Democrazia Futura. Il sogno intellettuale di Angelo Guglielmi

  ICT, Rassegna Stampa
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Guido Barlozzetti
Guido Barlozzetti

Quattro mesi fa scompariva colui che Guido Barlozzetti definisce come “un intellettuale integrato… con un’idea/ideologia. Ne “Il sogno intellettuale di Angelo Guglielmi” Barlozzetti descrive “Tra letteratura, televisione e cinema, un percorso originale nell’industria culturale del Paese” dal Gruppo 63 sino alla direzione di Rai Tre, il ruolo di Amministratore Delegato dell’Istituto Luce e quello di Assessore al Comune di Bologna.

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Alzava gli occhiali, l’ovale delle lenti appena cerchiate da una montatura di metallo, e chiudeva quasi gli occhi come se stesse cercando in un confronto con se stesso le parole che meglio esprimessero il filo del ragionamento, cadenzato dal battito delle palpebre.

Sono passati tanti anni da un convegno scrittura/lettura che il già Gruppo 63 tenne da Orvieto per capire se l’avanguardia era ancora “neo” e su quali strade andare a cercare l’avvenire della letteratura. Era il 1976 e lì mi parvero Elio Pagliarani ed Edoardo Sanguineti, Renato Barilli e Romeo Guerrazzi, Alberto Arbasino e … Angelo Guglielmi. Parlavano del potere della scrittura e di come toglierla alla prigione delle convenzioni, con il dubbio però che lo slancio del passato fosse ancora quello e che i risultati ne fossero stati all’altezza. 

Per me, uscito dalle stanze idealistiche della Sapienza di Roma e che sentivo il richiamo marxiano di rimettere sui piedi una filosofia che si era intrappolata nella testa, fu una ventata di stimoli e suggestioni, tra cui gli echi di nouveau roman e di strutturalismi che arrivavano dalla Francia e che già complicavano il fondamento della capriola auspicata dal barbuto di Treviri.

Guglielmi, dunque, con i suoi saggi su Carlo Emilio Gadda apparsi su  Vero e falso nel 1968, apparteneva a quell’onda di pensiero critico e al tempo stesso creativo che s’innestava sul mio tragitto tra libri e realtà (già, ma quale?…), l’unica convinzione che il senso fosse un pilastro se non da svellere, comunque da attraversare, svuotare e, come si diceva allora, destrutturare.

Poi, un giorno, lavorando per La Mostra del Cinema di Pesaro di Lino Miccichè a una ricerca con Francesco Pinto e Claver Salizzato sul Cinema della televisione feci una scoperta: il Francesco d’Assisi che Liliana Cavani aveva diretto nel 1966  aveva alle spalle il responsabile dei Programmi Speciali della Rai e cioè Angelo Guglielmi.

Nel tempo dei romanzi sceneggiati, realizzati con le telecamere in studio,  quello era stato il primo film – girato su pellicola – prodotto dalla Rai. Dunque, il critico letterario si palesava in un altro territorio, che sembrava d’emblée lontano, tanto popolare quanto l’altro si presentava con la densità colta della letteratura. E questo scombinava le carte e però al tempo stesso allargava i confini di una partita che poi era quella  dell’immaginario e della sua complessa articolazione.

E che Guglielmi ne fosse un lucido protagonista, forte della Cultura su cui l’Intellettuale fondava il suo statuto di autorevolezza, fu definitivamente chiaro quando, nel 1987, fu nominato direttore della rinnovata Terza Rete. Il corifeo di Gadda alla  guida della nuova frontiera delle televisioni del servizio pubblico annunciava quanto meno un esperimento e generava un’attesa inconsueta e sorprendente per quell’elettrodomestico di massa.

Ora, la sua morte e la sua vitalità intellettuale fino all’ultimo, testimoniata da libri in cui lui stesso ritorna su momenti, fasi, età della sua vita, non meritano di essere affrontate con un commosso resoconto biografico di circostanza o con il fervorino della laudatio che si deve a chi viene a mancare e nel quale in tanti si sono esercitati mettendo in fila titoli e medaglie.

Tra avanguardia e  servizio pubblico, cultura e  e ideologia.

Non serve una biografia redatta come un curriculum imbalsamato e piegato alla agiografia consensuale che mette in fila le qualità, le tante applicazioni, le curiosità, gli spostamenti da un punto all’altro della mappa che si distende davanti a un intellettuale che il mondo lo guarda, ne coglie le contraddizioni e ci mette mano nel confronto con quelli che una visione marxista delle cose chiamava gli apparati – la letteratura, il cinema, la televisione e il super-apparato della politica – il fine critico legato alla neo-avanguardia, il miglior interprete, appunto,  di Carlo Emilio Gadda e di Alberto Arbasino, il teorico che accompagna una pluridecennale  ricerca letteraria in Italia dalla neo-avanguardia alla loro consunzione, il dirigente della Rai che passa dai programmi culturali degli anni Sessanta a un limbo da cui viene estratto per guidare la nuova Rai3 a cui viene riconosciuta la stessa dignità delle altre reti del servizio pubblico e  che apre una finestra di freschezza e irriverenza nella compostezza confezionata della tv, poi l’amministratore delegato dell’Istituto Luce, fino all’assessorato alla cultura del comune di Bologna, sindaco Sergio Cofferati.

