Con Giuseppe Richeri avviamo una riflessione articolata in tre parti sull’evoluzione del sistema radiotelevisivo dalla fine degli anni Sessanta sino all’applicazione della Legge Mammì nei primi anni Novanta poco pima ella stagione di Tangentopoli e della fine della cosiddetta Prima Repubblica. In questa prima parte affrontiamo gli anni che precedono la legge di Riforma ella Rai nel 1975. La seconda parte affronterà il tema dell’applicazione della Legge di Riforma, la nascita dei primi network di televisioni locali. Sino alla nascita dei network nazionali, la terza il sistema misto con il cosiddetto confortevole duopolio all’italiana Rai Fininvest che verrà fotografato dalla Legge Mammì nel 1990 sino alla sua applicazione a partire dal 1992.
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Giuseppe Richeri, professore emerito ed esperto di politica ed economia delle comunicazioni, risponde alle domande di Bruno Somalvico, direttore editoriale di Democrazia futura.
Caro Professor Richeri, Lei è stato un protagonista della stagione delle radio libere e di diversi progetti come quello della Regione Emilia-Romagna nella riforma della Rai, prima ancora di diventare uno fra i più acclarati studiosi dell’economia politica dei media e delle telecomunicazioni, insegnando in diverse università in Europa e in America Latina, prima di fondare la facoltà di Scienze della Comunicazione all’Università di Lugano dove ha insegnato ed è stato eletto per due volte decano e di cui dal 2014 è professore emerito: lì ha diretto l’Istituto Media e Giornalismo ed è presidente dell’Osservatorio sui Media e le Comunicazioni in Cina. Dal 2006 ha anche insegnato alla Communication University of China e alla Peking University. Ci può ripercorrere a sommi capi il clima – dalla seconda metà degli anni Sessanta – in cui cresce l’esigenza di riformare la Rai?
Giuseppe Richeri. Nella seconda metà degli anni Sessanta si intrecciano alcune vicende alla base di un lungo periodo di trasformazione a cui si aggiungono alcuni adempimenti costituzionali come la nascita delle Regioni e amministrativi come il rinnovo della concessione del servizio pubblico radiotelevisivo. Inizia allora una riflessione allargata su cos’era stata la Rai fino a quel momento e cosa sarebbe stato necessario fare per migliorare il suo ruolo culturale e sociale. In questa trasformazione la nascita delle Regioni assume un ruolo centrale dal momento che, come parte integrante dello Stato, esse intendono avere da una parte la loro presenza nell’amministrazione della Rai e dall’altra intendono avviare un decentramento della radiotelevisione pubblica per essere rappresentate nella programmazione locale e nazionale.
Esiste poi un processo più lento e prolungato, di tipo sociale, dovuto al crescente interesse da parte delle masse popolari per i mezzi di informazione e di comunicazione, in particolare per la radiotelevisione. Un esempio emblematico avviene a Torino, quando, durante una lunga stagione di lotte operaie alla Fiat un grande corteo esce dalla Mirafiori e invece di dirigersi verso la sede dell’Unione Industriali per manifestare le proprie rivendicazioni, si dirige verso la sede della RAI per richiedere un comportamento più equilibrato e attento agli eventi sociali di quel momento (scioperi e rivendicazioni contro la nocività in fabbrica, i ritmi eccessivi del lavoro e contro la monetizzazione della salute).
Si crea così un clima importante in Italia per rivedere l’assetto e il ruolo della Rai e per rivendicare il ruolo di una radiotelevisione decentrata. I giornali più importanti a quel tempo non erano di proprietà di editori puri, ma di imprenditori ed enti che li utilizzavano per svolgere pressioni politiche nei propri interessi: è il caso della Stampa, del Corriere della Sera, del Resto del Carlino, del Messaggero, del Mattino e di altri. Verso la fine degli anni Sessanta varie organizzazioni politiche, culturali e sociali iniziano a indicare la RAI come uno degli elementi di arretratezza del Paese, definendolo quasi un corpo separato dal Paese: i sindacati, i partiti di sinistra e una crescente mobilitazione di intellettuali, critici e osservatori che si occupavano di tv pubblica.
