Sia ben chiaro: il senso di “paura” richiamato dal titolo (liberamente ispirato al “Cantico dei drogati” di Fabrizio De André, i cui versi scandiranno queste mie riflessioni) è un sentimento che dovrebbe essere avvertito oggigiorno in primis dai cd. “esperti del digitale”, tra i quali si annovererebbe anche il sottoscritto (anche se da avvocato, pur specializzato in questa materia, mal sopporto tale termine) e quindi la mia è prima di tutto un’autocritica.
Il sentimento di paura appare evidentemente in controtendenza rispetto ai numerosi sforzi protesi a minimizzare o al contrario ad affrontare con spirito spavaldo il digitale (con le sue delicate sfaccettature) da parte di alcuni personaggi che in questi giorni emergono per lanciarsi alla conquista della sterminata frontiera del “far web”.
Mi riferisco in particolare alla recente e ormai ben nota proposta avanzata dal regista Gabriele Muccino prima, e dal deputato renziano Luigi Marattin poi, di rendere certa l’identità sui social attraverso un meccanismo di identificazione dall’approccio piuttosto grossolano e finalizzata teoricamente a ridimensionare il grave fenomeno dell’odio on line. Tale idea – come sappiamo – ha generato un nutrito rivolo di stizzite (e a volte altezzose) risposte (comprese le mie ovviamente).
Io che non vedo più che folletti di vetro che mi spiano davanti e che mi ridono dietro
La paura.È proprio questo invece il sentimento che dovrebbe spingere oggi il dibattito sugli “incontaminati” spazi del digitale, la cui conquista, in realtà, rappresenta da oltre vent’anni la vera sfida per gli “esperti” (veri o presunti tali), in particolare per i giuristi. Sì, esattamente quella schiera di esperti che dovrebbe aver maturato un’esperienza e una sensibilità̀ maggiore nei riguardi delle nuove dimensioni sociali, tali da guidare una diffusa alfabetizzazione delle coscienze in modo che tornino a orientarsi autonomamente (e magari non casuale ed eterodeterminato in modo opaco da intelligenze artificiali) attraverso l’uso sapiente di strumenti alternativi che sono a nostra disposizione. Nella realtà, va a finire invece che gli esperti mal si sopportino tra loro e tendano piuttosto a ignorarsi o delegittimarsi!
Dunque è facile, a posteriori, individuare il problema nella diffusa mancanza di cultura digitale tra i “comuni mortali” che agiscono inconsapevolmente e sono oggi drogati di voyerismo (attivo e soprattutto passivo) e loro malgrado sottoposti ad un controllo sistematico,dettagliato e predittivo, effettuato con tecniche di origine militare(una tra tutte, l’analisi psicografica). Un controllo esercitato da un novero di multinazionali private, strategicamente posizionate in un raggio d’azione da loro regolamentato e che i governi in qualche modo “ospitano” (o sono essi stessi ormai ospitati?) all’interno dei loro confini territoriali.
Di questo meta-stato sono cittadini tutti coloro che possiedono, in un modo o nell’altro, un’identità̀ social.
È ciò che sta accadendo alle nostre coscienze e si tratta di un fenomeno che da tempo non viene più raccolto e interpretato dal diritto, ormai stordito dai continui mutamenti dell’innovazione e imbrigliato nell’ostinato mantenimento del rigore tradizionale in una forma che non ha più sostanza.
È pesantissimo, così, il pedaggio pagato – in modo peraltro poco trasparente e consapevole – da tutti i cittadini che muovono i loro passi nella dimensione social sviluppata ad arte – lo ripetiamo – da pochissimi player che hanno tra loro minuziosamente suddiviso il monopolio delle nostre anche più intime abitudini, in modo da conoscerci sempre più in profondità e consigliarci ogni movimento, fino a predire ogni dettaglio delle nostre future scelte.
È vero che l’innovazione è bella e incredibile, sia chiaro, come è comodissimo avventurarsi da soli in posti sperduti e avere la voce rassicurante di Google Maps a indicare con sicurezza assoluta il nostro cammino, quindi consigliare cosa visitare e cosa mangiare, sino a determinare però ogni strada della nostra vita, in un controllo costante che ha annullato la spontaneità di ogni nostra azione, sino a indirizzare sapientemente (e persino predire) scelte di consumo e scelte politiche.
Questo ci sta accadendo.
A chi crede sia bello giocherellare a palla con il proprio cervello
In poche parole, abbiamo Google, Facebook, Amazon, e pochi altri che sono in grado di ripartissi il mercato dei nostri dati più personali, anzi giocano letteralmente a palla con i nostri cervelli determinando l’orientamento e la costruzione delle nostre coscienze, mettendo sotto un costante scacco matto la nostra vita digitale e noi “esperti di digitale”, nell’acceso dibattito che pervade i nostri giorni, l’unica cosa su cui concentriamo la nostra azione con una certa e ossessiva pervasività è il buffo e inadeguato Muccino quando prova ad avventurarsi nelle nostre materie! Oppure ci allarmiamo su Saviano che si permette di intervistare Snowden e si limita, poverello, a riferire agli italiani concetti così banali e che tutti sanno! O peggio ancora aizziamo i nostri strali su quanto sia goffo l’affabulatore Baricco quando si cimenta solo oggi a trattare di digitale con il suo ultimo libricino appena sfornato!
Il nocciolo della questione è che ormai dobbiamo chiederci se non abbia davvero senso ripensare ai servizi “gratuitamente” offerti da Google, Facebook, Messenger o anche WhatsApp (e tutto il resto) quali nuove forme di servizi “essenziali” per la società in cui viviamo, al pari della fornitura di acqua o di energia elettrica, come già diversi esperti, a livello internazionale, hanno avuto modo di puntualizzare. Tanto ci siamo saziati con la loro (finta) gratuità che ormai non possiamo farne a meno. Esistiamo grazie a Google, viviamo su Facebook e orientiamo ogni nostro consumo grazie ad Amazon.