D’altronde, lui stesso ha lasciato un “piccolo breviario laico” in Sfido a riconoscermi, un ironico corpo a corpo con l’autobiografia fatto di “racconti sparsi”, di “lampi e intuizioni” non necessariamente da leggere in fila ma, su consiglio dello stesso autore, divagando avanti e a ritroso.

Dunque, mi pare che per affrontarlo non si possa che partire dall’apparente eterogeneità dei suoi impegni ed eleggerlo, nell’originalità della traiettoria che ha disegnato, a interlocutore prezioso per chi volesse provare a inoltrarsi nell’arcipelago italiano della comunicazione del dopoguerra, tra letteratura, cinema e televisione.  

Lo è perché vi si è mosso da critico, scrittore-saggista e dirigente, dunque con ruoli diversi che dicono di un singolare rimando tra dimensione intellettuale e responsabilità amministrative e aziendali, variamente legate a quel perimetro ambiguo, tra autonomia e mercato, che ora con sintesi idealistica e qualche ipocrisia chiamiamo “cultura” e che con un ossimoro con ascendenze marxiste chiamavamo “industria culturale”.

Un intellettuale “integrato”…

Un intellettuale che non è stato a “guardare”, non si è rinchiuso nella torre e non ha coltivato il pregiudizio dell’alto” nei confronti del “basso” – la vituperata e corriva televisione, volgarità a uso delle masse – ma ha messo i piedi nella “fabbrica” avendo sempre come discrimine il pubblico nei confronti del privato (salvo, in epoca berlusconiana e relative censure, l’idea buttata giù con Stefano Balassone, fidato complice nell’avventura, di un secondo polo di servizio pubblico finanziato con un dimagrimento della Rai in epoca berlusconiana), dunque con una sorta di scelta di campo a marcare se non una superiorità, una sorta di coscienziale purezza fondata appunto sul legame tra cultura e dimensione di servizio, non contaminato da logiche mercatili.

E lo è perché è transitato, in qualche caso con una consuetudine mai venuta meno, con incarichi editorial-produttivi rilevanti, da un territorio all’altro, muovendosi all’interno di una mappa ancora fondata sulla distinzione tra letteratura, cinema e televisione e dunque volta a marcarne differenze e confini, ciascun ambito con le sue specificità, non travasabili negli altri.

… con un’idea/ideologia novecentesca della cultura

Ciò che oggi risulta più difficile e non perché siano venute meno le identità, un film, un libro, un programma televisivo continuano a non essere la stessa cosa, ma perché  è intervenuto il mare magno della rete a ricontestualizzarne l’arcipelago e dunque anche la materialità analogica.

Ecco, Guglielmi, da questo punto di vista –  sia detto senza che questo comporti un giudizio di valore, semmai  una considerazione di contesto – mi pare legato a un’idea/ideologia novecentesca della novcentesca della culturacultura e cioè a uno statuto forte dell’intellettuale che ha una visione generale della realtà e interpreta la cultura nei termini di un rapporto che non è e non può essere autoreferenziale o di semplice e banale rispecchiamento, ma si fonda sulla necessità di uno spostamento che oltrepassi limiti e confini e coinvolga creativamente e consapevolmente il destinatario, nell’ottica di un mondo, per quanto possibile, da cambiare.  

Vale a dire che la cultura non è una cartolina illustrata e l’intellettuale che ne è la figura non certifica l’esistente, non è il funzionario dell’ordine vigente e si dà invece come un agente del “disordine” che rifiuta il conformismo dei luoghi comuni e dell’apparenza appagata di sé stessa e promuove una presa di coscienza non sottomessa e assoggettata a codici e riti dominanti.

Cos’è, d’altronde questo, se non un vocabolario novecentesco da post-Scuola di Francoforte che si replica nella debordiana società dello spettacolo, magari con qualche innesto situazionista? Guglielmi questa “missione” l’ha esercitata trasversalmente, sia per quanto riguarda la diversità dei campi a cui si è applicato, sia nel divenire delle situazioni sociali e politiche che si sono susseguite nel Paese e, in parallelo, negli impegni della sua vita.

