Democrazia Futura. La modernità di Mazzini

  ICT, Rassegna Stampa
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Marco Severini

Nell’ambito della “Rassegna di varia umanità” Democrazia futura propone un mini saggio di Marco Severini dedicato a “La modernità di Mazzini” mettendo in rilievo come recita l’occhiello “Un secolo e mezzo dopo l’attualità del pensiero e dell’azione di un grande patriota”.

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Il 150° anniversario della morte di Giuseppe Mazzini sta scivolando via secondo le previsioni: qualche elzeviro azzeccato, per lo più a firma di storici, qualcun altro imbevuto di vieti luoghi comuni e alcuni errori[1], qualche nuovo studio critico abbinato al suo best-seller[2] e qualche immancabile cerimonia sulla quale pesa come la spada di Damocle l’ombra della retorica.

Quello che ho digerito con maggior fatica è stato l’articolo di Corrado Augias che si è preso un’intera pagina per rimarcare come Mazzini sia stato poco simpatico, «pensoso, severo, malinconico», contrapponendolo more solito a Camillo Benso di Cavour e Giuseppe Garibaldi; hanno scontentato sia la considerazione secondo cui il «saggio sui ‘doveri’» sarebbe stato «fatto per alienare fin dal titolo molte simpatie» sia l’affermazione per cui il Genovese avrebbe voluto «che restasse scritto a quale alta moralità civile l’effimera esperienza s’era ispirata», relativamente alla carta costituzionale della Repubblica del 1849.

Infatti, come attenti saggi storici hanno documentato, Mazzini pensava che non si dovesse superare nell’epopea romana la dimensione di una dichiarazione di principi, visto che bisognava puntare a una Costituzione italiana. Non ancora triumviro ma semplice deputato – eppure accolto da un’ovazione dell’Assemblea Costituente la mattina del 6 marzo mentre in aula stava parlando Enrico Cernuschi[3] –, Mazzini spiegò bene la sua posizione, il 17 marzo 1849,  in una lettera scritta ai membri del Comitato esecutivo (il primo dei tre triumvirati della Repubblica, due dei quali ignorati nell’articolo) con queste parole:

“[…] sarebbe oggi dannoso di fare uno Statuto, una Costituzione completa per lo Stato. Noi, nelle presenti circostanze, non abbiamo tempo; quello che abbiamo dobbiamo spenderlo meglio. Un progetto di Costituzione localizzerebbe il grandioso carattere della iniziativa Romana, se fosse Romano: e Italiano, non possiamo farlo degnamente né conviene farlo prima che una parte d’ispirazione Italiana convenga in Roma. Noi siamo in presenza della guerra Italiana. Noi dobbiamo occuparci di trovare danaro ed armi; di suscitare l’entusiasmo, di vulcanizzare il terreno. Ecco ciò che io propongo. Limitiamo i nostri lavori a questo: Una dichiarazione di Principii, come preambolo alla Costituzione futura e come pegno dato da Roma della sua Fede politica prima di gittarsi nella guerra e per tutti i rivolgimenti che la guerra stessa potrebbe produrre[4].

Il giorno dopo, in Costituente, Mazzini precisò il concetto:

“Voi avete dichiarato che fareste una Costituzione, Costituzione italiana e costituzione romana. Una Costituzione romana secondo me non deve farsi, una Costituzione italiana non può farsi. Il carattere del movimento romano fin da principio fu quello di cacciare una grande parola, e aspettarne l’eco dalle diverse parti d’Italia; fu quello, se così posso esprimermi, di aprire una via per la quale gli avvenimenti possano cacciare le diverse popolazioni che formano l’Italia.[…]

Parmi che Roma dovrebbe avere dalla Commissione che incaricaste di redigere la Costituzione, una dichiarazione di principi, una espressione di fede, che Roma al principio della guerra (qualunque debba esserne l’esito) caccerebbe all’Italia e all’Europa, a testimonianza della propria credenza politica; a dire: trionferemo o morremo in quella. È una sicurezza, un pegno, un invito dato all’Italia[5]”.

Davvero un peccato per il padre della patria, morto a Pisa il 10 marzo 1872 sotto il falso nome di George Brown, ospite della famiglia Rosselli Nathan; ai suoi funerali due devote mazziniane, Sara Levi e Giorgina Craufurd Saffi, impedirono a chiunque di avvicinarsi al feretro per non contaminare il Maestro; seguì la traslazione a Genova – dove Mazzini era nato il 22 giugno 1805 e nel cui cimitero di Staglieno riposa – attraverso un treno funebre che compì un lungo tragitto attraverso gli Appennini e l’Emilia così da consentire al maggior numero di italiani di rendergli omaggio[6].

Se un secolo e mezzo fa si fece il possibile nell’Italia monarchica per onorare Mazzini, oggi si poteva fare di più e meglio, specie se in rapporto a quanto avvenuto nel 2011 per il 150° anniversario dell’Unità nazionale, che come ogni altra ricorrenza ottocentesca si prevedeva poco sentita e partecipata, ma che invece, soprattutto per effetto della crisi economica e della delegittimazione del ceto politico nazionale, ha registrato un successo mediatico e popolare considerevole[7].

Mazzini meritava molto di più e non solo perché in un secolo e mezzo è stato screditato da tutte le culture politiche dominanti (liberale, nazionalista-fascista, comunista e più in generale di sinistra) senza che le sue opere venissero effettivamente lette e rese il perno di un processo di civilizzazione degli italiani, ma soprattutto perché, orfano in patria, ci ha indicato quale strada avremmo dovuto percorrere per diventare i cittadini di un’Italia democratica, moderna, pienamente inserita negli organismi internazionali, a partire dall’Unione europea.

Educatore e precursore dell’Europa unita

La storia dell’unità europea ha radici lontane e, ancor prima che ai protagonisti del Novecento, appartiene ad alcuni intellettuali dell’età contemporanea: tra questi un posto di primissimo piano è occupato da Mazzini.

