Un regno lungo ben 44 anni, in cui ha costruito mille chilometri di strade; le mega autostrade che portano a Long Island e in tutto lo stato di New York; più di 8 mila ettari tra parchi e spiagge pubbliche; 658 campi da gioco; 7 ponti; il quartier generale dell’ONU, lo zoo di Central Park e il complesso artistico del Lincoln Center. È questo il regno del più grande progettista urbano di New York, Robert Moses, vissuto tra il 1888 e il 1981. In un dilatato arco temporale, quasi cent’anni, ha potuto modellare la città più cosmopolita del mondo che oggi, però, si riscopre figlia di ponti razzisti. La sua influenza sulle città americane è stata maggiore di qualsiasi altra persona. Nessun politico eletto ha segnato così profondamente il corso della vita degli americani della East Coast scegliendo, ad esempio, che gli spostamenti dei newyorkesi dovessero avvenire in via esclusiva sulle quattro ruote e non sui mezzi pubblici.
Dopo la morte di George Floyd, ucciso dalla polizia di Minneapolis durante un fermo il 25 maggio scorso, le proteste hanno raggiunto anche Babylon Village, tra le cittadine simbolo di Long Island, isola della città di New York, abitata da 7 milioni e 600 mila persone. È qui che campeggia la statua di Robert Moses, figura, dunque, controversa della storia americana, accusato nella biografia di 1.300 pagine scritta da Robert Caro, Power Broker, di aver progettato deliberatamente i parcheggi con ponti bassi per impedire agli autobus di portare persone da New York a Long Island. Impedire, insomma, alle famiglie a basso reddito di viaggiare in autobus verso Long Island, la spiaggia bianca dei newyorkesi, e sostenere quindi la causa segregazionista dell’isola. Ad uso e consumo solo delle classi ricche. È magistrale Robert Caro quando scrive che Moses sosteneva a sua discolpa che gli afroamericani non amassero le acque gelide dell’Atlantico, abituati forse a mari più caldi.
Il biografo scrive ancora che i funzionari della città di New York avevano iniziato a notare, con crescente allarme, che i nuovi ponti e le autostrade del progettista non stavano risolvendo il problema del traffico: al contrario, la creazione di più chilometri di asfalto percorribile sembrava solo attrarre più macchine. Moses tuttavia si rifiutò di investire nella metropolitana o di costruire strade più larghe, per far scorrere i binari del treno nel mezzo. “Se non riusciva a capire come era diventata infernale la guida a New York, forse era perché, per lui, non lo era – spiega Caro –. Il grande sostenitore della cultura automobilistica, infatti, non aveva mai imparato a guidare e aveva un autista personale ovunque andasse, spesso su strade sgomberate in anticipo dalla polizia”.
Sabato 20 giugno, un gruppo di manifestanti si è radunato a Babylon Village per chiedere la rimozione forzata della statua che ritrae Robert Moses. Tantissimi giovani, per lo più bianchi, hanno imbracciato cartelli e slogan contro il razzismo e una petizione che conta già 13 mila firme, da presentare alle autorità cittadine. Moses è accusato di aver progettato le strade in maniera tale da non far passare gli autobus provenienti dalla city. Ponti bassi off limits per gli autobus. Ponti razzisti, laddove i ponti sono generalmente immaginati come trait d’union tra culture e razze diverse.
IL POST DI BANKSY
È il 6 giugno quando lo street artist di Bristol, il più famoso al mondo, sulla cui identità si cela ancora il massimo riserbo, pubblica un post sul suo profilo Instagram. Banksy – 9 milioni e mezzo di follower su questo social – posta 3 foto: un ritratto di George Floyd e una candela accesa in sua memoria. Sopra il ritratto, la bandiera americana che sta prendendo lentamente fuoco a causa della candela. E poi, l’analisi più logica e asciutta che si possa fare sul razzismo.