Tutte queste situazioni iniziano ad intrecciarsi e tutte insieme mettono in evidenza l’inefficienza della RAI, le trasformazioni da attuare e il ruolo da farle svolgere nei confronti del Paese attraverso una riforma che tenesse conto, nella riorganizzazione generale, di due obiettivi centrali: la dipendenza della Rai dal Parlamento e non più dal Governo e il suo decentramento per coinvolgere le Regioni e l’intero Paese. La necessità dunque, per esempio, di produrre programmi non più nei soli quattro centri di produzione (Milano, Torino, Roma e Napoli), ma anche in sedi regionali distribuite in tutta la Penisola fornendo così un apporto non solo a livello locale, legato alle singole regioni, ma anche alla programmazione nazionale con informazioni, spettacoli e intrattenimento.
È da questi fattori, dunque, che emerge la necessità di riformare la RAI.
Se capisco bene, nessuno o quasi osava ancora rimettere in discussione il monopolio della Rai quanto il suo carattere di Radio Tv di Stato, ovvero appannaggio dello Stato centrale. E’ così? In Francia qualcuno come il direttore de l’Express Jean-Jacques Servan-Schreiber, in pieno gaullismo, si scaglia contro il monopolio dell’ORTF avviando un movimento di opinione per chiedere la fine del monopolio. E allo stesso modo, in occasione di un convegno del Club Turati (tenutosi a Roma il 19-20 aprile 1969), Eugenio Scalfari all’epoca deputato socialista, auspica l’abolizione del monopolio statale della Rai anche in Italia.
Giuseppe Richeri. Si tratta di un movimento d’opinione ancora marginale. Al di là del fatto che ci fosse una personalità come Eugenio Scalfari favorevole alla nascita di un sistema misto, non rappresentava il Partito Socialista. Alla fine degli anni Sessanta, nessun partito sosteneva l’idea di privatizzare la Rai. Se poi qualcuno al “Club Turati” propose di privatizzarla, può anche essere, ma non c’era alcuna volontà politica di aprirla ai privati. C’erano senz’altro degli interessi dei privati e già esistevano dagli anni Cinquanta, quando vi fu il tentativo de Il Tempo Tv, ma non bastavano ad agire sulla politica.
Eppure già due anni dopo, nell’aprile del 1971, nasce un primo tentativo di breccia al monopolio. Come spiegare la nascita di Telebiella, prima televisione via cavo riconosciuta dal tribunale come “periodico a mezzo video”?
Giuseppe Richeri. Il discorso della televisione via cavo è un discorso a parte. Alcuni sostengono che se c’era un monopolio naturale televisivo per la televisione via etere, non sarebbe stato così per quella via cavo. Ma i cavi televisivi non c’erano e realizzarli da parte dei privati era un’incognita. La vicenda di Telebiella dimostra che si trattava di un tema di rilevanza costituzionale. Il tentativo di Peppo Sacchi di creare una televisione via cavo a Biella fu soprattutto un tentativo di lanciare il dibattito a livello nazionale sulla possibilità dei privati di fare televisione oltre a quella pubblica della Rai. Visitai Telebiella nell’aprile del 1971, nei suoi primi mesi di vita, e parlai a lungo con i promotori. Mi resi conto che dal punto di vista televisivo si trattava di un’iniziativa da dilettanti, con pochi mezzi, personale improvvisato e interesse per la novità più che per i contenuti dell’informazione che trasmetteva. Trasmetteva dal salotto di un appartamento dove un’annunciatrice seduta a una scrivania e davanti a un microfono e a una telecamera presentava alcuni programmi locali girati con videoregistratori semi-professionali. Dalla finestra dell’appartamento usciva un cavo coassiale fissato sul muro di alcuni edifici per arrivare a un televisore collocato sotto i portici della piazza principale di Biella. La programmazione era costituita da molto sport, alcune informazioni locali e qualche intervista al Sindaco e ad altri personaggi noti. Nonostante la qualità artigianale l’impatto fu grande perché per la prima volta, anche se in modo “rozzo”, i biellesi potevano vedere in televisione fatti e personaggi della loro città. La televisione via cavo divenne presto un oggetto di discussione perche alcuni imprenditori pensavano che rappresentasse la via per entrare nel campo televisivo superando i vincoli del monopolio pubblico della televisione via etere. Anche se le sue caratteristiche tecniche ed economiche lo rendevano conveniente solo per i grandi agglomerati urbani, qualcosa dunque di limitato alle grandi città, dato che era necessario allacciare, almeno potenzialmente, un gran numero di utenti per giustificare in prospettiva i costi di posa del cavo.