E non tanto per aver fondato, nel 1834, la Giovine Europa, quanto per essere stato il primo – pensatore e insieme politico – ad aver parlato esplicitamente di unità tra nazioni con uguale dignità (e non di unificazione forzata o eterodiretta) e ad aver auspicato il superamento del concetto di nazione in favore di una federazione fra i popoli europei.

Al centro della visione europeista mazziniana, tuttavia, c’è sempre la convinzione che non esiste alcuna gerarchia tra le nazioni e che tutte hanno un eguale valore morale[8].

Mazzini è stato un grande educatore, anche se la scuola italiana si è dimenticata di lui.

Dal secondo dopoguerra ai nostri giorni l’europeismo mazziniano ha animato appassionate ricerche, alcune delle quali hanno avuto il merito di indagare aspetti non secondari del pensiero politico di Mazzini come quando, nelle Note autobiografiche, precisa che il concetto di «Repubblica Federativa» racchiudeva una doppia serie di doveri e di diritti: una prima spettante «a ciascuno degli Stati che formano la Federazione» e circoscrivente la sfera d’attività degli individui in quanto cittadini dei diversi Stati e quindi «l’interesse locale», e una seconda relativa «all’insieme» e destinata a definire «l’interesse generale», cioè la sfera d’azione degli stessi individui come «cittadini». Non va però dimenticato come il patriota genovese parlasse di fratellanza tra i popoli e di integrazione europea quando ancora la stessa unificazione italiana non era compiuta: se Mazzini e i mazziniani erano gli unici a battersi per la realizzazione di un’unificazione nazionale da realizzare su basi democratiche – cioè attraverso l’iniziativa del popolo e i deliberati di un’Assemblea Costituente –  e capace di superare la secolare frammentazione politica italiana.

Allo stesso modo i federalisti europei, da Altiero Spinelli in avanti, hanno avuto la chiara percezione del fatto che per costruire un’autentica unione europea bisognava superare il mito dell’assoluta sovranità degli Stati nazionali; infatti, senza questo tassello era ed è indubbiamente possibile conseguire livelli avanzati di integrazione, ma sempre in una dimensione precaria e soprattutto soggetta a «ripensamenti ed opportunismi singoli, e comunque incapace di guidare efficacemente i paesi europei nei momenti di difficoltà».Come noto, il processo di integrazione europea si è realizzato in tempi, modalità e scenari diversi da quelli ipotizzati da Giuseppe Mazzini, uomo dell’Ottocento, politico imbevuto della cultura romantica, padre della patria dotato di acuta lungimiranza. Benché la questione abbia animato un vivace dibattito tra gli studiosi, Mazzini va indubbiamente considerato un precursore dell’Europa unita.

Spingono in questo senso non pochi elementi:

  • la profonda matrice culturale del suo pensiero che si formò e venne influenzato dai maggiori intellettuali europei della sua epoca come da quelli del secolo precedente;
  • il rigore morale della sua attività con la quale cercò di mostrare che la libertà, la democrazia e la difesa della dignità umana si sarebbero affermate solo se fossero divenute solidali a livello europeo;
  • ancora l’obiettivo che egli si pose di cambiare radicalmente la carta geografica e gli equilibri politici continentali e internazionali, sostituendo all’egemonia e al dominio di pochi grandi Paesi, ancora legati a superati equilibri diplomatici, una geopolitica caratterizzata dalla mutua collaborazione tra le nazioni;
  • la strettissima connessione, propria del suo pensiero, tra il riscatto delle aspirazioni nazionali, la missione emancipatrice di alcuni Stati e la creazione, appunto, di un nuovo ordine internazionale, sostanzialmente pacifico;
  • la sua forte fiducia nei principi democratici, laici e progressisti attorno ai quali costruire una nuova era di sviluppo e prosperità;
  • la sua capacità di immaginare un futuro, libero spazio delle nazioni non già attraverso una gara di nazionalismi e di egoismi, ma per mezzo di una «fratellanza» tra popoli liberi in grado di costruire una libertà nuova e moderna.

Che poi questi ultimi siano ancora obiettivi da realizzare, da molti ritenuti utopistici e avveniristici, non è certo da addebitare a Mazzini e al suo pensiero[9].

Un macigno. La mancata metabolizzazione del pensiero mazziniano nell’università italiana

C’è un problema molto più rilevante nella quotidianità degli italiani, un autentico macigno: Mazzini a scuola si legge e si studia pochissimo e la sua presenza nelle aule universitarie, fatte alcune eccezioni, è ancora più meteorica. Le responsabilità di questo stato di cose, prolungatosi lungo tutto l’intero secondo dopoguerra, sono da ascriversi a diversi soggetti, ma la scuola e l’università italiana, con i rispettivi paradossi e ritardi, le debite incongruenze e problematicità, rientrano senza dubbio tra questi.

L’impressionante divario culturale tra chi ha tentato di realizzare riforme e modifiche dell’ordinamento e chi sperimenta quotidianamente sulla propria esperienza l’esito di questi tentativi farraginosi e inefficaci è forse il sintomo più evidente della condizione paradossale del sistema educativo italiano nel terzo decennio del ventunesimo secolo.

Non a caso risultano impressionanti i numeri dell’atavico ritardo nazionale nel settore dell’istruzione: secondo i dati Istat del 2020 l’Italia era tra i Paesi più ignoranti d’Europa e presentava livelli di scolarizzazione tra i più bassi dell’Unione europea, purtroppo anche con riferimento alle classi d’età più giovani nonostante negli anni la diffusione dell’istruzione sia considerevolmente cresciuta; nel 2019, nell’Unione europea 27 (senza il Regno Unito), il 78,4 per cento degli adulti tra i 25 e i 64 anni possedeva almeno un diploma secondario superiore, mentre nella nostra penisola l’incidenza era del 62,1 per cento, di oltre 16 punti inferiore[10].