“All’inizio ho pensato che avrei dovuto restare in silenzio e ascoltare la gente di colore sulla questione – scrive Banksy –. Ma perché dovrei? Questo non è un loro problema. È un mio problema. Le persone di colore sono tradite dal sistema. Il sistema bianco. Come un tubo rotto che inonda l’appartamento delle persone che vivono al piano di sotto. Questo sistema difettoso sta rendendo la loro vita una sofferenza, ma non è compito loro risolverlo. Non possono. Nessuno li lascerà agire nell’appartamento al piano di sopra. Questo è un problema bianco. E se i bianchi non lo risolvono, qualcuno dovrà andare al piano di sopra e dare un calcio alla porta”.
ANCH’IO SONO L’AMERICA
Tutti gli afroamericani hanno letto le poesie di Langston Hughes, raccolte nel famoso libro The Weary Blues, tra le quali primeggia la celeberrima “Anch’io sono l’America”. Hughes era poeta, scrittore e giornalista e negli anni Sessanta si schierò nettamente contro il razzismo, rivendicando pienamente la sua appartenenza all’America.
Ecco i versi:
Anch’io canto l’America.
Io sono il fratello più scuro.
Mi mandano a mangiare in cucina
quando vengono ospiti,
ma io rido
e mangio bene
e divento forte.
Domani,
siederò a tavola
quando vengono gli ospiti.
Allora
nessuno oserà
dire di me
e poi,
vedranno come sono bello
e si vergogneranno:
anch’io sono l’America.
JUNETEENTH
Non poteva passare dunque inosservato il 155esimo anniversario del Juneteenth, contrazione di 19 giugno in inglese, da giugno “june” e diciannove “nineteenth”, la data che segna la fine della schiavitù in America. Il 19 giugno 1865, i soldati dell’Unione arrivarono a Galveston, in Texas, e annunciarono agli schiavi che la guerra civile era finita e la schiavitù abolita, quindi loro erano persone libere. La festa, che non fa parte delle celebrazioni nazionali, è sempre stata considerata, almeno fino ad ora e fino alle proteste del Black Lives Matter, ad appannaggio esclusivo degli afroamericani. Niente, insomma, se la si paragona a festività come il Thanksgiving, il Giorno del Ringraziamento celebrato il quarto giovedì di novembre, o l’Independence Day, il 4 luglio, giorno nel quale le 13 colonie si staccarono dalla Madrepatria, il Regno Unito. Al silenzio del presidente Usa Trump, ha fatto da contraltare il sindaco di New York Bill De Blasio che ha annunciato che dal prossimo anno Juneteenth sarà una festa ufficiale in città, anche nelle scuole pubbliche.
I NONSENSE AMERICANI
A cadere vittima di questo clima politico è stato perfino uno tra i più grandi capolavori del cinema mondiale, Via col Vento. La piattaforma HBO Max lo ha ritirato dal catalogo perché razzista. La tormentata storia d’amore tra Rossella O’Hara e Rhett Butler, ambientata negli anni della Guerra Civile, “è il prodotto del suo tempo” e “presenta alcuni pregiudizi etnici e razziali che sfortunatamente sono stati comuni nella società americana”, ha spiegato un portavoce del servizio in streaming. Con 8 statuette, tra cui quella a Hattie McDaniel, migliore attrice non protagonista e prima afroamericana a vincere un Oscar, la pellicola del 1939 con Vivien Leigh, Clark Gable e Olivia De Havilland è considerata un classico del cinema americano, e questa decisione ha il sapore del nonsense. Se Rhett Butler avesse potuto commentare quanto è avvenuto, avrebbe senz’altro ripetuto la sua più illustre battuta sul finale del film: “Frankly my dear, I don’t give a damn”, il suo iconico “Francamente me ne infischio”.
Un Paese, l’America, che non sa probabilmente quale strada deve intraprendere, un Paese talmente eterogeneo da tornare ad avere spaventosi rigurgiti di conservatorismo e, sul cui sfondo, è ripresa la campagna per le elezioni presidenziali tra un uomo di 74 anni, Trump, e uno di 77, Biden.
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