Lei all’epoca. dopo vari soggiorni di studio all’estero, soprattutto in Francia e Regno Unito e la laurea in Economia e commercio presso l’Università di Pavia, era un giovane esperto di televisione e seguiva i sistemi di diffusione dei segnali radiofonici e televisivi alternativi alla radiodiffusione terrestre, in particolare la televisione via cavo. All’inizio degli anni Settanta ci potrebbe spiegare com’era il contesto della diffusione di questi segnali alternativi in Europa e oltre Oceano?
Giuseppe Richeri. Innanzitutto una premessa. Negli Stati Uniti esisteva una sola forma di televisione pubblica, la PBS, finanziata però con i fondi universitari, senza canone, e senza dipendere anche indirettamente dall’amministrazione pubblica; in America Latina gran parte dei Paesi (Argentina, Cile, Brasile, Messico, Colombia) avevano tv private e qualche canale pubblico, spesso appoggiato alle università e con scarsissimo ruolo, trasmessi tuttavia via etere. Nulla di paragonabile con gli obblighi di copertura universale assegnati ai servizi pubblici europei
La televisione via cavo è uno strumento di trasmissione audiovisiva, nato negli Stati Uniti d’America alla fine degli anni Quaranta, quando, in alcuni paesi che per ragioni geografiche non ricevevano bene i segnali televisivi, i commercianti di elettrodomestici si accorsero che potevano far arrivare li programmi delle città vicine collocando una potente antenna sulla loro collina più alte e far discendere da quest’antenna un cavo telefonico, che congiungeva le abitazioni. In questo modo la televisione poteva arrivare anche nelle cosiddette zone d’ombra. Questa iniziativa cominciò a portare la televisione in molti piccoli villaggi degli Stati Uniti che prima non potevano aver televisione. E questo significò per i commercianti di elettrodomestici la possibilità di vendere televisori.
Per buona parte degli anni Cinquanta, però, la televisione via cavo fu un fatto marginale, poco interessante, perché interessava solo piccole concentrazioni urbane.
Il grande boom della televisione via cavo si ebbe a partire dal 1957, quando negli Stati Uniti si incominciò a diffondere la televisione a colori. E la coesione cavo-televisione a colori diventò molto importante per migliorare l’immagine televisiva disturbata dalla presenza di grandi edifici che deterioravano il segnale via etere. Il cavo diventò dunque uno strumento molto adatto per portare la qualità televisiva del colore nelle grandi città. Questa è anche la fase in cui il cavo entra in modo molto più diffuso nei grandi mercati televisivi americani.
Una terza fase del cavo, importante, è quella in cui esso diventò un potente strumento di comunicazione sociale, a livello di quartiere e di piccoli centri urbani intorno a grandi città. Questa terza fase si sviluppò in Canada, dove, nella regione del Québec, che ha una tradizione culturale e una lingua diversa dal resto del Canada – nel Québec si parla prevalentemente francese – si decise di utilizzare la televisione via cavo per offrire alle comunità locali uno strumento di aggregazione, di attività collettiva, di promozione di iniziative comunitarie rivolte al territorio, alle attività culturali, all’intrattenimento. In particolare i quartieri periferici, le città dormitorio, svilupparono con la televisione via cavo iniziative e interessi che coinvolsero attivamente buona parte della popolazione. In quegli anni, la televisione via etere non permetteva di avere molti canali e le radio-frequenze erano utilizzate soprattutto per i tre, quattro canali nazionale; era impensabile avere delle frequenze sufficienti per far televisione locale. Il cavo diventò, quindi, l’unico strumento adatto a creare dei canali televisivi di dimensioni locali, che nel Canada incominciano ad essere dati in gestione a delle comunità di base.
