Cloud 2.0, è tempo per le aziende di migrare le applicazioni ‘business critical’. La corsa del Sud Est asiatico

  ICT, Rassegna Stampa
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Negli ultimi dieci almeno, la stragrande maggioranza delle imprese di ogni dimensione ha avuto modo di considerare i vantaggi finanziari, operativi e competitivi del processo di virtualizzazione delle proprie applicazioni. Considerare, però, non significa procedere a livello operativo.

La gran parte di queste organizzazioni, infatti, ha esitato e non poco a procedere oltre, perché sono ancora diverse le preoccupazioni legate alle prestazioni delle applicazioni, alle modifiche che devono essere apportate alle procedure di gestione e alle relative operazioni, dai rischi correlati ai tempi di inattività e alla business continuity, nonché dall’incertezza su come muoversi.

Sostanzialmente, non sono stati compresi gli enormi progressi fatti negli ultimi anni nel campo della tecnologia di virtualizzazione, anche se, stando alla classifica Fortune 500 di qualche anni fa, più del 75% delle imprese ha adottato la virtualizzazione dei server, mentre il numero sta aumentando tra le organizzazioni di ogni dimensione. I vantaggi ottenuti riguardano più direttamente la diminuzione delle spese di capitale, la riduzione dei costi operativi e del sovraccarico amministrativo, minori interruzioni delle attività, maggiore availability e una capacità di disaster recovery di livello superiore.

Ma questa è quella che in ambiente IT è definita la prima onda del cloud, o cloud 1.0. Oggi la sfida è riuscire a far surfare le imprese sulla seconda onda del cloud, il cloud 2.0, quello che riguarderà da vicino le applicazioni business critital, che devono migrare per aumentare i livelli di efficienza e competitività.

Un’applicazione business critical è da considerarsi strategica per ogni organizzazione (tra cui le applicazioni di posta elettronica, CRM, database, per la collaborazione), perché deve essere disponibile per consentire ai dipendenti di svolgere il proprio lavoro, ai partner di collaborare e ai clienti di acquistare prodotti e servizi.

Un’applicazione di questa natura che rimane offline anche solo per pochi minuti comporta per

l’azienda una grave perdita di denaro, di immagine e di fiducia da parte dei clienti e dei partner.

Entro il 2025, secondo David J. Cappuccio, vice presidente e capo della ricerca di Gartner, ha affermato su dataeconomy.com, l’80% delle imprese procederà alla dismissione dei data center tradizionali, contro appena il 10% di oggi.

Il data center così come lo abbiamo conosciuto dovrà quindi morire?

In un futuro davvero prossimo, la funzione principale dell’Information Technology sarà quella di consentire al business di essere più agile ed “intelligente”, di entrare in nuovi mercati più rapidamente, di offrire servizi più vicini al cliente e di posizionare carichi di lavoro specifici sulla base degli impatti aziendali, normativi e geopolitici calcolati in fase predittiva.

Il ruolo del data center tradizionale verrà relegato a quello di un’area di holding legacy, dedicata a servizi molto specifici, di quelli che non possono essere supportati altrove o che supportano i sistemi che sono economicamente più efficienti in sede.

Poiché già oggi e ancora di più nel prossimo decennio, i servizi di interconnessione, le soluzioni cloud più avanzate, l’Internet of Things (IoT), i big data, i servizi periferici e di prossimità, e le offerte SaaS, continuano e continueranno a moltiplicarsi, rimanere in una logica operativa di data center tradizionale avrà vantaggi decisamente limitati.

Quando parliamo di cloud 2.0 ci riferiamo principalmente all’Infrastructure as a Service (IaaS) e qui sono due le possibilità, ha spiegato Cappuccio: “o le applicazioni esistenti vengono migrate in una nuova infrastruttura cloud, con modifiche davvero minime; oppure si ha il caso del cosiddetto ‘cloud native’, cioè le applicazioni sono riscritte per il nuovo ambiente”.

Quest’ultimo caso è quello che spaventa di più le imprese, perché si tratta per lo più di applicazioni sviluppate anni fa, cosa che renderà il lavoro di riscrittura molto più complesso.

Le domande che le organizzazioni si devono porre, prima di seguire la nuova cloud vawe, ha ricordato il cive presidente della Ricerca Gartner, sono diverse, tra cui: è sicuro che la mia applicazioni funzioni meglio in un nuovo ambiente? Quanto mi costerà rispetto ad oggi? Quale provider di servizi cloud fa al mio caso? In tutti i casi, le risposte sono legate alla conoscenza profonda della propria organizzazione, del carico di lavoro delle applicazioni e delle caratteristiche delle prestazioni di ognuna di esse.

Si è scoperto, ad esempio, a seguito di uno studio Enterprise Strategy Group, che il 57% delle organizzazioni che avevano migrato applicazioni in ambiente SaaS (Software as a Service), aveva trasferito in realtà dati e applicazioni caratterizzate da prestazioni deludenti o costi crescenti, e questo per effetto diretto della scarsa conoscenza delle proprie risorse e per mancanza di una efficace pianificazione del lavoro di migrazione.

D’altronde, il cloud 2.0 altro non è, a sua volta, che la migrazione inevitabile dell’economia reale in ambienti 100% digital. Secondo i nuovi dati diffusi da ResearchAndMarkets, nel Sud Est Asiatico la spesa in infrastrutture cloud e data center raggiungerà i 2 miliardi di dollari nel 2024.

Malesia, Indonesia, Thailandia, Vietnam, Filippine, Laos, i Paesi maggiormente interessati dalla crescita del mercato dei servizi cloud, soprattutto SaaS e IaaS, con particolare attenzione su Singapore, centro della digital economy locale e globale, dove operano giganti come AWS, Microsoft, Google, Alibaba, Tencent e IBM.

Cloud 2.0, è tempo per le aziende di migrare le applicazioni ‘business critical’. La corsa del Sud Est asiatico