5G e digitale terrestre, in Manovra la ‘riforma’ ombra dello spettro italiano (prima parte)

  ICT, Rassegna Stampa
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Nelle pieghe della legge di bilancio si è deciso di inserire un lungo articolo intitolato “uso efficiente dello spettro e transizione alla tecnologie 5G”. Si tratta di una vera e propria riforma “ombra”, che avrebbe meritato una legge ad hoc, anche se il suo inserimento in un testo blindato come la legge di  bilancio, si giustifica per fissare  l’introito minino stabilito per la gara per le frequenze della banda 700 Mhz da destinare al 5G: il Governo si aspetta non meno di 2,5 miliardi dall’asta.

Cominciamo da un’analisi del testo, cercando di inquadrarlo nel contesto del sistema italiano, politico e delle comunicazioni, alla luce sia della sua storia recente e soprattutto delle prossime scadenze istituzionali, dalle elezioni politiche al rinnovo del vertice Rai nel corso del 2018. Nel primo passaggio del testo al Senato è stato aggiunto l’obbligo di vendere al pubblico, dal primo gennaio 2020, solo apparecchi radio con interfaccia che ne consentano l’uso con lo standard digitale Dab Plus.

Le procedure per l’assegnazione dei diritti d’uso delle frequenze interessate alla banda larga mobile, in primis quella 694-790 Mhz della banda UHF e le bande 3,6-3,8 GigaHertz e 26,5-27,5 Ghz, dovranno essere definite dall’Agcom entro il 30 aprile del prossimo anno (il 31 marzo nel testo originale del Governo, modificato al Senato). Il piano di ripartizione delle frequenze sarà adeguato dal Ministero dello Sviluppo entro il 30 settembre 2018: è sperabile che si possano eliminare alcuni ostacoli al pieno sviluppo delle nuove tecnologie digitali, come le frequenze in banda VHF detenute dalla Difesa, che non possono essere utilizzate per la radiofonia digitale.

Sarà, quindi, un’asta a frequenze occupate sino al 2022, al termine dell’ultimo anno ottenuto dall’Italia nei confronti di una Unione Europea che, giustamente, vorrebbe lanciare il 5G in tutti i mercati e paesi europei entro il 2020, per non arrivare in coda ai paesi dell’Estremo Oriente e agli Stati Uniti.

Si spera che gli operatori che vinceranno la gara non replicheranno l’attuale digital divide che, per esempio, costringe molti piccoli centri e molte case isolate – dove vanno a vivere un numero sempre maggiore di italiani – a utilizzare ancora magari la rete Edge, aspettando minuti e minuti prima di caricare una pagina dal Web, mentre le grandi città, in genere, possono contare su reti a maggiori prestazioni.

L’obiettivo è, quindi, quello di liberare dall’emittenza televisiva una banda di frequenze pregiate per darle in uso a operatori telefonici: fin qui il primo comma. Quelli successivi indicano la rotta con la quale raggiungere l’obiettivo e, allo stesso tempo, centrare il secondo obiettivo: quello di trasformare l’Italia da paese “canaglia” nell’uso delle frequenze dei paesi confinanti a paese che rispetta al 100% quanto stabilito nelle Conferenze Mondiali di Ginevra.

L’asta competitiva dovrà essere terminata per il 30 settembre del prossimo anno, quando il Ministero dello Sviluppo economico assegnerà i diritti per la banda 700, con disponibilità dal luglio 2022, agli operatori di comunicazione elettronica che parteciperanno alle procedure definite entro l’aprile dall’Agcom. Per le frequenze in gigahertz, al di fuori della banda 700, i tempi sono più sbrigativi: andranno liberate entro il primo dicembre 2018: entro il 30 settembre il Ministero dello Sviluppo individuerà porzioni di spettro da assegnare in uso a chi dovrà abbandonare tali frequenze, seguendo il Piano di ripartizione che andrà approvato, come sopra, entro fine settembre (si rispetterà davvero tale tempistica? Visti i precedenti, qualche dubbio è lecito).

Con il quarto comma dell’articolo 89, meglio ex articolo 89, perché con i maxi emendamenti sulle leggi di bilancio cambiano i numeri degli articoli, si entra nel cuore del problema: la liberazione dalle reti televisive della banda 700. A monte, va precisato, ci saranno gli accordi di coordinamento con gli stati confinanti, da chiudere entro fine 2017.In base a questi ultimi, l’Agcom deve approvare il Piano nazionale di assegnazione delle frequenze entro il 31 maggio 2018, utilizzando il criterio delle aree tecniche (e non sempre quello dei  bacini regionali)….Saranno quindi oggetto di assegnazione solo le frequenze attribuite all’Italia dagli accordi internazionali, per la prima volta nella storia della televisione nazionale. Le altre non potranno essere pianificate: peraltro il precedente Piano di assegnazione dell’Agcom non venne rispettato dall’esecutivo dell’epoca, assegnando, nel 2010, frequenze non attribuite e all’Italia insieme a quelle  che – com’era noto a tutti, assegnatari compresi – sarebbero state messe all’asta, pochi mesi dopo, per la banda mobile: parliamo della banda “800”, la cui “liberazione” è poi costata allo Stato 174 milioni di euro.

La filosofia che sta dietro l’ambizioso progetto di riordino che va sotto il nome di ex articolo 89, infatti, è quella per la quale le frequenze non sono più un bene primario per l’emittenza, ma vengono date in gestione a operatori di rete che poi noleggiano la capacità trasmissiva alle emittenti, che, sgravate dai costi di manutenzione e upgrade della rete di trasmissione, potranno dedicare i propri investimenti a quello che doveva essere il loro core business, ovvero la produzione di contenuti di qualità.

Un’osservazione, prima di chiudere questa prima parte di analisi dell’ex articolo 89: tale separazione tra operatore di rete e fornitore di contenuti è prevista organicamente solo per le emittenti locali, che dovranno restituire le frequenze attualmente in uso per ricevere capacità trasmissiva. Le emittenti nazionali dovranno ricevere sì capacità trasmissiva, ma dagli attuali operatori di rete, cioè da loro stessi: Mediaset da EITowers, per esempio. A meno che, nel frattempo, non vada avanti il progetto, esistente sulla carte, di una società nazionale delle torri, il mitico operatore unico.

(1 – continua)