La tv va cavo come specchio di riflessione dei gruppi sociali locali sugli aspetti di partecipazione
In questa prospettiva, le comunità locali delle grandi città mettono a disposizione dei cittadini e dei gruppi di base anche le strutture per produrre. E questo avviene grazie al fatto che il processo di miniaturizzazione elettronica e di riduzione dei costi porta sul mercato dei mezzi di produzione televisiva che oggi sono largamente diffusi, ma che iniziano a essere presenti sul mercato nella seconda metà degli anni Sessanta. Questi sono i videotape, i video-registratori portatili, che permettono di decentrare la produzione televisiva, e quindi di alimentare la televisione via cavo anche a livello locale.
Occorre considerare che fino ad allora le televisioni avevano potuto operare grazie all’utilizzo di telecamere, apparati estremamente complessi e costosi, dal funzionamento molto delicato (i cameramen indossavano persino un grembiule bianco, operando come tecnici di alto livello, di grande competenza) e a livello locale era impensabile che piccole tv avessero simili apparati di produzione delle immagini.
Nella seconda metà degli anni Sessanta i giapponesi (Akai, Sony e JVC) misero a punto con standard diversi apparati semiprofessionali che permettevano l’utilizzo facile e rapido di telecamere, i videotape per l’appunto, apparati autonomi a batteria tali da consentire di andare in giro e riprendere le persone e registrare le loro dichiarazioni. L’immagine non era allora naturalmente della qualità dai canali broadcasting, ma la televisione via cavo garantiva una qualità dell’immagine accettabile.
Se dunque, assieme al cavo, arrivavano i mezzi tecnici per permettere di fare riprese televisive senza dover formare tecnici particolarmente esperti, anche se con un’immagine di minor livello, la possibilità di poter vedere in tv il proprio sindaco o la propria assemblea municipale, in un’epoca in cui la tv era ancora qualcosa di distante dai cittadini, fu un elemento di grandissimo interesse e richiamo.
La televisione via cavo fu, insomma, utilizzata come una sorta di specchio, dove i gruppi sociali, gli artisti, lo sport locali si ritrovavano e si rivolgevano al resto della popolazione per vivere con loro gli interessi, i problemi e le aspettative del loro territorio.
Le prime esperienze europee
Sull’onda della televisione comunitaria canadese, anche in Europa si incominciò a scoprire la televisione via cavo come veicolo per creare televisioni locali. Nel corso degli anni Settanta il cavo approdò in Europa: prima in Belgio, con una funzione “passiva” di ridistribuzione di canali televisivi esteri, poi in Francia, in Gran Bretagna e in Germania, però a livello sperimentale, e poi in Italia.
Da questo momento lo sviluppo della televisione via cavo seguirà vicende diverse in vari paesi europei: in alcuni paesi avrà uno sviluppo modesto, in altri avrà un buon successo, in altri ancora dovrà confrontarsi con reti televisive di diverso tipo come quelle via satellite.
Nel 1973 Lei inizia a collaborare con la Regione Emilia-Romagna, prima come consulente e poi come dirigente per gestire le politiche nel campo della comunicazione e dei media, pubblicando diversi rapporti e documenti. In questa fase (1972-1978) ha realizzato le prime esperienze italiane di applicazione delle nuove tecnologie di comunicazione per favorire il decentramento della produzione audiovisiva, ha elaborato un piano di sviluppo della televisione via cavo nelle principali città della regione Emilia-Romagna, ha fatto parte, come rappresentante delle Regioni italiane, del gruppo di pilotaggio della riforma della RAI e, in particolare della creazione della Terza rete televisiva.
Giuseppe Richeri. Nel 1973 Roberto Faenza, già allora affermato regista cinematografico, reduce da un lungo soggiorno professionale negli Stati Uniti, mi coinvolse in un progetto da lui ideato per utilizzare le nuove tecnologie di comunicazione destinato alle Regioni istituite da poco. Dopo aver interloquito con la cosiddetta trojka delle Regioni: Lelio Lagorio, socialista presidente della Toscana, Piero Bassetti, democristiano presidente della Lombardia, e Guido Fanti, comunista, presidente dell’Emilia-Romagna fu quest’ultimo a proporci di lavorare per realizzare il progetto.
Allestimmo dapprima dei seminari teorico-pratici per constatare quanto nei gruppi di base (inquilini, studenti, operai, già organizzati intorno a iniziative sociali) fossero in grado di utilizzare questi mezzi per rafforzare la loro possibilità di comunicare le loro esigenze e i loro problemi in modo più incisivo alle istituzioni e ai politici in modo che fossero più consapevoli e attenti dei problemi locali.
