Democrazia Futura. Gli effetti devastanti della Guerra fra Israele e Hamas

  ICT, Rassegna Stampa
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Giampiero Gramaglia

Dopo un mese di conflitto anche in questo ultimo fascicolo Democrazia futura ha deciso di raccogliere le principali “corrispondenze di guerra” del suo primo direttore Giampiero Gramaglia che hanno spostato verso io Medio Oriente l’attenzione degli osservatori rimasta per diciotto mesi focalizzata sul conflitto in Ucraina che sembrerebbe entrato in una fase di stallo. Iniziamo con i cruenti scontri avvenuti nella notte fra giovedì 2 e venerdì 3 ottobre e dalla nuova missione del segretario di Stato statunitense Blinken. Nel secondo pezzo, scritto il 6 novembre, “Una strage di cui non si intravede la fine. Quando riaffiora nei commenti e nelle dichiarazioni la parola ‘genocidio’” Gramaglia ripercorre attraverso un’utile cronologia le varie tappe del conflitto “Dopo un mese di guerra, l’esercito israeliano annuncia di avere circondato Gaza City, all’interno della Striscia di Gaza, e di avere sigillato la parte settentrionale del territorio di Hamas. Mentre bombardamenti e azioni di terra si susseguono, il bilancio delle vittime palestinesi nella Striscia supera quota 10 mila, secondo il Ministero della Sanità di Gaza: il conflitto è già divenuto il più sanguinoso mai combattuto dalla nascita dello Stato di Israele, 75 anni or sono; e non se ne intravvede ancora la fine”.

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Gli scontri più cruenti mentre è in corso la difficile missione in Medio Oriente di Antony Blinken

1. Gaza completamente accerchiata: gli Stati Uniti chiedono “pause”[1]

La Striscia di Gaza è completamente accerchiata, nella notte fragiovedi 2 e venerdi 3 ottobre 2023 i combattimenti a terra sono stati più cruenti che mai nelle quattro settimane della nuova guerra tra Israele e Hamas. Il segretario di Stato statunitense Antony Blinken torna in Israele e sollecita il Governo Netanyahu a fare “pause” negli attacchi, per consentire agli ostaggi di essere rilasciati e agli aiuti umanitari di essere distribuiti.

Il termine “pause”, adottato dall’Amministrazione Biden, è lo stesso utilizzato a fine ottobre dal Vertice europeo: l’idea sottintesa è che una pausa temporanea, cioè un vero cessate-il-fuoco, sarebbe un vantaggio per Hamas, perché gli consentirebbe di riprendersi e riorganizzarsi dopo bombardamenti e incursioni.

Le sollecitazioni degli Stati Uniti a Israele giungono quando il bilancio delle vittime nelle Striscia s’aggira ormai intorno alle 9 mila – i dati sono di fonte palestinese -, cui vanno aggiunti i 1400 israeliani circa uccisi negli attacchi terroristici del 7 ottobre, i 1500 miliziani ‘neutralizzati’ dalle forze dell’ordine israeliane in quella giornata e i militari israeliani caduti

Nelle ultime 72 ore, ovvero da domenica 31 ottobre, il campo di rifugiati di Jabalya, un’area densamente popolata, è stato colpito dagli israeliani per due volte: azioni su cui l’Unione europea ha finora scelto – scrive Eunews – “il silenzio”, mentre l’Onu avverte: quei bombardamenti, che, dicono i palestinesi, hanno fatto centinaia di morti fra i civili, “possono rappresentare crimini di guerra”. Israele sostiene che gli attacchi erano diretti contro militanti di Hamas ed erano essenziali per eliminare la minaccia rappresentata dall’organizzazione palestinese. Intanto, è in corso l’evacuazione da Gaza di 7.500 feriti o palestinesi con doppia nazionalità: centinaia hanno già lasciato la Striscia. Nonostante informazioni contraddittorie in merito, Israele continua a negare che, con gli aiuti umanitari, arrivi a Gaza del carburante. Quanto ai combattimenti nella notte fragiovedi 2 e venerdi 3 ottobre, l’esercito israeliano parla di una “eroica battaglia”, durante la quale ci sono stati scontri “con squadre terroristiche” e caduti da entrambe le parti. Nonostante “un fuoco pesante” da parte dei miliziani di Hamas, le forze israeliane “hanno diretto” dal suolo “attacchi di artiglieria dal cielo e da terra”. Il vivido racconto dell’esercito israeliano prosegue:

“Loro sono stati uccisi, il pericolo per le nostre truppe è stato eliminato e noi continueremo le operazioni fino alla vittoria”.

