Dopo un tragico anno di pandemia, come ho già osservato in generale, nel mio precedente articolo “Donne e Coronavirus. Si può parlare di emancipazione femminile ai tempi del Covid-19?” del 28 aprile, dobbiamo registrare molti passi indietro sotto diversi aspetti nella condizione della donna.
Tralascio l’aspetto della violenza di genere perché è sotto gli occhi di tutti l’aumento esponenziale che le restrizioni e le limitazioni imposte dalla lotta al Covid 19 hanno comportato, per concentrare l’attenzione sul lavoro, essendo chi scrive profondamente convinta che l’emancipazione (e la liberazione) delle donne debba necessariamente passare attraverso il lavoro.
I dati ISTAT sulla disoccupazione di dicembre ci dicono che l’occupazione torna a diminuire e che il calo occupazionale è concentrato sulle donne.
Il dato deve evidentemente essere spiegato per essere compreso del tutto.
Durante quest’anno di pandemia ci dice l’Istat “Il numero di persone rimaste senza lavoro è considerevole, soprattutto a seguito delle cessazioni dei contratti a termine non rinnovati e del venir meno di nuove assunzioni in un generalizzato clima di “sospensione” delle attività, inclusa quella della ricerca di lavoro. Il calo dell’attività e dell’occupazione si è concentrato nei servizi e, complessivamente, ha avuto effetti ridotti nella manifattura.”
E’ una radiografia del lavoro delle donne che per la maggior parte sono presenti in lavori precari, a tempo determinato e nei servizi.
Eppure si dice da tempo che il superamento delle disuguaglianze di genere innescherebbe nei paesi dove ciò avvenisse un miglioramento delle condizioni di vita ed un rilevante sviluppo economico.
Non lo dicono gruppi di femministe sfegatate, ma gli studi dell’Organizzazione internazionale del lavoro delle Nazioni Unite (ILO), che in un report intitolato “World employment social outlook – Trends for women 2017”, affermava che riducendo la disparità fra uomini e donne che lavorano del 25%, si garantirebbe un vantaggio in termini di Pil aggiuntivo da 5800 miliardi di dollari (circa 5182 miliardi di euro) entro il 2025!!!
Parte dallo stesso presupposto il World Economic Forum, una fondazione svizzera che ogni anno dal 2006 redige un rapporto con cui si propone di catturare, su base annuale, la disparità di genere e di quantificare i progressi fatti in tale settore nel corso degli anni.
Secondo il Global Gender Gap Report 2020 del World Economic Forum, pubblicato a fine 2019, quindi ante pandemia, ci vorrà un centinaio di anni (per la precisione 99,5) per la parità tra uomini e donne.
E per la parità a livello di accesso alla partecipazione economica addirittura 257 anni!
Il Report fornisce una panoramica completa dello stato del divario globale di genere e degli sforzi per colmarlo e costituisce un utile strumento di benchmarking per monitorare i progressi e rivelare le migliori pratiche tra Paesi.
A guidare la classifica del World Economic Forum nel 2019 è l’Islanda, seguita da Norvegia, Finlandia e Svezia. Al quinto posto si trova il Nicaragua, seguito da Nuova Zelanda, Irlanda, Spagna, Rwanda e Germania. L’Italia è al 76esimo posto su 153 Paesi: quello che penalizza di più le donne italiane sono le opportunità e la partecipazione alla vita economica, a cui fa seguito la disparità di trattamento salariale che fa di noi i 125esimi in una lista di 153.
E più le donne studiano, più aumenta il divario: se un laureato uomo guadagna il 32,6% in più di un diplomato, una laureata guadagna solo il 14,3% in più. Non solo. Le donne faticano a fare carriera e la percentuale di donne fra professionisti e manager non ci agevola a scalare di qualche posizione la classifica.
Nel 2018, solo poco più di due anni fa, tutti rapporti internazionali : dall’ Organizzazione internazionale del lavoro delle Nazioni Unite (ILO), alla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale, dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) al Forum Economico Mondiale, convergevano nell’affermare come negli ultimi 15 anni circa, i cambiamenti concreti nel campo lavorativo per le donne sono stati pochi, nonostante i passi avanti legislativi e politici.
È stato per questo che la parità di genere e l’emancipazione femminile sono stati inclusi tra i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’ONU, e per cui il raggiungimento del lavoro dignitoso per entrambi i generi e della parità salariale a parità di prestazioni, entro il 2030, sono uno dei traguardi dell’Obiettivo 8 sul lavoro sostenibile e inclusivo e sul lavoro dignitoso.
Ovunque nel mondo, quando si parla di lavoro, le donne si trovano a dover fare i conti con tre fattori correlati: il tempo, il denaro e la libertà di azione e l’equilibrio tra lavoro e famiglia, e un’offerta di servizi di cura a prezzi accessibili costituiscono le maggiori sfide che le donne si trovano a dover affrontare nel mondo del lavoro.
Ma in fondo non è di questo che si parla nel dibattito più ampio in corso sul valore che il lavoro, la famiglia, il tempo libero e la comunità dovrebbero assumere per permettere a tutti di condurre una vita con più significato e che è stata all’origine della costituzione dell’ILO?
Questi impegni ambiziosi che sono stati assunti prima della pandemia, non dovrebbero cambiare, anzi dovrebbero essere rafforzati, all’indomani della ripresa che si spera avverrà allorchè la guerra contro il Covid sarà vinta.
Nel Global risks report 2021 il World Economic forum, nel sottolineare come, malgrado gli allarmi lanciati negli ultimi 15 anni, il 2020 abbia visto “gli effetti catastrofici dell’ignorare i rischi a lungo termine”, come appunto le pandemie, chiede che i governi, le imprese e le società incomincino urgentemente a plasmare nuovi sistemi economici e sociali che migliorino la nostra resilienza collettiva e la nostra capacità di rispondere agli shock, riducendo le disuguaglianze, migliorando la salute e proteggendo il pianeta”.
https://www.key4biz.it/donne-perche-l8-marzo-ce-davvero-poco-da-festeggiare/348983/