Parteciparono inizialmente 22 gruppi da tutta la regione mostrando interesse all’iniziativa e sviluppando interventi di comunicazione positivi dal punto di vista della qualità. La Regione decise di procedere nell’iniziativa studiando la possibilità di cablare alcune Tutto questo per dire che l’intenzione all’inizio sembrava seria, tanto che fu fatto venire un gruppo di tecnici dalla Gran Bretagna e studiare con loro i modi e i costi per stendere i cavi coassiali.
Ricordo bene che li accompagnai in giro per la città per studiare i cosiddetti “tunnel tecnici”, così da evitare di scavare dappertutto: era dunque un primo progetto molto vago e generico, ma tecnicamente ben studiato.
Era importante poi, in una seconda fase, riempire i sei-sette canali ipotizzati con programmi fatti a livello locale dalle “unità di base”, insieme ad altri soggetti come le scuole e le Università e le molte aggregazioni interessate alle varie attività dell’associazionismo culturale e sociale.
Le università, i politecnici, gli ingegneri, il mondo dell’elettronica di consumo sostenevano questi progetti?
Giuseppe Richeri. Noi non avevamo nessun rapporto con le università, anche perché allora era inutile andare a prendere in università persone senza alcuna esperienza di cablaggio, ma era meglio andare direttamente in Inghilterra e coinvolgere gli esperti e i tecnici già attivi nel campo. Costoro vennero e ci fornirono un rapporto sul quale noi sviluppammo fasi successive del progetto.
La cosa interessante è che, mentre noi lavoravamo al progetto di cablaggio, Guido Fanti diceva che se l’Emilia Romagna, come probabilmente altre Regioni, fosse stata esclusa dalla riforma della Rai l’intenzione era di fare una propria televisione regionale sfruttando la televisione via cavo.
Il nostro progetto era quindi solo una minaccia e noi lo avevamo intuito, perché Fanti non aveva i soldi né per cablare le città previste nel progetto né per gestire la programmazione. E per di più Fanti non era neppure così certo che, una volta alimentato il flusso di comunicazioni di base dirette all’attenzione degli interlocutori politici e istituzionali si sarebbe potuto dare risposte soddisfacenti evitando conflitti, polemiche e opposizioni complicando in tal modo le attività delle istituzioni regionali.Nonostante che il progetto fini nel nulla noi fummo fieri di aver organizzato un’iniziativa d’avanguardia in Italia che entrò nel confronto politico nazionale e che fu oggetto di attenzione anche della stampa europea. Il progetto naturalmente non andò in porto. Roberto Faenza tornò a fare il regista e io, che avevo acquisito una buona esperienza sui problemi della comunicazione, diventai un dirigente della Regione per occuparmi in particolare della riforma della RAI.
Tutti i partiti (o quasi) sostengono di voler limitarsi a riformare il monopolio e non parlano ancora di un sistema misto aprendo all’emittenza privata. Rimane una tema da chiarire rispetto alle questioni delle date e al dibattito sulla libertà di antenna. Se nel ’69 e ’70 era un dibattito che coinvolgeva un numero circoscritto di persone, a partire dal 23 gennaio 1972, attraverso l’intervento su “L’Espresso” con il quale si chiedeva la libertà di antenna, seguito poche settimane dopo da un articolo di Indro Montanelli che sostiene la creazione di libera concorrenza fra reti privati, il mercato televisivo secondo alcuni storici, e poi ancora il 6 febbraio (secondo intervento di Eugenio Scalfari per creare quattro reti nazionali indipendenti da affidare alle regioni) e ancora un terzo articolo di Scalfari (“Libertà di antenna in libero Stato”), ebbene dopo questo dibattito fra “Corriere della Sera” e “L’Espresso” si assiste nel giro di tre mesi alla prima riunione, a Venezia, dei presidenti e degli uffici di presidenza dei consigli regionali sul tema Regione e tv, e alla prima riunione interregionale (31 luglio) sulla riforma di RAI tv presso la Giunta regionale lombarda. L’indomani esce un comunicato stampa sul progetto di legge delle Regioni. Il mercato televisivo diventa oggetto di scontro tra le forze politiche e sociali del Paese: non è così nel 1972?
