Il rischio di un furto di dati provocato da “insider” continua a rappresentare un problema enorme per le aziende. E il cloud non aiuta…
Difendersi da pirati informatici e gruppi hacker è indispensabile. Spesso, però, il pericolo non arriva dall’esterno, ma si annida all’interno del perimetro aziendale.
Il tema viene messo a fuoco all’interno del Data Exposure Report pubblicato da Code42 (si può scaricare previa registrazione a questo indirizzo) che raccoglie dati provenienti da oltre mille esperti di sicurezza informatica per tratteggiare il quadro di ciò che sta succedendo nelle aziende in merito alla protezione dei dati nei confronti delle minacce “interne”.
La ricerca pone l’accento, in particolare, sulla contraddizione tra l’esigenza di proteggere i dati aziendali e quella di offrire strumenti di lavoro che migliorino la produttività dei lavoratori. Il riferimento, qui, è in particolare agli strumenti basati sulle piattaforme cloud, che negli ultimi anni hanno letteralmente conquistato le aziende.
La flessibilità delle piattaforme virtuali ha migliorato le prestazioni e reso più “dinamiche” le aziende, mentre i sistemi di condivisione delle informazioni hanno permesso di aumentare la produttività degli impiegati.
Tutto questo, però, ha un rovescio della medaglia: l’adozione degli strumenti basati su tecnologie cloud ha infatti provocato un aumento esponenziale del rischio di data breach a livello aziendale.
I dati viaggiano infatti a una velocità impressionante e possono essere condivisi con (eccessiva) facilità attraverso una moltitudine di canali diversi. Risultato: tenere traccia di ciò che viene condiviso diventa praticamente impossibile.
Sul campione di aziende analizzato, il 38% ha subito una violazione dei dati nel corso degli ultimi 18 mesi e la metà di questi riportano che l’attività degli impiegati è stata in qualche modo una delle cause dell’incidente.
I problemi sono numerosi, a partire dall’uso diffuso di servizi di condivisione come Google Drive o Microsoft OneDrive attraverso account personali dei dipendenti, che per loro natura non sono sottoposti ai controlli e alle policy dell’azienda.
C’è poi la possibilità che la violazione dei dati avvenga a causa di un atto deliberato. Il caso più frequente è quello degli impiegati che si licenziano (o vengono licenziati) portando sul nuovo posto di lavoro informazioni cui hanno accesso grazie ai sistemi di condivisione che utilizzavano all’interno dell’azienda.
Il sondaggio eseguito da Code42, in questo caso, è piuttosto illuminante: il 59% degli intervistati ha infatti ammesso di aver “introdotto” nell’azienda in cui lavorano idee, informazioni o progetti che avevano sviluppato per un precedente datore di lavoro.
Niente di nuovo, sia chiaro, ma se un tempo un’azienda avrebbe potuto insospettirsi nel vedere un impiegato che abbandona il posto di lavoro andarsene con 10 faldoni di documenti cartacei, oggi dovrebbe porsi il problema di verificare quali dati conservi nel suo archivio cloud.
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