rivoluzione industriale. Dunque, le dichiarazioni di Panetta colpiscono perché non fanno menzione della possibilità che sperimentazioni tecnologiche portino ad implicazioni per l’economia reale, sviluppando nuovi paradigmi di business o nuove forme di organizzazione sociale (come le “DAO” o decentralized autonomous organizations.) sul sistema dei crypto-assets.

Inoltre, le criptomonete – che piaccia o meno – costituiscono uno dei “building blocks” di un emergente sistema finanziario digitale che può competere con il sistema finanziario tradizionale nel creare innovazione finanziaria. Le criptomonete potrebbero, quindi, garantire l’accesso a forme di investimento finanziario che non trovano necessariamente una contropartita nelle opportunità offerte dal sistema finanziario tradizionale.

Infine, last but not least, per capire davvero le implicazioni della posizione di Panetta, dobbiamo fare un passo indietro e considerare la prospettiva “macro”. Ciò che è stato scritto fino ad ora va letto e interpretato alla luce della competizione valutaria tra dollaro statunitense ed euro: più che la demonizzazione delle criptovalute, il vero tema centrale riguarda la valenza strategica che queste possano avere per orientare le preferenze degli investitori internazionali verso un’area valutaria del mondo reale piuttosto che verso altre aree valutarie. In fin dei conti, per acquistare criptovalute legate a specifici progetti nelle infrastrutture di blockchain, occorre avere disponibilità di moneta corrente. Allo stesso tempo, le diverse forme di reddito create dai progetti in blockchain possono essere spese soltanto dopo aver convertito le criptovalute in moneta corrente.

Una mera demonizzazione delle criptovalute, quindi, rischia di distogliere l’attenzione dal tema dirimente: la necessità di una prospettiva strategica europea sulla visione di economia e finanza del futuro. Si tratta della necessità di una visione che riconosca che i segmenti emergenti del sistema economico-finanziario legati alle criptovalute – e, dunque, alla token economy – vanno portati e mantenuti anche sotto la sfera di influenza dell’euro. In altre parole, vanno sottratti al tentativo aggressivo di stabilire un monopolio di controllo basato sulla supremazia del dollaro statunitense. La competizione valutaria tra dollaro statunitense ed euro è il prodotto della creazione della nostra moneta unica. Ma proprio questa competizione richiede agli Europei di far capire agli investitori internazionali che l’Europa è capace di competere nel creare fonti di crescita del reddito, incluse le nuove tecnologie emergenti dell’industria della conoscenza come i crypto-assets e il Metaverso.

Nel Febbraio 2001, Tommaso Padoa Schioppa – allora membro del Board della BCE – fu ospite in un incontro informale con gli studenti dell’Università Bocconi. La stampa non c’era: si trattava di un’occasione di mero piacere accademico e di confronto con i giovani (tra cui, uno degli autori di questo articolo) sull’euro, all’epoca in fase di debutto sulla scena monetaria internazionale. A metà sala, Giacomo Vaciago si alzò e pose una domanda: “come convinciamo gli investitori?”. Sarebbe interessante riqualificare questa domanda per porla all’attuale membro del Board della BCE Fabio Panetta: se gli USA corrono verso le criptomonete e la token economy e l’Europa li demonizza, come continuiamo a convincere gli investitori?

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