Giuseppe Richeri. Oggetto di scontro perché gran parte della DC non voleva perdere il controllo sulla RAI mentre socialisti e comunisti volevano riorganizzarla in altro modo, spostandone innanzi tutto il controllo dal governo al parlamento, in seguito decentrandola, non per farne una terza rete con qualche ora per le singole regioni, ma per decentrare tutte e tre le reti con un meccanismo ambizioso e complesso. E fecero il loro progetto di riforma partiti, sindacati, associazioni culturali e del tempo libero. Nessuno tuttavia pensava di rompere il monopolio radiotelevisivo pubblico via etere né a livello nazionale né a livello regionale e locale.
Ma tornando al cavo e al 1972, in quell’anno ci furono le elezioni vinte dalla destra democristiana e dal Partito Liberale: dopo lunghi anni di centro-sinistra si torna a un governo centrista con come ministro delle Poste e della Telecomunicazioni il fanfaniano Giovanni Gioia. Il governo si insedia il 26 luglio e il 12 agosto Gioia affida alla STET con un decreto il monopolio della posa e della gestione dei cavi coassiali. Insomma, si vuole mantenere il controllo pubblico sulla televisione il cavo. Perché?
Giuseppe Richeri. Perché così la DC non voleva perdere il controllo sulla televisione via etere e nemmeno un eventuale controllo sulla televisione via cavo.
Il decreto significava che solo la Stet poteva stendere e gestire tecnicamente i cavi coassiali ed eventualmente avrebbe potuto poi darli in uso ai privati, ma nessuna legge in quel momento lo prevedeva. L’intervento del ministro Gioia sui cavi coassiali era dato in mano a una società che era peraltro nelle mani della DC: impresa pubblica che fin dai tempi del fascismo nel. 1933 era diventata proprietaria del sistema telefonico nazionale, restando così l’unica con il diritto di stendere qualsiasi tipi di cavo in suolo pubblico.
L’idea successiva di Silvio Berlusconi, il quale prevedeva di creare inizialmente una televisione via cavo a Milano 2, che era una sua proprietà privata, non avrebbe potuto realizzarsi se si fosse trattato di suolo pubblico.
In ogni caso va chiarito bene che a quell’epoca nessuno parlava di mercato televisivo. La logica politica non pensava assolutamente di privatizzare le trasmissioni radiotelevisive e non solo, ma anche dopo la Sentenza n. 202 della Corte Costituzionale, del 28 luglio 1976, che liberalizza la radiodiffusione terrestre in ambito locale, si pensa a dar vita a piccole televisioni locali e nessuno ancora pensa a delle reti nazionali.
Solo piccole minoranze ci badano. Ma un dato è certo: legittimando le emittenti televisive locali in Italia, questa terza Sentenza della Corte Costituzionale del luglio 1976 chiude la stagione del monopolio radiotelevisivo pubblico della Rai definitivamente. Ma facciamo ancora un passo indietro. Dopo quanto avvenuto in Italia nel 1968 non si può ricondurre tacitamente la Convenzione fra la RAI e lo Stato così come era stata ricondotta tacitamente nel 1952 quella approvata con l’Eiar nel 1932.
La Rai è sempre più al centro degli scontri politici non solo fra maggioranza e opposizioni ma anche in seno ai partiti che formano la maggioranza di centro-sinistra. E per di più scendono in campo nuovi attori come le Regioni e sindacati e altri movimenti della società civile premono per favorire una riforma della Rai nell’ottica non solo del decentramento ma anche della partecipazione.
Così, in assenza di un accordo politico, per un tacito rinnovo, il 15 dicembre 1972 il governo, tramite il ministro delle Poste Gioia, opta per la proroga di un anno della convenzione fra Stato e Regioni. Contemporaneamente assistiamo alla denuncia di un privato cittadino contro Telebiella, che il 24 gennaio 1973 sarà assolta dall’accusa di esercizio irregolare dell’attività radiotelevisiva (ai sensi dell’articolo 178 del Codice postale), perché il fatto denunciato non costituisce reato: se ragioni tecniche possono imporre un monopolio per la televisione effettuata mediante radio-onde, in considerazione del limitato numero dei canali, queste ragioni non sembrano davvero sussistere per la televisione via cavo”. La sentenza rilancia il dibattito.
