Venceslav Soroczynski, pseudonimo di uno scrittore e critico letterario e cinematografico per la rubrica Riletture di Democrazia futura, illustra “Le rovine circolari”, un racconto di Jorge Luis Borges uscito nel 1944 a Buenos Aires nella celebre raccolta Finzioni. “Il contesto del racconto è incerto, forse esotico, forse incoerente, ma ciò risulta secondario e ogni domanda in merito oziosa. È la storia che conta – prosegue l’autore della rilettura di questo racconto dello scrittore argentino – e la storia è quella di un vecchio che, approdato in canoa su una terra misteriosa, si pone un obiettivo, un “proposito sovrannaturale. Vuole sognare un uomo con minuziosa completezza e imporlo alla realtà.” Quel fine iperbolico richiederà tutte le sue forze, il suo tempo, “l’intero spazio della sua anima”, tanto da fargli dimenticare il proprio nome, il proprio passato, le proprie necessità. Egli si rifugerà in un tempio disabitato in riva al mare, finché non avrà realizzato il suo intento”.
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C’è stato un giorno in cui ho capito che la letteratura poteva essere talmente potente da scavalcare la realtà e allestire una dimensione solida, viva, parlante quanto quella. Era passata la mezzanotte, avevo vent’anni e avevo appena finito di leggere questo racconto, dalla raccolta intitolata Finzioni[1]. Chiusi gli occhi e quella certezza mi si archiviò nella cassaforte dei fatti sicuri, un posto che è dentro me, privato ma non segreto, che non ha chiavi perché è aperto a tutti.
La lettura non era stata scorrevole, perché ogni frase richiedeva una lettura attenta, uno sforzo di immaginazione, una inversione del senso, ma ogni frase lasciava capire che c’erano, in quella storia e in quel linguaggio, un significato altissimo, una potenza inviolata, una stabilità inscalfibile, annegati in una geniale fantasia.
Il contesto del racconto è incerto, forse esotico, forse incoerente, ma ciò risulta secondario e ogni domanda in merito oziosa. È la storia che conta e la storia è quella di un vecchio che, approdato in canoa su una terra misteriosa, si pone un obiettivo, un “proposito sovrannaturale. Vuole sognare un uomo con minuziosa completezza e imporlo alla realtà.” Quel fine iperbolico richiederà tutte le sue forze, il suo tempo, “l’intero spazio della sua anima”, tanto da fargli dimenticare il proprio nome, il proprio passato, le proprie necessità. Egli si rifugerà in un tempio disabitato in riva al mare, finché non avrà realizzato il suo intento.
Dopo alcuni fallimenti, “sogna un cuore che palpita. Lo sogna caldo, segreto, della grandezza di un pugno chiuso, di color granata nella penombra di un corpo umano ancora senza faccia e senza sesso; con amore minuzioso lo sognò, per quattordici lucide notti. Ogni notte lo percepisce con maggiore evidenza.
Non lo toccava; si limitava a osservarlo, forse a correggerlo con lo sguardo. Lo percepiva, lo viveva, da molte distanze e da molte angolature. Prima che fosse trascorso un anno, arrivò allo scheletro, alle palpebre.” Poi, “nel sogno dell’uomo che sognava, colui che era sognato si svegliò” e il sognatore gli dedicò due anni per svelargli gli arcani dell’universo. E poi rifece la spalla destra, forse difettosa.
I suoi giorni erano felici, quando chiudeva gli occhi pensava: “adesso starò con mio figlio”. Tutto questo è fantasia, eppure lo sentite quanto si avvicina al vostro petto? Io lo avverto fermamente, mi sembra che scavi dentro di me, che mi porga ricordi e proiezioni e sentimenti vertiginosi.
Il racconto continua e quando il sognatore capisce (con una certa amarezza) che suo figlio era pronto per nascere, lo bacia per la prima volta. Ora lo ha plasmato, il figlio esiste, anche se vive di quella sola vita che il padre ha potuto dargli. “Perché non sapesse mai che era un fantasma, perché si credesse un uomo come gli altri, il padre gli infuse l’oblio totale dei suoi anni di apprendistato”.
Procedendo con la lettura, sentirete il dolore di questa incompletezza, di questa quasi-vita, di questa debolezza che è la nuda immaginazione e che somiglia alla debolezza e all’ebbrezza della vita.
La lenta e faticosa costruzione dell’uomo ci porta al finale del racconto: due rematori svegliano il vecchio e gli raccontano di un uomo magico che, più a nord, cammina nel fuoco senza bruciarsi. Il vecchio capisce che si tratta di suo figlio, che non può ardere perché non ha corpo e non può perire perché non esiste. Il tormento del padre non è quindi che il figlio muoia, ma che si accorga di essere un fantasma, di non esistere.
E allora il padre sognante, l’autore della novella, noi stessi, siamo costretti a farci la domanda se sia più dolorosa l’immortalità del fantasma che è il figlio che non abbiamo, oppure la mortalità dell’uomo più importante per ogni uomo, cioè il proprio figlio, che fra cento anni a sua volta diventerà un fantasma o, semplicemente, più nulla. Rispondete voi alla domanda: a me, fra un incauto istinto di creazione e un amore gettato al vento, tremano la voce e le dita sulla tastiera.
E non è ancora questo, il finale. C’è dell’altro: il fuoco arriva al rifugio del vecchio e lo investe, egli sente avvicinarsi la morte e pensa di gettarsi in acqua, ma succede qualcos’altro. Anticipata da un delirante sospetto, una spaventosa certezza, o forse solo una rassegnata rinuncia, pervade, descrive e annichilisce il sognatore.
Ma non dico altro, non tanto per non rovinarvi la lettura, quanto per farvi soffrire. Perché, in fondo, sono crudele, non ho pietà e non ho sentimenti, come non ne hanno la vita e la letteratura.
[1] Jorge Luis Borges, Ficciones (1935-1944), Buenos Aires, Sur, 1944, 204 p. I racconti sono stati tradotti in italiano dapprima da Franco Lucentini in una raccolta uscita nella celebre collana “I gettoni” con il titolo La biblioteca di Babele, Torino, Einaudi, 1955, 162 p. Poi nel 1961 nella collana “I coralli” con il titolo Finzioni. La biblioteca di Babele. Oggi l’opera è anche disponibile nell’edizione a cura di Antonio Melis: Finzioni, Milano, Adelphi, 2003, 186 p.
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