Una scuola per educare lo studente a distinguere nella lettura di un testo tra fatti e opinioni

Inoltre, nel nostro Paese la qualità dell’insegnamento secondario è spesso inadeguata. La scuola non forma, o forma male e pochi, attende da un secolo un’organica riforma, s’identifica nei progetti e in nuove figure di soloni, spesso poco preparati: la didattica è un’ombra pallida e consunta, tutt’altro che rimpianta, se non da chi esercita coraggiosamente coscienza critica e passione per la professione docente, tra le meno retribuite d’Europa; l’università punta sull’internazionalizzazione ma di fatto, tra involuzioni laceranti di natura pedagogica, linguistica, civile e culturale, invita a cercare fortuna all’estero. Segno eloquente non solo di certa nostra cronica esterofilia, ma anche del fatto che la ricostruzione postbellica italiana non è stata finanziata senza un tornaconto di medio-lungo periodo. Tuttavia, vale la pena ricordare che una cosa è produrre, altra educare, cosicché i tentativi di aziendalizzare il sistema universitario italiano dovrebbero essere seriamente contrastati: meglio lasciare il posto alla pianificazione di riforme profonde e strutturali.

I risultati di tutto ciò sono sotto gli occhi di tutti: secondo il rapporto Ocse-Pisa solo uno studente italiano su venti è capace di distinguere tra fatti e opinioni nella lettura di un testo di argomento non familiare[11]. Ci sono poi i problemi delle minori iscrizioni (con 120 mila alunni in meno), dell’abbandono dopo se non prima la terza media e, dunque, di una forte dispersione scolastica, superiore alla media europea[12].

La mancata metabolizzazione di Mazzini e del pensiero mazziniano da parte della cultura italiana dipende anche da questi ritardi. E in questa drammatica condizione la ricerca storiografica deve continuare a suggerire itinerari critici di riflessione e di confronto.

Pensiero e azione

A partire dalla Giovine Italia, associazione politica insurrezionale fondata a Marsiglia nel luglio 1831, Mazzini si era distaccato dall’esperienza settaria e carbonara e aveva adottato una formula politica nuova, aperta a tutti, a vocazione popolare, intrisa di una religiosità laica e tipicamente romantica, nella quale Dio s’identificava con lo spirito intriso nella storia e, da ultimo con la stessa umanità; il perno centrale del riscatto di quest’ultima, per renderla libera e affratellata, era costituito dall’idea di nazione; solo liberati dalle antiche monarchie e uniti in nazioni i popoli avrebbero potuto svolgere la loro missione storica; fortemente critico dell’individualismo settecentesco, Mazzini possedeva della società una visione organica e credeva fortemente nel principio di associazione.

Una caratteristica centrale del suo apostolato era il legame inscindibile fra teoria e prassi o meglio, per usare le sue stesse parole, tra pensiero e azione: nessuna pratica insurrezionale poteva avere senso senza una fede che la ispirasse e, similmente, nessuna teoria rivoluzionaria poteva funzionare senza identificarsi in un’azione concreta e costante[13].

La Repubblica romana del 1849

La Repubblica romana del 1849 costituì la prima e unica esperienza di governo di Mazzini e solo di recente la storiografia ne ha riscoperto origini e significato, non mancando di sottolineare la natura precorritrice del repubblicanesimo democratico in relazione agli sviluppi storici italiani[14].

Dalla Roma quarantanovesca, da lui considerata come il nucleo fondativo della nuova Italia, Mazzini intese parlare al mondo intero e conquistò fama larga e duratura. Il mondo e in particolare l’Inghilterra, dove nei primi anni Quaranta era stato il personaggio più celebre dell’esulato internazionale rifugiato a Londra[15], gli prestò ascolto e interesse.

Quando la Repubblica romana cadde di fronte all’invasione francese (4 luglio 1849), James Stansfeld scrisse che la sua sconfitta era stata «la pagina più brillante e più triste nella storia del movimento italiano», ma anche la più «gravida di conseguenze, di promesse per l’avvenire»; William E. Gladstone, raggiunta Roma qualche giorno dopo la caduta della Repubblica e tutt’altro che simpatizzante per quest’ultima, rimase impressionato dalla mancanza di sentimenti ostili, nei romani, verso il Genovese; Charles Dickens scrisse che Mazzini doveva essere immediatamente riportato nella sua Italia, perché il mondo non poteva «permettersi di perdere uomini come lui»[16].

L’eredità della Repubblica romana: il repubblicanesimo regime più idoneo alla nazione italiana

La Repubblica romana lasciò un’eredità esemplare attorno a cui sarebbe stato costruito di lì a poco un sistema valoriale per il futuro cittadino repubblicano, alternativo a quello dei sudditi dell’Italia sabauda e monarchica. Furono infatti, gli eventi del ’49 a configurare il repubblicanesimo come il regime più idoneo alla nazione italiana; ad individuare in Roma la futura capitale d’Italia; a conferire a Giuseppe Garibaldi il ruolo di guida militare della democrazia italiana; a delineare nella Carta costituzionale più avanzata dell’Ottocento quei principi essenziali che sarebbero confluiti, 89 anni dopo, nella Costituzione della Repubblica Italiana; a porre il mazzinianesimo a forma di governo, offrendo nella direzione di uno Stato italiano, indipendente e repubblicano la prova dello statista di razza, impagabile nel suo diuturno e incessante impegno politico, accorto nelle relazioni internazionali, improntato ad una moderna concezione della libertà e della democrazia e ad un insuperato senso di onestà e di trasparenza nella gestione della cosa pubblica; a rappresentare, con l’eroica resistenza militare di fronte all’invasione di quattro eserciti europei intervenuti in un’ottica legittimista e reazionaria, una grande successo morale sulla strada dell’unificazione italiana e della fine del potere temporale del papa; a segnare una pagina nuova nelle relazioni Stato-Chiesa, aprendo itinerari di politica ecclesiastica che sarebbero stati progressivamente recepiti prima dal Regno d’Italia e poi dalla Repubblica nata il 2 giugno 1946.

