Democrazia Futura. Gianni Bisiach un anno dopo

  ICT, Rassegna Stampa
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Carmen Lasorella

Un anno fa moriva Gianni Bisiach. Carmen Lasorella traccia un breve “Ricordo del grande giornalista goriziano” raccogliendo in un post scriptum la testimonianza di un suo grande amico, l’avvocato Giorgio Assumma, già presidente della Siae. “Appena diplomato, si trasferì con la famiglia in Eritrea. Un’esperienza – osserva la nota giornalista lucana – che gli avrebbe lasciato un segno profondo ed una laurea in medicina, conseguita all’università dell’Asmara, cui ne seguì una seconda all’Università di Roma. Fu l’incontro con Massimo Rendina, giornalista e partigiano che portò Gianni Bisiach in Rai nel 1954: Vittorio Veltroni era il direttore del Tg. Per le sue competenze e il desiderio di approfondire, Bisiach entrò subito nella redazione dedicata agli speciali. Si occupava soprattutto di medicina e di scienze”. Da qui una lunghissima carriera sia in televisione sia alla radio dove continua ad andare in onda quotidianamente la striscia di approfondimento Radio Anch’io, per raccontare a partire dal 1980 L’Italia al microfono.

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Roma, 23 novembre 2022
Non eravamo in molti un anno fa alle 11, nella Chiesa degli Artisti a Piazza del Popolo.
Ma tra quelle persone, che non arrivavano a cento, c’erano i tanti mondi che Gianni Bisiach, maestro di giornalismo, volto, voce e firma della Rai, uomo di cinema, medico, storico, regista e appassionato di vita, aveva intercettato nel suo lungo percorso umano e professionale.

Gianni Bisiach

La sua scomparsa, nonostante gli anni che arrivavano a 95, lasciava quel rimpianto, che l’affetto e il rispetto non bastano a colmare. Era un uomo di passioni e talento, che amava lavorare con rigore.
Ce l’aveva scritto nel suo DNA: doveva documentare il proprio tempo con una macchina da presa. Come lui stesso raccontava, a soli due anni si era innamorato de La canzone dell’amore, un film degli anni Trenta, il primo sonoro in italiano, che aveva visto con il padre in un cinema di Gorizia, la sua città natale. E proprio il papà a 7 anni gli aveva comprato una cinepresa. Appena diplomato, si trasferì con la famiglia in Eritrea. Un’ esperienza che gli avrebbe lasciato un segno profondo ed una laurea in medicina, conseguita all’università dell’Asmara, cui ne seguì una seconda all’Università di Roma. Fu l’incontro con Massimo Rendina, giornalista e partigiano che portò Gianni Bisiach in Rai nel 1954: Vittorio Veltroni era il direttore del Tg.

Per le sue competenze e il desiderio di approfondire, Bisiach entrò subito nella redazione dedicata agli speciali. Si occupava soprattutto di medicina e di scienze.

Nel 1960, firmò una trasmissione in tre puntate che fece epoca: Gli italiani al Polo Nord. Meticoloso come suo solito, curò una ricostruzione avveniristica della tragedia del dirigibile “Italia”. Uno studio tv sarebbe diventato il set tra i ghiacci, con il comandante Umberto Nobile, protagonista della spedizione, emozionato nel racconto.

Si occupò di mafia. Lucida e con taglio cinematografico la sua inchiesta su Corleone e sui tanti delitti eccellenti di quegli anni in Sicilia. Un’inchiesta citata perfino dal noto collega americano Walter Cronkite nelle sue lezioni di giornalismo

Fu l’assassinio del Presidente John Fitzgerald Kennedy a fargli attraversare l’oceano.