E in realtà in questa sospesa quiete digitale esiste un problema enorme di democraziae noi ci stiamo accapigliando come “stupide galline” (cit. F. Battiato) su una singola proposta, affatto ridicola di per sé, ma del tutto inadeguata a incidere su uno scenario ben più sterminato.
Vogliamo finalmente accorgerci che la nostra realtà̀, oggi, coincide con i confini di un meta-stato di dimensioni sovranazionali,in grado di gestire e orientare il mondo intero senza controllo? In quanti minuti, attraverso l’accordo tra l’impero social e quello di un paio di Stati vigliacchi, si potrebbero cancellare sistematicamente pezzi di storia che ci riguardano e indirizzarli verso uno storytelling più compiacente?
Quando scadrà l’affitto di questo corpo idiota allora avrò il mio premio
Ma sì. Possiamo anche tenerci, sonnecchiosamente, il nostro piccolo e gradevole orticello fondato su certezze costruite negli anni, radicate sull’invalicabile diritto all’anonimato e all’oblio, ma non possiamo davvero ignorare che questi diritti qualcun altro (non certo i Muccino e i Marattin) ormai li ha già divorati, masticandoli giorno per giorno in un gigantesco vortice, anzi uno sterminato frullato di vite digitali dove tutti ci siamo ingozzati, (ma abilmente guidati come burattini).
In ogni caso il problema dell’identità sui social può essere discusso in modo dialettico senza trincee o steccati e senza dover pensare che vada regolamentato in modo totalmente diverso rispetto alla “vita reale” (che è e deve essere speculare a quella digitale). E nella vita reale in certi contesti la verifica dell’identità viene richiesta. Non dimentichiamocelo.
Ma il vero problema in realtà – e lo ripeto ancora – non è questo. Va molto oltre questo.
Occorre proporre nuovi modelli di “governo” e “organizzazione” degli scenari sovranazionali, così come di quelli locali, in poche parole (per proporre temi cari agli “esperti di digitale”): think globally, act locally. Tali modelli andrebbero portati avanti in modo serio e approfondito, senza fermarsi agli slogan.
In Italia si stanno compiendo diversi sforzi in questo senso, almeno a giudicare dal numero di attori pubblici protagonisti dello scenario nazionale, ma ricordiamoci che la concreta attuazione delle strategie nazionali parte da una governance coesa e dal territorio. E anche dal presidio del proprio patrimonio pubblico nazionale offrendo alternative statali al “mondo social cloud”; alternative che sarebbe molto meglio che fossero europee e non solo tedesche o francesi o italiane per contrapporsi con un minimo di efficacia a un fenomeno di queste dimensioni.
In realtà, nessuno oggi sembra proporre un’idea precisa, specifica, coordinata su scala europea da contrapporre a questa evoluzione (o involuzione?) incontrollata in modo da indirizzare piano piano un fenomeno sociale di dimensioni anazionali.
Tu che m’ascolti insegnami un alfabeto che sia differente da quello della mia vigliaccheria
Mi sembra evidente che, secondo il mio personalissimo giudizio, non sia questo probabilmente il momento migliore per articolare una polemica sterile volta ridicolizzare le proposte di chi (sebbene in modo piuttosto semplicistico) prova ad affrontare un problema, che c’è.
È il momento invece per noi “esperti del digitale” di fare delle scelte. Scegliere da che parte stare e dunque di orientare, a nostra volta, la governancedel nostro Sistema Paese, rinnovata per l’ennesima volta.
La verità, ci piaccia o no, è che oggi il mondo degli “esperti di digitale” in Italia rappresenta benissimo questo Paese, perché purtroppo è asservito, codardo e piccolo. E non ha voce, se non per benedire ogni scelta di potere.
In conclusione, mi sento di ricordare che una autorevole guida l’abbiamo avuta (come ho recentemente riferito nell’editoriale della nostra Rivista KnowIT), si tratta del testamento del compianto (ipocritamente da tutti) Giovanni Buttarelli (che ci ha consegnato durante il suo ultimo intervento in pubblico al nostro evento Dig.eat, a cui ha fortemente voluto partecipare fisicamente) ricordandoci proprio i pericoli del social web e indicando nel ruolo coordinato delle Authority i suoi possibili argini: “L’attuale ecosistema digitale si fonda sullo sfruttamento intensivo ed indiscriminato delle informazioni e dei dati personali. Nel corso di poco più di un decennio, la struttura dei mercati è andata convergendo verso situazioni di quasi-monopolio, decretando l’accrescimento esponenziale del potere di mercato di pochi, ma potentissimi, attori privati. Il risultato è la concentrazione del potere di controllo dei flussi d’informazione nelle mani dei giganti del tech, circostanza che facilita il consolidamento di un modello di business basato sulla profilazione e finanche manipolazione delle persone. Si rende a tal proposito necessario un ripensamento strutturale del modello di business prevalente. Si impone, inoltre, un intervento coordinato delle autorità della protezione dei dati, della protezione dei consumatori e della concorrenza, che tenga conto delle sinergie e sfide comuni alle diverse aree di regolazione”.
Vogliamo prendere in considerazione queste parole o seppellire per sempre il suo monito insieme alla sua tomba?
Chi mi riparlerà
Di domani luminosi
Dove i muti canteranno
E taceranno i noiosi
Come porre fine al Far Web? Non ascoltando solo gli “esperti di digitale”