Mazzini capo di governo e il nesso inscindibile tra pensiero e azione

Mazzini, durante i suoi tre mesi di vita capitolina, fu un capo di governo che rifiutò di dimorare nella residenza che era stata dei papi e sarebbe stata dei re (il Quirinale), optando per una modesta pensione del centro dove pure consumava i pasti, circondato da cittadini e questuanti.

L’uomo che era giunto a Roma la sera del 5 marzo 1849 e che poi, come deputato e triumviro, aveva orientato la Repubblica sempre più italiana verso la salvezza di quest’ultima e la ripresa della guerra d’indipendenza nazionale non era un personaggio qualunque: il patriota più amato e odiato del Risorgimento, lo spettro delle polizie dell’intero continente, il rivoluzionario pericoloso e temuto da statisti, ideologi e pensatori dei più diversi schieramenti, coniugava, come detto, una profonda aspirazione democratica con una concezione contrassegnata da aspetti mistico-religiosi  e con l’idea di una missione spettante alla nazione italiana: una nazione, intesa come entità culturale e spirituale ancor prima che etnica e territoriale, che avrebbe impugnato la bandiera delle nazionalità oppresse per avviare un generale moto di libertà e di emancipazione da cui sarebbe scaturita un’umanità libera e affratellata. Il perno di questo pensiero era il conseguimento degli obiettivi nazionali (indipendenza, unità, repubblica) attraverso lo strumento dell’insurrezione popolare e le decisioni di un’Assemblea costituente; in questa concezione ideale e unitaria c’era spazio anche per un vivace riformismo in campo sociale ma, rigettando le teorie materialistiche e le tematiche legate alla lotta di classe, Mazzini difendeva il diritto di proprietà come base dell’ordine sociale e puntava sul diritto di associazione per regolare la questione sociale.

Il programma politico: educazione del popolo e superamento delle organizzazioni settarie

Il programma politico mazziniano puntava a un’indipendenza italiana da realizzarsi attraverso l’insurrezione di tutto il popolo, popolo che andava educato politicamente e iniziato all’azione cospirativa attraverso organizzazioni moderne quanto diverse dalle esperienze strategiche e organizzative settarie che avevano caratterizzato i primi decenni dell’Ottocento.

Altro tratto peculiare di questo programma fu, come detto, il nesso inscindibile tra pensiero e azione, tra la fede teorica e la pratica insurrezionale che, orientate verso scopi giusti, mantenevano in sé un valore di testimonianza al di là del successo registrato; ma proprio la coerenza verso tale impostazione portò Mazzini a porre in atto i suoi progetti al di là delle condizioni internazionali, cosicché non solo l’operato ma la sua stessa esistenza risultarono costellati da delusioni e amarezze.

L’etica del dovere, un messaggio di straordinaria attualità anche nel mondo in cui viviamo

L’eredità più grande che Mazzini ha lasciato agli italiani è stato il suo bestseller, Dei doveri dell’uomo, un «libretto» come lo aveva definito[17], che è stato tradotto in un centinaio di lingue (del resto il suo autore era poliglotta) e ha venduto oltre un milione di copie tra 1860 e 1960. Mi sembra opportuno sottolineare con forza il messaggio mazziniano sotteso a quest’opera, un messaggio di grande modernità: gli uomini non devono vivere per sé ma per gli altri e il fine dell’esistenza non consiste nell’essere più o meno felici, ma nel rendere migliori se stessi e gli altri. Un messaggio costruttivo e progressista, laico e profondamente etico e, soprattutto, di straordinaria attualità in un mondo e in una società sconvolti prima dal biennio pandemico e poi dalla guerra alle porte orientali dell’Europa innescata dall’invasione russa dell’Ucraina.

Anche l’Europa dell’anno della prima edizione dei Doveri, il 1860, era un continente instabile e disuguale, reso tale soprattutto dai continui sommovimenti di indipendenza e nazionalità, alcuni dei quali coronati dal successo, altri soffocati nel sangue da una restaurazione superata e non più credibile: le relazioni internazionali, infatti, stavano rapidamente cambiando e si registrava l’emergere di nuovi dinamici interlocutori.

In questa Europa di cui era cittadino a pieno titolo, eppure continuamente inseguito e ricercato dalle gendarmerie dei principali Stati, Mazzini accantonava, pur tenendola in debita considerazione, la teoria dei diritti esaltata dalla rivoluzione francese in poi – e, in particolare, da John Stuart Mill – e incentrava la sua riflessione più sistematica attorno a «un principio educatore superiore», il dovere, una norma etica e di vita che avrebbe guidato gli uomini «al meglio», insegnando loro la costanza «nel sagrificio», vincolandoli «ai loro fratelli senza farli dipendere dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti»[18].

Il 23 aprile 1860 Mazzini mise la sua firma nel suo libro più importante, un libro con cui invertiva i valori proposti dalla rivoluzione del 1789 e avvertiva che l’uomo, per essere libero, non doveva limitarsi a rivendicare i propri diritti, ma riconoscersi in doveri comuni i cui cardini sono Dio, patria e famiglia. La freschezza dei Doveri appare fin dall’inizio, una sorta di preambolo all’Introduzione, in cui il Genovese dedicava l’opera a «voi, figli e figlie di popolo» e parlava, da fratello, della missione del popolo, una missione di «progresso repubblicano» e «d’emancipazione per voi».