Bisiach avrebbe continuato ad occuparsi della tragedia di Dallas per tutta la vita. Scrisse libri sugli intrecci della politica con la malavita e dopo la morte nel 1968 del fratello di John, Robert, firmo la regia del film I due KennedyNel periodo americano, collaborando anche con Ruggero Orlando, storico corrispondente Rai da New York, affronterà anche il tema della pena capitale, entrando nel braccio della morte. Arrivò perfino a fare una colletta per un detenuto nero americano, che non era riuscito a pagarsi un avvocato, ottenendo con la revisione del processo, che fosse assolto.
La storica trasmissione TV7, anni dopo, porterà anche la sua firma. Lui l’aveva immaginata come una coproduzione europea: giornalisti francesi, inglesi e italiani al lavoro in pool sulle inchieste. Un successo. Tra i suoi ritratti, memorabile quello dei Beatles, dove le note dei ragazzi di Liverpool facevano ballare anche le scimmie dello Zoo di Londra o l’intervista allo shah di Persia, Rehza Palavi, per la prima volta davanti ad una telecamera nell’intimità della sua vita familiare. Immagini, che colpivano soprattutto i giovani, affascinati da un mestiere che lui declinava con assoluta padronanza.  
Qualche anno più tardi, Bisiach lancerà un altro format: Testimoni oculari. Tra i tanti ospiti, il regista Roberto Rossellini, il giurista Giuliano Vassalli, lo storico Leo Valiani, il presidente Sandro Pertini, testimoni appunto della lotta che portò in Italia alla liberazione dal fascismo, mentre nella società che cambiava, dedicò spazio alle donne, intervistando tra le altre, Susanna Agnelli.

Il primo gennaio del 1980, Bisiach lascia la televisione per la radio.  Ancora una scommessa, un’altra sfida: Radio Anch’io. L’Italia al microfono. Un totale di 2.500 puntate, l’occasione per chi scrive di conoscerlo e perfino di sostituirlo per una settimana, ringraziandolo per l’opportunità e per l’esempio offerto ad un’esordiente che lo ammirava.

L’ultimo impegno in tv è stato l’appuntamento quotidiano al Tg1, durato per tredici anni: 1 minuto di Storia ovvero un diario del passato per 4 mila puntate.

Come era scritto nel suo DNA, Gianni Bisiach ha raccontato il proprio tempo, con le voci e gli sguardi dei suoi protagonisti, indagando l’animo di chi ha incontrato e cercando il senso dei fatti. Ovvero, ha dato valore al giornalismo con il suo luminoso sorriso e il pregio della semplicità. 

Post Scriptum

All’Avvocato Giorgio Assumma, amico di Gianni Bisiach, con il privilegio di esserci anche nell’epilogo della sua esistenza, ho chiesto di scrivere una nota per avere il suo sguardo di “testimone oculare”.

Sono stato un buon patriota, che ha sempre rispettato e curato i valori che la nostra storia ci ha trasmesso ed affidato”.

Così, Gianni Bisiach introdusse l’ultimo colloquio della nostra lunga amicizia.

Era malato da tempo, degente in una clinica romana.

Capii che intendeva consegnarmi un suo messaggio morale, affinché lo divulgassi agli amici ed ai suoi molti ammiratori.

Lo capii perché era emozionato, stentando a trovare le parole appropriate, incapace di frenare due lacrime che gli scendevano dagli occhi.

Era un Gianni diverso da quello che io avevo imparato a conoscere.

Un Gianni aperto a svelare ciò che aveva dentro di sé e che non aveva mai voluto palesare. Forse temendo di apparire vanitoso, indiscreto o inopportuno.

Dopo una lunga pausa aggiunse: 

“Ho tentato, inoltre, di svolgere il mio lavoro di giornalista, cercando sempre la verità oggettiva della storia, così come questa appariva ricavabile da fonti attendibili e da avvenimenti certi. Non ho mai cercato di ottenere o di creare verità di comodo, che facessero clamore, a costo di inventarle. Ciò che mi addolora è il vedere come nel mio settore professionale è ormai ricorrente la triste abitudine di alcuni colleghi che divengono paladini acclamati di inchieste articolate su storie del tutto inesistenti. Soprattutto quando esse coinvolgono responsabilità di esseri innocenti e travisano i canoni dell’etica. Insomma, il giornalismo d’inchiesta sta correndo il grave rischio di trasformarsi in tante sceneggiature televisive tese a sfruttare la credulità dei cittadini, soprattutto se fragili ed incolti. Potrei farti dei nomi, ma preferisco tacere”.

Qui si fermò con lo sguardo sperduto.
Lasciai che si assopisse.
Uscii dalla clinica con un groppo in gola.
Non ebbi più l’occasione di incontrarlo o di sentirlo.

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