Secondo informazioni non verificabili, vi sono stati 130 caduti palestinesi e 23 israeliani. L’azione mirava a distruggere i tunnel di Hamas e a cercare i covi dove sono tenuti ostaggi catturati il 7 ottobre che, secondo nuovi dati, sarebbero complessivamente 242, sommando quelli nelle mani di Hamas e di altre fazioni palestinesi.

Restano caldi, oltre a Gaza, gli altri due fronti; quello della Cisgiordania, dove continuano a esserci vittime fra i palestinesi, e quello del Libano, dove una milizia iraniana, la Imam Hussein, affiancherebbe Hezbollah, che rivendica di aver attaccato Israele da 19 postazioni lungo il confine.

Il fronte diplomatico in un quadro segnato da manifestazioni ostili e rigurgiti di antisemitismo

Giovedì 2 novembre la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha votato una misura che sblocca 14,3 miliardi di aiuti a Israele, subordinando, però l’erogazione al taglio di spese sociali: il provvedimento, votato con il sì dei repubblicani e il no dei democratici, è una sfida all’Amministrazione Biden. La Casa Bianca ha già minacciato il veto, ma, comunque, la misura non passerà al Senato: dopo la guerra in Ucraina, pure la guerra tra Israele e Hamas diventa un tema di scontro fra Amministrazione democratica e opposizione repubblicana.

Il protrarsi e le dimensioni della risposta israeliana agli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre suscita sempre più proteste, non solo nel Mondo arabo e islamico, specie in quei Paesi che avevano recentemente normalizzato le relazioni con Israele – dove si moltiplicano le manifestazioni di ostilità contro l’operato dello Stato ebraico -, ma un po’ ovunque.

Ed accade che la tutela dei diritti del popolo palestinese s’intrecci con rigurgiti di antisemitismo. Nelle pietre d’inciampo oltraggiate a Roma, nelle stelle di Davide davanti alle case di ebrei a Parigi, in molti altri episodi altrove, l’antisemitismo riaffiora dove si credeva di averlo sconfitto: invece, era rimasto incrostato sotto una vernice d’ipocrisia benpensante. “Avevamo detto mai più e, invece, sta succedendo di nuovo”, è un commento raccolto da Euronews.

E la circolazione di progetti che prevedono l’evacuazione forzata dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza non fa altro che rinfocolare rancori e allarmi, nei Paesi che circondano Israele, Egitto, Giordania, Libano, e nell’Unione europea, all’Onu, negli Stati Uniti. Il Governo Netanyahu nega decisioni di questo genere, ma ammette che l’idea esiste.

Mentre Politico sottolinea come il piano di pace per la Striscia ipotizzato a fine ottobre dai leader dell’Unione europea sia “irrilevante” – “un guardarsi l’ombelico”, dice un diplomatico -.

Quando riaffiora nei commenti e nelle dichiarazioni la parola ‘genocidio’

2- Un mese di conflitto, una strage di cui non s’intravvede la fine[2]

Dopo un mese di guerra, l’esercito israeliano annuncia di avere circondato Gaza City, all’interno della Striscia di Gaza, e di avere sigillato la parte settentrionale del territorio di Hamas. Mentre bombardamenti e azioni di terra si susseguono, il bilancio delle vittime palestinesi nella Striscia supera quota 10 mila, secondo il Ministero della Sanità di Gaza: il conflitto è già divenuto il più sanguinoso mai combattuto dalla nascita dello Stato di Israele, 75 anni or sono; e non se ne intravvede ancora la fine.

Sul Washington Post, Ishaan Tharoor commenta che si fa strada, nei commenti degli analisti come nelle dichiarazioni di politici, una parola scomoda e terribile, “genocidio”.