Giuseppe Richeri. Quando qualcuno denuncia Peppo Sacchi i giudici dicono che questa non è materia su cui il tribunale può intervenire, ma si tratta di materia su cui è competente la Corte Costituzionale. La Corte nel 1974 interverrà e intanto stabiliscono che, per quanto riguarda la televisione via cavo, non si tratta di una materia costituzionale e la rimandano pertanto ad altra decisione. E così nella riforma si farà in modo che la televisione via cavo venga privatizzata e quella via etere rimanga in forma di monopolio, con un escamotage individuato nella legge 103 del 1975 che stabilisce che sia permessa solo la tv via cavo monocanale, così che nessun privato opererà enormi investimenti per cablare le case offrendo solo un canale: quale utente avrebbe pagato per un solo canale? Dunque lo Stato privatizzava, ma impediva di fatto ai privati di investire.
La prima breccia al monopolio avviene con la nascita dei ripetitoristi dei programmi esteri. Abbiamo già ricordato, dopo la nascita di Telebiella l’nitervento del ministro delle Poste Giovanni Gioia che affida il monopolio della posa dei cavi coassiali a un’azienda pubblica la STET, saldamente nelle mani della Democrazia Cristiana. Come giudicare l’operato del suo successore il ministro Giuseppe Togni quando emana un decreto che ordinava entro il 7 giugno 1974 di smantellare tutti i ripetitori abusivi installati al fine di irradiare programmi televisivi a colori dai Paesi confinanti, ovvero Svizzera e Capodistria, pena il sequestro degli impianti. Si oppone l’ANIE, Associazione Nazionale dell’Industria elettronica di Consumo che, alla vigilia dei mondiali di calcio, paventa un crollo delle vendite di televisori. Finiti i mondali di calcio, il 5 agosto 1974 assistiamo alla prima trasmissione in italiano di Telemontecarlo verso Ventimiglia e Bordighera. Sin dalla sua fondazione Telemontecarlo disponeva di capitali privati, con azionisti come Publicis, e c’era un accordo con Indro Montanelli e con Il Giornale Nuovo per la pubblicità. Si tratta di un’iniziativa che si rivolge al pubblico italiano e quindi ad un nascente mercato televisivo italiano misto. Non è così professore? E per quale ragione la Corte Costituzionale consente, invece, alla Francia di trasmettere dalla Corsica a irradiare i programmi della ORTF, poi quelli di Antenne 2, ben prima del 1975? E che dire dei programmi della Televisione della Svizzera Italiana che improvvisamente arrivano e iniziano progressivamente a scendere fino a Roma trasmettendo già diversi programmi a colori?
Giuseppe Richeri. In realtà non bisogna confondere le due cose. Un conto sono i canali televisivi che arrivano sul territorio italiano per diffusione tecnica del loro segnale e un conto sono le televisioni estere che arrivano in Italia attraverso dei ripetitori posti in Italia. Per esempio il caso del ripetitore francese in Corsica che trasmetteva in PAL era legittimo. Quando la Televisione della Svizzera Italiana (TSI) inizia ad irradiare i suoi programmi sulla Lombardia era altrettanto legittimo. Si trattava del cosiddetto debordamento hertziano, ovvero di trasmissioni fuori dai propri confini geografici. La situazione è diversa quando l’Italia permette di costruire dei ripetitori di canali stranieri sul territorio nazionale. La Francia pagò fior di soldi ai gestori di ripetitori in Italia per portare uno dei suoi canali pubblici fino a Roma.
E perché quindi si impedisce di fatto l’uso del cavo e invece si consentono le irradiazioni, oltre al debordamento naturale, grazie ai ripetitoristi?
Giuseppe Richeri. La storia è semplice: le trasmissioni veicolate dai ripetitoristi sono prodotte da televisioni pubbliche e non si ritiene che possano dare noia all’informazione della Rai, che era il principale problema dei politici. Se è pur vero che Telemontecarlo era privata, di una società francese che avevano fatto accordi con lo Stato monegasco, tuttavia era controllatissima dallo Stato, non faceva programmi commerciali alla Berlusconi, non competeva con la televisione pubblica francese, ed era così disciplinata e con un comportamento talmente in linea con il governo di Parigi che la sua diffusione non preoccupava minimamente, tanto più in quelle zone limitate dove il segnale arrivava.