Nella contesa che Umberto Eco – anche lui tra gli intellettuali di cui si alimentò la Rai degli anni del monopolio – descriveva tra gli “apocalittici” gli “integrati”, Guglielmi appartiene risolutamente alla seconda schiera e non per una passiva soggezione nei confronti del medium, ma all’opposto per il riconoscimento del ruolo e dunque la necessità di valorizzarlo e sottrarlo agli usi più evasivi e conformistici.

Una linea di continuità, in questo senso, lega riflessioni e prese di posizioni, sempre volte a cercare un’alternativa, un oltre che comunque non fosse la celebrazione dell’esistente.

Guglielmi partecipa alla neoavanguardia del Gruppo 63 e fin da allora esprime la convinzione che la “realtà” della letteratura stia dentro non fuori dell’opera e che si manifesti attraverso – come scrive in Vero e falso (1967) –   “rotture stilistiche e una rivoluzione del linguaggio”.

Poi, quando constata che la “funzione di contestazione” si è esaurita, come anche  la capacità di fare “un discorso totale” e non specialistico in un orizzonte non più propulsivo,  propone l’alternativa di “un’allegria del linguaggio” per cui servono

“arguzia d’ingegno, sottigliezza intellettuale, empito umorale oltremodo raffinato e vigoroso e poi, nel 1973,  lancia l’idea di una “letteratura del risparmio” , fatta appunto di “parole risparmiate, povere, collegate con codici essenziali, organiche al linguaggio fisiologico”,

sulla scia di autori prediletti, a cominciare da Luigi Malerba (di cui dirà “È indubbio (e negli anni ne siamo sempre più convinti) che insieme con altri due autori (che non nomino per non attizzare  il pettegolezzo) è lo scrittore più importante della seconda metà del secolo scorso”) e poi Italo Calvino, Giorgio Manganelli, Tommaso Landolfi… –  un romanzo che si fa corpo dunque e rifiuta il cliché, ormai, della discesa-introspezione nell’anima ormai consumata e normalizzata.

Insomma, Guglielmi è sempre alla ricerca di un passo più in là, di una mediazione letteraria – in cui e null’altro risiede la (sua) realtà – che in ogni caso e nelle forme via via più adeguate vada sempre oltre e sia sempre fuori di sesto.

Il direttore della Terza Rete tra PCI e concorrenza alla tv commerciale

E, allora, dove la mettiamo Rai Tre di cui nel 1987 diventa direttore, una scelta che ha come artefice Walter Veltroni nel quadro di un doppio riequilibrio: dell’offerta Rai sul piano politico/partitico e dell’audience nei confronti dell’arrembante televisione commerciale del gruppo Fininvest?  Guglielmi ha sempre sottolineato la differenza specifica della televisione: la diretta e la possibilità di parlare a un  pubblico impensabile per la letteratura e il cinema.

Solo che questa differenza si è ormai largamente normalizzata nelle consuetudini pedagogiche e di un intrattenimento conformistico ed evasivo e dunque – ecco lo spostamento – la nuova rete deve costruirsi  all’insegna della “tv verità” e di una cultura intesa non come totalità ma come “senso del tutto”. Guglielmi applica, insomma, un gesto d’avanguardia a un medium di massa e ci porta dentro il rimosso dei problemi e delle contraddizioni, la forza imprevedibile della diretta e del telefono – sia pure nel calco di un formato – i linguaggi popolari, l’irriverenza, lo sberleffo,  la comicità… Una potenza eversiva che ancora una volta – esattamente come la letteratura – si fonda sulla forza della realtà che può esprimere il medium e la mediazione-realtà che lo costituisce:

Come rievoca in Sfido a riconoscermi:

“La neo tv considerava la tv non uno strumento ma un linguaggio che si aggiungeva agli altri linguaggi e dunque capace di mettere appunto prodotti specifici e non proponibili con altri mezzi. E la prima e più semplice idea della televisione-linguaggio è la ripresa diretta (che sarebbe stata tutto della nostra programmazione) e allora che cosa trasmettere in diretta diventava una scelta obbligata: oggetto della diretta non può che essere la realtà del paese”.

Perseguire la realtà del mezzo significava aprirlo alla realtà (del Paese).