La diplomazia statunitense, alla ricerca di sbocchi con una terza missione del segretario di Stato Anthony Blinken – recatosi domenica 5 novembre in Turchia, dopo essere stato in Israele, nei Territori e in Iraq -, pare puntare sul presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, segnato dall’età – ha 87 anni – ed anche dallo scarso credito di cui ormai gode presso gli stessi palestinesi, molti dei quali lo bollano come ‘collaborazionista’ per i rapporti che intrattiene con Israele.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che sempre domenica ha avuto una conversazione telefonica con il presidente Joe Biden, respinge la richiesta statunitense di pause umanitarie o, meglio, subordina l’idea d’una tregua alla liberazione, da parte di Hamas, dei circa 240 ostaggi in mani palestinesi. Israele ha pure lasciato cadere gli appelli per un cessate-il-fuoco venuti da Paesi arabi come Egitto e Giordania, che fecero pace con lo Stato ebraico quarant’anni fa e che sono sempre più preoccupati.

Un nuovo blackout di internet e dei telefoni cellulari ha coinciso con un’ulteriore espansione delle operazioni di terra israeliane nella Striscia, che mirano a distruggere le infrastrutture e soprattutto i tunnel di Hamas. Le agenzie umanitarie hanno perso contatto con loro collaboratori locali.

L’aviazione giordana ha paracadutato aiuti umanitari su ospedali di Gaza, mentre il flusso di viveri, medicinali e altri beni di prima necessità dal valico di Rafah continua a procedere a singhiozzo, così come l’uscita di palestinesi dalla doppia nazionalità e di qualche loro familiare. Domenica, Israele aveva concesso una tregua di quattro ore per l’evacuazione di civili, prima che le sue forze raggiungessero le coste della Striscia, che non hanno protezione sul mare.

La crescita delle proteste antiisraeliane per la situazione a Gaza

Con l’azione diplomatica, crescono le proteste nel Mondo per la situazione a Gaza, dove bombardamenti israeliani dal cielo, da terra e dal mare continuano a colpire campi di rifugiati e ospedali affollati. Gli Stati Uniti hanno ulteriormente rafforzato il loro dispositivo navale militare nel Mediterraneo, con due portaerei e un sottomarino a propulsione nucleare.

C’è stata una telefonata a Papa Francesco del presidente iraniano Ebrahim Raisi e c’è un’apertura della Russia agli Stati Uniti, nel segno della “responsabilità” che i due Paesi devono avvertire e condividere per la stabilità internazionale. Invece, nel governo israeliano c’è chi fa discorsi poco assennati: chi parla del ricorso al nucleare a Gaza come di un’opzione – e viene cacciato – e chi prospetta un piano per l’evacuazione dei civili da Gaza – e viene tacitato -. Anche se gruppi sostenuti dall’Iran hanno alzato il livello d’attacco alle truppe statunitensi di stanza in Iraq e in Siria, gli hezbollah libanesi restano sulle loro e non paiono ansiosi di entrare nel conflitto, salvo punture di spillo al confine con Israele.

Guerra Israele – Hamas: cronologia del primo mese[3]

7 ottobre: verso le 6.30 del mattino, i miliziani di Hamas lanciano un’azione terroristica contro Israele (denominata Alluvione Al-Aqsa). Alle 11.30, il premier israeliano Benjamin Netanyahu annuncia alla Nazione che il Paese è in guerra: parte l’operazione Spade di ferro.

Le vittime israeliane degli attacchi terroristici di Hamas saranno oltre 1400; i miliziani di Hamas uccisi dalle forze di sicurezza israeliane 1500. Circa 240 le persone prese in ostaggio.

9 ottobre: Israele annuncia l’assedio totale della Striscia di Gaza: vietato farvi entrare acqua, cibo, elettricità e carburante.

13 ottobre: l’esercito israeliano emette un ordine di evacuazione e ordina a 1.1 milioni di palestinesi del nord della Striscia, compresa Gaza City, di spostarsi entro 24 ore a sud del wadi Gaza.

17 ottobre: un’esplosione nell’ospedale Al-Ahli di Gaza City determina la morte di circa 500 palestinesi. Non è ancora chiara la dinamica dell’accaduto. Le notizie della strage all’ospedale innescano una serie di proteste nei Paesi arabi, in CisGiordania e ovunque nel mondo: c’è sostegno per la tutela dei diritti della popolazione palestinese.