In realtà si trattava di una questione marginale rispetto al dibattito che era in corso all’epoca. In un momento in cui si parlava di decentramento e di riforma della RAI fatti come quello ricordato non influivano minimamente e non interessavano nessuno. Solo in seguito, quando la brasiliana Reteglobo compra Telemontecarlo allora la televisione privata monegasca diventa un problema.
Quindi le televisioni dalla Corsica, così come la Televisione della Svizzera Italiana e Tele-radio Capodistria, interessavano per quanto riguardava tutti i contenuti informativi, i telegiornali in primis (tanto più che all’epoca non si considerava quanto tali contenuti potessero essere veicolati anche attraverso lo spettacolo). La preoccupazione era quindi quella di controllare i telegiornali e, di fronte a questo, l’informazione che veniva dalla Francia, dal Canton Ticino o da Capodistria non destava timori e pertanto non interessava assolutamente.
Addirittura a un certo punto Guido Fanti prese accordi con Capodistria per tentare di far trasmettere contenuti dell’Emilia-Romagna attraverso quella rete. Nessuno ne parla più perché la cosa non si fece, anche per motivi tecnici: l’area di diffusione di Tele Capodistria era abbastanza limitata e raggiungeva a malapena la costa romagnola.
L’unica ragione vera per cui si permise alla televisione pubblica di altri Paesi, o controllata da interessi pubblici, di arrivare in Italia, era perché la cosa non avrebbe sovvertito gli obiettivi politici dei partiti.
Vorrei chiudere questa prima parte dell’incontro per chiederLe di soffermarsi sul mercato legato all’attività radiotelevisiva e in particolare sull’industria elettronica radiotelevisiva di consumo, che ci permette di affrontare due temi, quello della televisione a colori. Negli annali della Rai si ricorda la gloriosa premessa nella sperimentazione fatta dalla RAI subito dopo i giochi olimpici del ’60, con un sistema nazionale sperimentale diverso dal PAL e dal SECAM. Non se ne fece nulla. Né si scelse subito uno standard per le trasmissioni televisive a colori. L’Italia rinviò le scelte e ancora ai tempi di Giovanni Gioia il ministro italiano delle Poste e telecomunicazioni fu molto rapido sia a decidere la nazionalizzazione del cavo coassiale sia a respingere le tesi degli ingegneri della Rai e invece attento (il suo padrone di riferimento: Fanfani) alle lobby che spingevano a favore dell’adozione del sistema francese SECAM, giudicato invece dai tecnici della RAI inferiore al sistema tedesco PAL. L’assenza di una rapida decisione sullo standard televisivo a colori concorre certamente alla tragica fine dell’industria elettronica di consumo nazionale che aveva raggiunto negli anni Sessanta l’apice con un numero crescente di televisori venduti che entrano nelle case degli italiani. Nei primi anni Settanta l’industria elettronica nazionale assiste neutra a questo dibattito politico. A metà degli anni Settanta politici come Berlinguer e La Malfa, anziché incentivare il rinnovo del parco televisori predicano l’austerity e invitano gli italiani a continuare a guardare la tv in bianco e nero Per l’industria elettronica ciò non fa differenza?
Giuseppe Richeri. Ormai in quegli anni l’industria elettronica italiana aveva perso la partita per quel che riguarda i televisori. Le componenti venivano prodotte fuori dall’Italia, le uniche case che producevano televisori erano allora la Magneti Marelli e un piccolo produttore di Pavia di televisori di ottima qualità, ma talmente piccolo che non rappresentava commercialmente nulla . Mentre invece la Francia aveva la Thomson, l’Olanda aveva la Philips, e la Germania ben tre o quattro aziende, tra cui la Telefunken. Era una delle ragioni per cui l’industria elettronica italiana era avviata su altre strade, facendo poi la fine che ha fatto, ma sul campo televisivo questa non aveva nulla per poter competere. Mentre quando nacque la RAI una parte del canone era dato alle industrie elettroniche, negli anni Settanta queste industrie non c’erano più.
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