Giampiero Gramaglia, in un articolo intitolato “La Cina di XI III cala in tavola le carte da attore globale, noi rispondiamo picche”, commenta per Democrazia futura da un lato le iniziative politico militari di Pechino per favorire la pace fra Russia e Ucraina e la ripresa delle relazioni diplomatiche fra Arabia Saudiata e Iran, dall’altro l’accordo fra Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia, i tre Paesi che formano l’Aukus, ovvero “una sorta di Nato del Pacifico”, per dotare Camberra di sottomarini nucleari e l’incontro al vertice fra Giappone e Corea del Sud per nfar fronte alle “crescenti minacce regionali della Cina e della Corea del Nord”.
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La Cina del terzo mandato di Xi Jinping cala in tavola le carte da attore globale non solo economico e commerciale, ma anche politico e militare. Prende un’iniziativa per la pace tra Russia e Ucraina; media la ripresa delle relazioni diplomatiche tra i due ‘arci-nemici’ nel Mondo islamico, l’Iran suo alleato e l’Arabia saudita principale alleato degli Stati Uniti nel Medio Oriente; e aumenta le spese per la difesa, con previsioni di crescita del Pil sempre migliori di quelle dei suoi interlocutori.
Per tutta risposta, gli Stati Uniti, e con tonalità modulate l’Occidente tutto, storcono il naso al piano di pace ‘filo russo’ e trangugiano di malavoglia la mediazione mediorientale: atti che testimoniano – scrive l’Associated Press, meno umorale dell’Amministrazione statunitense – che la Cina vuole giocare un ruolo più attivo nella gestione degli affari internazionali.
La replica occidentale è rinforzare la cintura militare intorno alla Cina nel Pacifico, con l’accordo, annunciato all’inizio della settimana a San Diego in California, tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia, i tre Paesi dell’Aukus, una sorta di Nato del Pacifico, per dotare Canberra di sottomarini nucleari, per altro pagati a caro prezzo. E c’è, inoltre, il primo incontro al Vertice da 12 anni in qua fra Giappone e Corea del Sud: segno che i due Paesi, alleati dell’Occidente nel Pacifico, stanno cercando di sormontare le loro storiche differenze e di unirsi contro quelle che percepiscono come crescenti minacce regionali della Cina e della Corea del Nord.
Secondo l’Istituto Affari Internazionali, l’accordo per il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra l’Arabia Saudita e la Repubblica islamica dell’Iran, mediato dalla Cina, può potenzialmente rivelarsi un passaggio trasformativo della geopolitica del Medio Oriente e avrà implicazioni anche sulla politica nell’area degli Stati Uniti e di Israele, che vedono il loro principale interlocutore, il Regno dell’Arabia Saudita, venire a patti diplomatici con il loro principale nemico, la Repubblica Islamica dell’Iran.
Invece, quella lanciata dall’Aukus, il patto siglato nel 2021 da Australia, Regno Unito e Stati Uniti con l’obiettivo di contenere la Cina nella vasta regione dell’Asia-Pacifico, apre una vera e propria sfida alla produzione di sottomarini nucleari: Joe Biden, Rishi Sunak e Anthony Albanese ne hanno discusso significativamente riuniti in una base navale militare californiana, a Point Loma.
La compattezza dell’Occidente intorno a questa strategia del confronto a 180 gradi, lungo l’asse Pechino – Mosca, è lungi dall’essere garantita a medio termine.
Ron DeSantis, governatore della Florida, potenziale candidato repubblicano alla Casa Bianca l’anno prossimo, dice che difendere l’Ucraina dall’invasione della Russia non è un interesse vitale degli Stati Uniti:
“Abbiamo molti interessi nazionali vitali – proteggere i nostri confini, affrontare la crisi di preparazione all’interno delle nostre forze armate, raggiungere la sicurezza e l’indipendenza energetica e controllare il potere economico, culturale e militare del Partito comunista cinese -, ma restare ulteriormente invischiati in una disputa territoriale tra Ucraina e Russia non è una di queste”.
DeSantis fa eco a osservazioni dello speaker della Camera Kevin McCarthy, che nel 2022 definì “un assegno in bianco” gli aiuti all’Ucraina dell’Amministrazione Biden. Il governatore sostiene che “la pace dovrebbe essere l’obiettivo” e avverte che l’invio di armi avanzate come aerei da combattimento F-16 e missili a lungo raggio “rischierebbe di trascinare esplicitamente gli Stati Uniti d’America nel conflitto e di avvicinarci a una guerra aperta tra le due maggiori potenze nucleari mondiali”.
L’accordo nell’Aukus e le reazioni della Cina (e della Russia)
Per la Cina, l’accordo sui sottomarini, e più in generale l’Aukus, sono “nati con una tipica mentalità da Guerra Fredda”, che stimolerà solo una corsa agli armamenti, saboterà il sistema internazionale di non proliferazione nucleare e danneggerà la pace e la stabilità regionali – come dice il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino Wang Wenbin -.
Sempre secondo la Cina, il patto spinge Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti su un “percorso d’errore e di pericolo”: “La loro ultima dichiarazione congiunta dimostra che i tre Paesi, per i propri interessi geopolitici, ignorano completamente le preoccupazioni delle comunità internazionale”.