Mazzini parlava di amore verso gli italiani, un sentimento maturato tra gli «istinti repubblicani» della madre, che gli aveva insegnato «a cercare nel mio simile l’uomo, non il ricco o il potente», e «l’inconscia semplice virtù paterna» che lo aveva indotto ad ammirare non già «la boriosa atteggiata mezzasapienza», ma la «tacita inavvertita virtù» di sacrificio propria del popolo; è stata la storia a insegnarli come quella italiana «sia vita di popolo» e come il «lavoro lento dei secoli» abbia portato, tra conquiste, usurpazioni e cambiamenti, a preparare la «grande Unità democratica Nazionale». Così, neanche maggiorenne, l’autore si era consacrato al popolo per liberarlo da gioghi storici (l’aristocrazia, la monarchia, il papato, l’occupazione straniera) e, in particolare, da «due piaghe» che contaminano le classi agiate, il Machiavellismo, che allontana il popolo «dall’amore e dall’adorazione schietta e lealmente audace della Verità», e il Materialismo, che trascina gli italiani inevitabilmente, «col culto degli interessi», all’egoismo e all’anarchia. Mazzini intende quindi sottrarre gli italiani «all’arbitrio e alla prepotenza» degli uomini, spingerli a battersi per la «Bandiera del Bene», avversando «il Male, respingendo ogni dubbia insegna, ogni transazione codarda, ogni ipocrisia di capi che cercano maneggiarsi fra i due».

Per sottrarre gli italiani a quelle due «Menzogne», Mazzini dichiara di aver deciso di scrivere «questo libretto», consapevole che la sua voce possa risultare «severa e troppo insistente» nell’insegnare «la necessità del sagrificio e della virtù per altrui», ma pure che «ogni vostro diritto non può essere frutto d’un dovere compiuto»[19]. È un incipit affascinante, certo un po’ manicheo, nel quale la missione esistenziale dell’autore trova consonanza con quella del popolo per la liberazione di vizi atavici e ferite secolari.

Nell’Introduzione Mazzini chiedeva di essere ascoltato con amore «com’io vi parlerò con amore», rimarcando che la sua è «parola di convinzione» maturata attraverso «lunghi anni di dolori e d’osservazioni e di studi». Mazzini sottolineava di voler parlare di doveri perché in una società infelice e illiberale in cui tutti «volontariamente o involontariamente» opprimevano oppure invitavano, a ricercare la felicità, la condizione del popolo era peggiorata, divenendo «più incerta, più precaria»; d’altra parte, nell’ultimo mezzo secolo, la produzione era cresciuta, raddoppiata, il commercio si era esteso e le comunicazioni erano state potenziate, facendo diminuire il prezzo delle derrate. E allora – si domandava Mazzini – perché, visto che l’idea dei diritti era stata generalmente accettata, la condizione del popolo non era migliorata e il consumo dei prodotti era andato ad arricchire «una nuova aristocrazia»? Perché le rivoluzioni hanno recato le principali libertà, ma non i mezzi per esercitare i diritti? Le teorie del benessere e della felicità hanno formato uomini egoisti, «adoratori della materia» e portato «le vecchie passioni nell’ordine nuovo» per corromperlo di lì a poco.

Il dovere come principio educatore

Pertanto c’era necessità di trovare un principio educatore «superiore a siffatta teoria» che guidasse gli uomini al meglio, che insegnasse loro la costanza nel sacrificio, che li vincolasse «ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo e dalla forza di tutti».

Questo principio era, appunto, il dovere e in queste espressioni possiamo rinvenire le ragioni non tanto dell’attualità quanto della modernità di Mazzini.

Problematico e difficilmente etichettabile – durante la sua epoca venne considerato un radicale dai conservatori, un estremista dai moderati e un moderato dagli estremisti, mentre per le «persone di buon senso» era un sognatore completamente privo di senso pratico –, Mazzini è parso moderno per una serie di aspetti:

  1. la diffusione, per primo, delle tecniche dell’organizzazione e della mobilitazione di massa;
  2. l’utilizzo della stampa come principale strumento di propaganda e diffusione delle idee; la necessità di un nuovo assetto politico europeo, che subentrasse a quello uscito dal Congresso di Vienna e tenesse conto dei diritti naturali dei popoli;
  3. la visione internazionale capace di superare la dimensione europea, individuando una stretta interdipendenza tra unificazione politica e integrazione economica;
  4. la questione sociale, con l’assegnazione alla classe operaia di un ruolo primario e propulsivo nella nuova società, nella quale il lavoro, concepito come sviluppo armonico, assumeva un valore morale e ispirava a tutte le classi un profondo senso del dovere;
  5. la concezione del rapporto tra politica e morale, con il sopra citato invito rivolto agli italiani a liberarsi dalle piaghe del machiavellismo e del materialismo;
  6. la creazione di nuove tecniche di comunicazione attraverso l’uso di formule e parole d’ordine sintetiche quanto efficaci (Dio e Popolo, Pensiero e Azione, Unità e Libertà, Ora e Sempre, Dio e l’Umanità, Fede e Avvenire, Libertà e Associazione); e, non ultimi:
  7. l’insegnamento dell’onestà personale e della coerenza politica e, come detto, la sua idea di Europa, intesa come sintesi di culture diverse, e il conseguente monito alla formazione di una coscienza europea, subordinata alla maturazione di un nuovo concetto di nazionalità che fosse in grado di risolvere l’individualità di ciascun popolo in un’identità più vasta.

Le pubblicazioni dell’opera Dei doveri come approdo di un percorso letterario coerente

Dei doveri venne stampato a Lugano – con l’errata indicazione «Londra» – nella seconda metà del 1860, l’anno in cui Mazzini era rientrato dopo un lungo esilio nella penisola (se si esclude una breve parentesi fiorentina sul finire dell’estate del 1859), all’indomani della partenza della Spedizione dei Mille. Il testo riproponeva pressoché immutati i primi quattro capitoli, usciti in Inghilterra nel 1841-42: il resto dell’opera venne portato avanti, attraverso una vicenda editoriale travagliata, tra 1859 e 1860, dalle colonne dei due fogli mazziniani militanti, Pensiero e Azione (Londra 1858-59) e L’Unità italiana (Genova 1860). In forma di libro fu stampato nel 1860 a Lugano, in Svizzera, e in Inghilterra: una seconda edizione si ebbe pochi mesi dopo a Napoli sotto il controllo dell’autore.