18 ottobre: il presidente americano Joe Biden visita Israele, ma, a causa della strage all’ospedale, saltano i contatti con Abu Mazen e con altri leader arabi. Biden sollecita Netanyahu a non ripetere gli errori dell’Occidente nella lotta al terrorismo. La sua missione, preparata da Blinken con contatti in loco, è preceduta e seguita da visite in Israele da alcuni leader europei, fra cui la premier italiana Giorgia Meloni.

20 ottobre: Hamas libera due ostaggi, due israelo-americane, madre e figlia, rapite il 7 ottobre. Ci sono poi state altre liberazioni di ostaggio, fra cui, due giorni dopo, quella di due anziane donne, una delle quali scambia un segno di pace con un suo sequestratore e gli dice ‘shalom’ e poi attacca, in conferenza stampa, il premier Netanyahu.

21 ottobre: i primi 20 camion contenenti aiuti umanitari entrano nella Striscia, attraverso il valico di Rafah. Nei giorni successivi, altri ne entreranno, sporadicamente. Prima del 7 ottobre, ne entravano 500 al giorno. Vertice di Pace al Cairo, sostanzialmente inutile, con molti leader, salvo quelli che contano in questa crisi.

24 ottobre: nel Consiglio di Sicurezza, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres afferma che “gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto” e che “il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione”. Nasce un putiferio: Israele ne chiede le dimissioni.

25 ottobre: per il presidente turco Recep Erdogan, Hamas è un movimento armato di liberazione, non un’organizzazione terroristica. Erdogan, che guida un Paese della Nato, è il primo leader che parla di genocidio a Gaza. Interrotti o tentativi di normalizzazione delle relazioni con Israele.

27 ottobre: inizia l’offensiva di terra delle forze armate israeliane nella Striscia. Imposto nella notte il primo blackout delle comunicazioni e di internet. A Bruxelles, il Vertice europeo chiede “tregue” e lancia idea di una conferenza di pace internazionale sulla questione palestinese. E, all’Onu, l’Assemblea generale chiede con una risoluzione una tregua umanitaria: 121 voti favorevoli, 44 astenuti (tra cui l’Italia) e 14 contrari, tra cui Israele e Stati Uniti – i no sono motivati dall’assenza, nel documento, di una condanna degli atti di Hamas il 7 ottobre -.

31 ottobre e 1° novembre: l’aviazione israeliana bombarda il campo profughi di Jabaliya nel nord della Striscia: centinaia di palestinesi vengono uccisi. L’Alto Commissariato Onu per i diritti umani afferma che i raid israeliani possono costituire “crimini di guerra”.

A partire dal 1° novembre: consentita l’uscita tramite il valico di Rafah a circa 1100 palestinesi con doppia nazionalità.

3 novembre: il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, dichiara che le sue milizie sono in guerra dall’8 ottobre, ma non fa presagire l’apertura di un vero e proprio secondo fronte al confine tra Libano e Israele.

5 novembre: Blinken, di ritorno nella Regione il giorno prima, incontra Abu Mazen, che si dice pronto a una gestione della Striscia di Gaza nella fase post-bellica.

6 novembre: l’esercito israeliano dichiara completato accerchiamento di Gaza City

Vittime: a tutto il 6 novembre, le fonti palestinesi dichiarano 10.165 vittime nella Striscia, al 70 per cento donne e bambini. Sommate alle vittime del 7 ottobre, il bilancio di sangue del conflitto supera i 13 mila morti, con decine di migliaia di feriti.


[1] Scritto il 3 novembre per The Watcher Post. https://www.giampierogramaglia.eu/2023/11/03/israele-hamas-usa-pause/.

[2] Scritto per The Watcher Post il 6 novembre 2023. Cf. https://www.giampierogramaglia.eu/2023/11/07/israele-hamas-mese/.

[3] La Cronologia è stata curata dai praticanti della scuola di giornalismo di Urbino.

https://www.key4biz.it/democrazia-futura-gli-effetti-devastanti-della-guerra-fra-israele-e-hamas/466427/