L’intesa di San Diego prevede che Canberra acquisti fino a cinque sottomarini nucleari statunitensi e costruisca un nuovo modello con tecnologia americana e britannica, nel quadro di un rafforzamento dell’alleanza occidentale nell’Asia-Pacifico. Il presidente Joe Biden chiarisce che l’Australia non avrà armi nucleari, ma entrerà, con i sottomarini nucleari, in un club ristretto, quanto a capacità militari, a livello mondiale.
Pechino, per contro, pensa che la vendita di sottomarini presenti “un grave rischio di proliferazione nucleare” e violi “gli scopi e gli obiettivi del Trattato di non proliferazione“, rilanciando un tema già sollevato all’annuncio dell’Aukus.
Mosca, dal canto suo, accusa “gli anglosassoni” di preparare “anni di scontri” in Asia:
“Il mondo anglosassone sta costruendo strutture a blocchi come l’Aukus, facendo avanzare l’infrastruttura della Nato in Asia e scommettendo seriamente su anni di scontri”,
dice il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. E il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov nota che l’accordo a tre “solleva molte domande legate alla non proliferazione” e chiede “trasparenza”.
Dubbi e allarmi acuiti, a metà marzo, dall’incidente tra due caccia russi e un drone statunitense al di sopra del Mar Nero, nello spazio aereo internazionale.
Da dove nasce l’esigenza di dotare l’Australia di sottomarini nucleari? Esperti spiegano che i mezzi a propulsione nucleare possono stare sott’acqua più a lungo e percorrere distanze maggiori rispetto ai sottomarini convenzionali alimentati a diesel. La scelta australiana del consorzio anglo-americano aveva già avuto ripercussioni negative in Europa, perché Canberra aveva già siglato un contratto con la Francia lasciato cadere.
In una prima fase dell’accordo di San Diego, l’Australia acquisterà almeno 3 e fino a 5 sottomarini nucleari classe Virginia, con consegna prevista nel 2030; poi, si passerà ai nuovi sottomarini Made in Usa & Uk, che dovrebbero coinvolgere professionalità dei tre Paesi – tipo, tecnologia Usa e design britannico – ed entrare in funzione nel 2040. Fra le aziende coinvolte, il Financial Times cita BAE Systems e Rolls-Royce per il Regno Unito e General Dynamics e Westinghouse per gli Usa. Complessivamente, l’affare avrebbe un valore di 200 miliardi di dollari.
E’ la prima volta che gli Stati Uniti condividono i loro segreti nucleari navali con un altro Paese dopo la Gran Bretagna, 65 anni fa. L’Australia diventerà la settima nazione al mondo ad avere sottomarini nucleari, una scelta di peso per una media potenza che oggi vive “in uno spazio strategico molto più pericoloso rispetto a 10 anni or sono”, in una situazione paragonabile a quella di Svezia e Finlandia, che chiedono di entrare nella Nato dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.
Joe Biden insiste che l’Australia non avrà armi nucleari. Ma l’Agenzia dell’Onu per l’energia atomica, l’Aiea, veglia su eventuali violazioni del regime di non proliferazione. Il presidente degli Stati Uniti, nonostante le crescenti iniziative per contenere l’ascesa cinese, militare, tecnologica e commerciale, conferma la disponibilità a parlare con Xi Jinping. Pechino risponde: “Gli Stati Uniti dovrebbero mostrare sincerità, incontrare la Cina a metà strada e avviare azioni concrete per riportare i rapporti in carreggiata”.
Quale Cina dopo l’Assemblea del Popolo
La sessione parlamentare annuale cinese si è conclusa lunedì 13 marzo, conferendo a Xi Jinping un terzo inedito mandato presidenziale. Tutto era stato già deciso durante il congresso del Partito comunista cinese nell’ottobre 2022, tant’è che il conferimento dell’incarico è avvenuto all’unanimità dei delegati, 2.952. “Il condottiero Xi”, come scrive con buona dose di retorica il Quotidiano del Popolo, deve ora “fare navigare la nave cinese in acque in tempesta”.
Su Formiche, Emanuele Rossi ha chiesto a Beatrice Gallelli, ricercatrice dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, esperta di Cina contemporanea, che cosa dobbiamo aspettarci. Sul piano interno, si può “parlare di fine dell’epoca delle riforme avviata negli Anni Ottanta da Deng Xiaoping” (e, dunque, di una rinnovata sovrapposizione tra il Partito e lo Stato), anche se la guida del Partito sullo Stato “non era mai stata del tutto messa in discussione nemmeno da Deng”.
Nel Mondo, Gallelli non crede che “ci saranno grandi cambiamenti nel ruolo che la Cina intende giocare a livello globale. Belt & Road initiative, Global Security Initiative, Global Development Initiative: sono questi i piani cardine, tutti pensati per presentare la Cina come realtà alternativa globale”, sull’onda del “vero multilateralismo” spinto dalla narrazione strategica di Pechino.
L’Italia, nei prossimi mesi, dovrà decidere se rinnovare o meno il Memorandum of Understanding sulla Belt & Road Initiative, cioè la Nuova Via della Seta, firmato nel 2019. L’adesione italiana all’infrastruttura geopolitica cinese – un caso unico, nel G7 – aveva avuto echi negativi sia negli Stati Uniti d’America sia all’interno dell’Unione europea.
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