Dei Doveri dell’uomo costituisce non solo lo sforzo maggiore di sistematizzare il pensiero mazziniano, ma anche l’approdo di un percorso letterario coerente e continuo: dopo Fede e avvenire (1835), scritto in francese e dalla genesi contrastata ma in cui aveva esposto efficacemente la teoria costruita attorno alla lettura della migliore cultura francese e imperniata sull’accettazione del dovere come norma di fede superiore e indiscutibile[20], e Interessi e principii (1836), pure pubblicato in lingua transalpina e sullo stesso registro dell’opera precedente, Mazzini, arricchito dallo stimolante decennio inglese (1837-47) che gli aveva fornito nuovi suggerimenti e continue discussioni con intellettuali, artisti ed esponenti liberali, democratici e radicali, era giunto con I sistemi e la democrazia. Pensieri (1850) a sottolineare polemicamente la diversità fra la sua dottrina e quelle degli altri principali esponenti della democrazia europea[21]. Tutto ciò conferma come appunto i Doveri costituiscano l’espressione più compiuta di una riflessione tutt’altro che statica e ripetitiva, anzi fortemente sensibile ai mutamenti dello scenario europeo, come rivela il peso sempre maggiore assunto dalla questione sociale, una questione centrale, insieme al problema della libertà politico-civile e alla questione nazionale, nel decennio successivo ai moti rivoluzionari, un decennio decisivo per il destino italiano.

Mazzini e lo Stato unitario monarchico: dall’emarginazione all’Educazione Nazionale degli scritti

Dopo l’Unità nacque tra i mazziniani un nuovo culto della Repubblica che si sviluppò attraverso addentellati rituali e simbolici di cui furono principali espressioni il berretto frigio, il fascio, l’edera, la festa del IX Febbraio: venne inoltre definita la pedagogia del buon repubblicano – il cittadino probo e virtuoso che offriva un proprio contributo a educare le masse ai principi democratici ed egualitari, mentre a quella di Mazzini lo Stato monarchico preferì la monumentalizzazione di Vittorio Emanuele II e Giuseppe Garibaldi e il relativo loro inserimento tra i padri della patria. Emarginato dalla monarchia sabauda, criticato da Francesco De Sanctis, che aveva subito il fascino del suo pensiero in gioventù, riconosciuto da Benedetto Croce nel ruolo di diffusore dei principi di libertà tra i popoli dei diversi continenti, Mazzini venne inserito nel pantheon dell’Italia ufficiale, snaturandone però il pensiero e lo spirito repubblicano, allorché un regio decreto del 13 marzo 1904 stabilì l’Edizione Nazionale degli scritti di Mazzini, terzo italiano a godere di tale riconoscimento dopo Galileo Galilei e Nicolò Machiavelli[22].

La pubblicazione dell’Edizione Nazionale ebbe inizio nel 1906 e venne affidata a una casa di Imola, la Galeati, legata alle cooperative; andò avanti fino al 1943 per un totale di 100 volumi, mentre nella seconda metà del Novecento ne sono usciti altri 11 volumi (1961-98), fra cui 4 di Indici e 5 di Zibaldoni giovanili.

All’epoca del cinquantesimo anniversario dell’Unità, nel 1911, l’inclusione di Mazzini tra i padri della nazione era ormai compiuta, pagando però il caro prezzo di una depoliticizzazione e di un’alterazione del suo pensiero: il Mazzini che veniva divulgato in età giolittiana era l’italiano che si era distinto per sentimento patriottico e capacità di sacrificio.

Dalla prima guerra mondiale al fascismo sino all’eredità mazziniana nell’Italia repubblicana del secondo dopoguerra

Negli anni della Grande guerra Mazzini conobbe una certa risonanza internazionale: in Cina il presidente Sun Yat-sen dichiarò al conte Carlo Sforza – quarantenne diplomatico che era stato già inviato a Pechino, sua quarta missione, nel 1904 – di sentire molto più vicino a sé Mazzini «dei più moderni riformatori europei»; echi mazziniani risuonarono nei primi sommovimenti dei popoli arabi, attraversati nei primi tempi del «loro risorgimento» da un clima di fiducia democratica, e ancor di più in India dove ritratti di Mazzini furono utilizzati alla testa di manifestazioni anti-britanniche diversi anni prima dell’azione di Mohāndās Karamchand Gandhi. Quest’ultimo prestò grande attenzione alle idee di Mazzini – pur divergendo con gli aspetti insurrezionalisti del pensiero e della pratica – che rielaborò studiando le idee e l’impatto che queste avevano avuto in Italia.

Mentre Gaetano Salvemini vide in Mazzini un vinto, un patriota con molti limiti e «un maestro difficile, un maestro esigente», un «vinto» cui sfuggiva la differenza tra rivoluzione e guerra, «un ammasso di contraddizioni e di ingenuità» in relazione all’azione politica, Giovanni Gentile ne distorse il pensiero, interpretandolo soprattutto come «riformatore religioso» per farlo coincidere con le sue posizioni nel clima politico del primo dopoguerra e poi del regime fascista: la manipolazione del mazzinianesimo e la sua trasformazione in viatico a una politica di potenza e di affermazione della nazionalità italiana nello scontro con gli altri Paesi europei, diede vita a una sorta di “opposto” di ciò che era effettivamente stato[23].

Nello Rosselli, Piero Gobetti e Luigi Salvatorelli hanno scritto pagine acute su Mazzini, mentre al suo pensiero sono stati educati i repubblicani e i democratici italiani nell’esilio e nella clandestinità; negli anni compresi tra la Resistenza, nella quale combatterono anche le brigate “Mazzini”[24] e la costruzione della Repubblica democratica, Mazzini venne continuamente citato e ripreso dai principali personaggi politici, da Ferruccio Parri a Palmiro Togliatti, mentre il Partito d’Azione si richiamò ai suoi principi per proporre un radicale rinnovamento del Paese; particolare emozione si è registrata nel 1949 in occasione del centenario della Repubblica romana con Mazzini citato dall’ex premier e studioso mazziniano Ivanoe Bonomi: durante la seduta parlamentare pomeridiana del 9 febbraio 1949, il democristiano e «cattolico militante» Igino Giordani ricordò come Mazzini aveva enunciato il suo programma «di ricostruzione politica e sociale d’Italia e d’Europa», con una chiarezza tale che lo rendeva nella storia dei popoli «uno dei grandi istruttori dell’umanità»; Giordani concludeva così il suo intervento: «Prendiamo da Mazzini l’insegnamento di una fedeltà ai valori spirituali, che nessuna violenza, nessun odio stupido e criminale può distruggere»[25].