I programmi, in questa impostazione, non possono essere che le forme via via assunte da questo pensiero di una differenza propria della televisione, trasversale a tutti e ribadito con orgoglio e perfino con un’arroganza compiaciuta: il divano in piazza di Piero Chiambretti in Va’ pensiero condotto da Andrea Barbato e Oliviero Beha, il telefono-thriller di Chi l’ha visto? di Donatella Raffai e Giovanna Milella, quello processuale di Linea rovente con Giuliano Ferrara e quello la difesa a spada tratta del consumatore in Mi manda Lubrano, le telecamere nei tribunali di Un giorno in pretura di Roberta Petrelluzzi, i cold case di Telefono giallo diCorrado Augias, la comicità al femminile della Tv delle ragazze, la pancia del Profondo Nord auscultata da Gad Lerner, il montaggio delle attrazioni e la meta-tv di Blob di Enrico Ghezzi, la perversione dell’immaginario del cinema nella notte di Fuori orario, la residualità televisiva di Avanzi con Serena Dandini, fino ai mostri primordiali e pagani di Cinico tv di Daniele Ciprì e Franco Maresco. Rai3 è l’esemplificazione di una rete tutta tv-tv che è la condizione per essere tv-realtà e, non a caso, esclude pregiudizialmente l’altro da sé: i libri e la letteratura (nonostante Augias e la vetrina di Babele..), il teatro, la musica (se non in quanto citazione di secondo livello…), il cinema relegato e “liberato” nella sala buia della notte.  Guglielmi la costruisce da dominus con una squadra creativa che andava da Lio Beghin a Enrico Ghezzi, da Bruno Voglino a Linda Brunetta e Giovanni Tantillo, e su un’intesa con Sandro Curzi, direttore del Tg3, da cui nasce Samarcanda che Michele Santoro (con Giovanni Mantovani, prima e Simonetta Martone, poi) spalanca sulle piazze caldissime del Paese.

Dura sette anni il progetto e però e inevitabilmente sul piano editoriale  si ripropone  il rischio consustanziale della normalità, allo stesso modo del circolo vizioso delle neo-avanguardie che con il passare del tempo veniva a risucchiare la novità, l’assuefazione da ripetizione e quindi la necessità di dover fare sempre un passo più in là magari forzando, cedendo al manierismo, esagerando nel gioco delle citazioni e nell’obbligo della contaminazione.

La rimozione dalla Rai e i nuovi incarichi all’Istituto Luce e al Comune di Bologna

Non è tuttavia per questo che quell’esperienza si conclude.

Nel 1994, con l’avvento del primo Governo di Silvio Berlusconi, Angelo Guglielmi viene rimosso, non è compatibile con il nuovo quadro politico, ma è anche vero che il palinsesto della rete dà segni di stanchezza, a dimostrazione appunto del teorema della novità che diventa ripetizione e postula un ininterrotto rilancio nelle nuove condizioni date.

Il tempo – e i nuovi direttori – s’incaricano di rimuovere il contesto-palinsesto di Guglielmi con il risultato che, quando restano, i programmi diventano isole senza una mappa che dia un senso, rappresentativi solo di se stessi e della loro particolarità che resiste residualmente, come ancor oggi Chi l’ha visto?, Un giorno in pretura, Fuori orario e Blob.

Acqua passata, un’avventura benedetta da un quadro politico favorevole e dalla ostinazione militante di un’avanguardista che si riconverte dal recinto letterario all’audience della televisione, con una provocazione maieutica che nel pubblico vuole accendere la dormiente o frustrata pulsione anticonsumista. Roba di quando la televisione era ancora al centro del sistema della comunicazione e l’ordine benpensante e commerciale dei palinsesti era il nemico contro cui combattere allestendo il fortilizio della “Tv verità”.

La tv di Angelo Guglielmi era “avanti”, colorata, impertinente, provocatoria, apriva una breccia nel muro che separa dalla realtà, secondo un postulato ideologico che si propone di strappare il velo che la nasconde.

Lasciata la Rai, Angelo Guglielmi compie ancora un doppio passo, assessore alla cultura al Comune di Bologna e Amministratore Delegato dell’Istituto Luce. A Bologna riesce nell’impresa di aprire gratis i musei, a Roma – in un braccio glorioso del cinema pubblicorealizza un circuito di sale alternativo diffuso nel Paese. Ancora, quel bisogno di opporsi alla chiusura della cultura, in questo caso un patrimonio d’arte che resta lontano dalla gente, e sull’altro versante di non assecondare gli automatismi del mercato. Ancora gesti di una modernità che vuole essere progressiva e migliorare il mondo. A questa idea Guglielmi ha tenuto fede.

A novant’anni ha deciso di cedere al “personale” e ha raccontato di sé, soprattutto di un’infanzia complicata,

“da bambino ero un bugiardo, brutto, rachitico e mal vestito. Avevo un complesso d’inferiorità…”.

Ricordava di essere andato a otto, nove anni ai funerali di Guglielmo Marconi e di Gabriele D’Annunzio. Ma forse ripensandoci poteva essere stata solo una fantasia, un ricordo-bugiardo che

“anticipava gli interessi (e le attività) che avrei avuto da adulto”.

Chissà… uno dei “ racconti sparsi” di quella confessione forse rivelava che la radice della militanza dell’intellettuale stava anche nei meandri dell’inconscio e sul confine indecidibile del sogno e della realtà.

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