Il periodo repubblicano è stato culturalmente dominato da un’interpretazione marxista fortemente critica nei confronti di Mazzini che solo sul finire del secolo ha in parte mitigato l’asprezza dei giudizi verso di lui, e dal peso, anche ingombrante, delle biografie degli studiosi inglesi (in particolare, quella di Denis Mack Smith) cosicché per disporre di nuove biografie scientifiche si è dovuto attendere il primo decennio del ventunesimo secolo[26].

Rileggere il pensiero di Giuseppe Mazzini nel Ventunesimo secolo

Un attento studioso, Sauro Mattarelli, ha sottolineato come Mazzini sia tornato a essere un «facile bersaglio» di falsificazioni e strumentalizzazioni sul piano culturale, storico e propagandistico, oggetto quindi di un’ampia opera di denigrazione, spesso dalla metodologia grossier, determinata da circostanziati motivi; nessuno, tranne gli ultimi mazziniani, ha interesse a difendere Mazzini che è demodé, nel senso che un’etica basata sul dovere e sulla coerenza tra pensiero e azioni compiute è inattuale e risulta fastidiosa ai «potenti di ogni risma»; è il più scomodo tra gli artefici dell’Italia, un personaggio dal pensiero complesso, capace di far paura alle masse «teleguidate» o meglio digital-guidate[27].

Mazzini va pertanto letto, spiegato, reso oggetto di un  confronto dinamico e aperto, capace di coinvolgere ogni cellula della comunità nazionale.

Un esempio concreto lo hanno offerto nel primo semestre del 2022 il Centro Cooperativo Mazziniano “Pensiero e Azione” di Senigallia, una delle realtà culturali maggiormente impegnate nella ricerca storica dell’età contemporanea e da cui è scaturita un’intensa stagione di studi[28] – fondato il 7 dicembre 1948 dall’antifascista, padre costituente e uomo di Stato Giuseppe Chiostergi, il cui archivio storico è stato recentemente recuperato all’Italia dall’Europa e si trova in corso d’inventariazione[29] –, e l’Associazione di Storia Contemporanea i quali non solo hanno realizzato una nuova edizione dei Doveri che, precedentemente citata, si avvale delle belle illustrazioni dell’artista Michele Sperati, ma hanno dato vita a un autentico tour tra alcune province italiane per far conoscere il patriota genovese, il suo pensiero, i suoi lasciti: il tour si è snodato tra scuole di ogni ordine e grado, aule universitarie, archivi, biblioteche, sedi associative e altri luoghi di cultura, ha coinvolto cittadini trasversali sul piano dell’età, tutti interessati ad ascoltare e a colloquiare su un personaggio fondativo della nostra comunità nazionale che andava disincrostato dalle nebbie e dai pregiudizi accumulatisi.

Il tutto si è svolto secondo l’etica pienamente mazziniana: in maniera gratuita (sono state regalate copie dell’edizione in questione), partecipata e dialogica: perché senza il dialogo, il confronto, la comunicazione trasparente e verificabile e il contraddittorio, che sembra far sempre più capolino alle nostre latitudini, non si può intravedere un futuro sereno per qualsiasi civiltà.


[1] Corrado Augias, “Mazzini, il padre scomodo dei diritti di tutti”, La Repubblica, 29 marzo 2022, p. 33.

[2] Simon Levis Sullam (a cura di), Gaetano Salvemini, Mazzini. Con i Doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini, Milano, Feltrinelli, 2022, 305 p.

[3] Con un discorso che ammaliò i costituenti e si concluse, dopo aver annunciato che dopo quella degli imperatori e dei papi era sorta la Roma del popolo, con queste parole: «Io spero, piacendo a Dio, che gli stranieri non potranno più dire quello che molti fra loro ripetono anche oggi, parlando delle cose nostre, che questo che viene da Roma è un fuoco fatuo, una luce che gira fra i cemeteri: il mondo vedrà che questa è una luce di stella, eterna, splendida e pura come quelle che risplendono nel nostro cielo». Le Assemblee del Risorgimento, atti raccolti e pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, Roma 1911, Roma, III, seduta del 6 marzo 1849, p. 573.

[4] Marco Severini, La Repubblica romana del 1849, Venezia, Marsilio, 2011, 223 p. [la citazione è alla p. 48]; ha spiegato bene la posizione mazziniana in relazione alla carta costituzionale, Irene Manzi, La Costituzione della Repubblica Romana del 1849, Ancona, affinità elettive, 2003, 194 p. [si vedano in particolare le pp. 48-49 e pp. 88-89].

[5] Le Assemblee del Risorgimento, cit., III, seduta del 17 marzo 1849, p. 787.

[6] Antonio Polito, “Mazzini 150 anni dopo, cerimonie e mostre”, Il Corriere della Sera, 7 marzo 2022, p. 34.

[7] Paolo Peluffo, La riscoperta della Patria: Perché il 150° dell’Unità d’Italia è stato un successo, Prefazione di Giuliano Amato, Miano, Rizzoli, 2012, 355 p.; il libro era uscito in prima versione nel 2008 (309 p.) in vista dei festeggiamenti del 2011 ed è stato poi aggiornato.

[8] Nunzio Dell’Erba, “Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Storia e Politica”, in Mazzini, Giuseppe, 2013, www.treccani.it

[9] Su questi aspetti sia consentito rinviare, per le citazioni e gli spunti bibliografici, al mio saggio “L’europeismo del patriota esule”, in: Centro Cooperativo Pensiero e Azione,  Da Mazzini ai Trattati di Roma. Percorsi europeisti, a cura di Marco Severini, Senigallia, Pensiero e Azione Editore, 2017, 96 p. [questo saggio si trova alle pp. 13-57].

[10] Istat, Rapporto annuale 2020 – La situazione nel Paese, cap. V, p. 241.

[11] Ilaria Venturi, “Scuola, rapporto Ocse-Pisa: solo uno studente su 20 sa distinguere tra fatti e opinioni”, La Repubblica, 3 dicembre 2019. https://www.repubblica.it/scuola/2019/12/03/news/ocse-pisa-242483497/.

[12]“Scuola, crollano gli iscritti:120 mila alunni in meno e addio alle classi pollaio”, Il Messaggero, 19 aprile 2022, p. 12; Giovanna Maria Fagnani, “Scuola, in Lombardia il 12% degli studenti lascia prima del diploma: maschi in maggioranza”, il Corriere della Sera, 19 aprile 2022.

[13] Raffaele Romanelli, Ottocento Lezioni di storia contemporanea, Bologna, il Mulino, 2011, 366 p. [si vedano le pp. 87-89, pp. 113-114 e la p.137].

[14] Le due monografie che hanno recentemente ricostruito l’epopea repubblicana del 1849 sono M. Severini, La Repubblica romana del 1849, cit., 2011, e G. Monsagrati, Roma senza il papa La repubblica romana del 1849, Roma-Bari, Laterza, 2014: sono due opere differenti, a partire dalle date di pubblicazione, particolare tutt’altro che secondario.

[15] Salvo Mastellone, Introduzione a Giuseppe Mazzini, Pensieri sulla democrazia in Europa, Traduzione e cura di Salvo Mastellone, Milano, Feltrinelli, 2005 (1a edizione, 1997), 164 p. [si veda in particolare  p. 29*.

[16]Marco  Severini, La Repubblica romana del 1849, cit., p. 158.

[17] Marco Severini, La lezione dei doveri mazziniani, in Giuseppe Mazzini, Dei doveri dell’uomo, a cura e con introduzione di Marco Severini, Fano, Aras, 2022, p. 20.

[18] Giuseppe Mazzini, Dei doveri dell’uomo, cit, p. 71.

[19] Marco Severini, La lezione dei doveri mazziniani, cit., pp. 12-14; ho ripreso, in questo ultimo paragrafo, l’introduzione a questo testo cui rinvio per le citazioni e l’apparato bibliografico utilizzato.

[20] Ho ricostruito questo percorso in Piccolo, profondo Risorgimento, Macerata, liberilibri, 2011, pp. 17-32.

[21]Salvo Mastellone, Introduzione a Giuseppe Mazzini, Pensieri sulla democrazia in Europa, cit., pp. 31-37.

[22]Michele Finelli, Il monumento di carta. L’Edizione Nazionale degli Scritti di Giuseppe Mazzini, Rimini, Pazzini, 2004, 144 p.

[23] Telesforo Nanni, “Mazzini nel giudizio di Gaetano Salvemini”, in Mazzini nella cultura italiana, Atti del Convegno di studi – Terni, 27-28 ottobre 2005, a cura di Vincenzo Pirro, Arrone (Terni), Thyrus, 2008, 178 p [il testo è alle pp. 39-53, pp. 46, 52-53 per le citazioni). A questo libro si è aggiunto quello di Simon Levis Sullam, L’apostolo a brandelli: L’eredità di Mazzini tra Risorgimento e fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2010, che giudica Dei doveri un testo «fortemente pedagogico-paternalistico» e ne propone un’interpretazione decisamente riduttiva e limitativa; mancano in quest’opera sia la visione internazionale di Mazzini sia il portato di studi critici rilevanti, come quelli di Rosselli, Salvatorelli, Galante Garrone e Mastellone. Si veda A. Colombo, Non si capisce Mazzini facendolo «a brandelli», in «Corriere della Sera», 30 gennaio 2011, p. 32.

[24] Alessandro Spinelli, I repubblicani nel secondo dopoguerra (1943-1953), Longo, Ravenna, 1998, XIV-260 p.

[25] Marco Severini, La Repubblica romana del 1849, cit., p. 179.

[26]In particolare si vedano Roland Sarti, Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile, postfazione di Sauro Mattarelli, Roma-Bari, Laterza, 2005, 360 p. (1aedizione: 1997) e Giovanni Belardelli, Mazzini, Bologna, il Mulino, 2010, 261 p.

[27] Sauro Mattarelli, “L’attacco a Mazzini”, il pensiero mazziniano, LXV (3) settembre-dicembre 2010, pp. 6-9. L’esperienza posta in essere nei primi mesi del 2022 dal Centro Cooperativo “Pensiero e Azione” di Senigallia e dall’Associazione di Storia Contemporanea, che conta 470 soci in tutto il mondo, può essere considerata una risposta significativa al perdurante oblio su Mazzini: i due enti hanno proposto la nuova edizione dei Doveri, un’edizione critica e illustrata, alle scuole, nelle aule universitarie, nelle biblioteche, negli archivi e in altri luoghi pubblici, intrattenendo con i propri studiosi un pubblico vasto ed eterogeneo per l’età e dialogando con questo pubblico, apparso curioso e desideroso di aggiornare le proprie deficitarie informazioni apprese generalmente sui banchi di scuola.

[28] Lidia Pupilli, “Una felice stagione di studi e ricerche”, in Marco Severini (a cura di), La Repubblica romana del 1849. Discorsi e scritti, Fermo, Zefiro, 2020, pp. 63-71.

[29]Marco Severini, “Il rientro in Italia della biblioteca e dell’archivio Chiostergi”, in AIB-studi, vol. 61 n. 1 (gennaio-aprile 2021), pp. 167-177.

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