Democrazia Futura. L’evento tra comunicazione e vita. Per una mediologia esistenziale

  ICT, Rassegna Stampa
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Guido Barlozzetti
Guido Barlozzetti

La terza parte di questo fascicolo contiene tre sezioni.  La prima A più voci Ancora sugli Effetti della trasformazione digitale e del Covid 19 sull’industria dell’immaginario e sulle (tele)comunicazioni si apre con un saggio di Guido Barlozzetti, “Per una mediologia esistenziale. L’evento tra comunicazione e vita”. A cavallo fra la mediologia e la fenomenologia, tra Marshall Mac Luhan e l’esistenzialismo di Martin Heidegger, il noto conduttore televisivo e scrittore di Orvieto sottolinea nella premessa “Tra il rito e l’inaspettato” come “Appartiene al linguaggio più comune dire di qualcosa che sta per accadere con una forza tale da estrarre dalla normalità di ogni giorno, che è “un evento”. Vi si esprime un’attesa, il bisogno di qualcosa che ecceda la routine e coinvolga tutti. Qualcosa insomma che sta in mezzo tra la realtà di un accadimento e la percezione che se ne ha. […] Ognuno di questi accadimenti è anticipato e si realizza già nell’aspettativa che se ne ha, quale che ne sarà il risultato: “evento” è già il fatto che stiamo lì, tutti, più o meno, in attesa con tutta la tensione che nasce dalla certezza che si verificherà – un vero e proprio countdown – e dall’incertezza di quale ne sarà lo svolgimento effettivo e l’esito”. “L’“evento” – conclude Barlozzetti nella premessa – è una di quelle categorie multitasking che attraversano gli ambiti disciplinari più diversi, il micro come il macrocosmo, gli individui come le società, la religione come la società dello spettacolo”. Su questo filo rosso narrativo si dipana una ricostruzione storica con un approccio che l’autore autodefinisce “mediologico esistenziale” per capire come si genera e si diffonde l’evento che per esistere deve non solo accadere ma essere percepito come tale ed essere condiviso dall’insieme sociale […] che ne spieghi l’intensità del rumore e la potenza dell’impatto. L’autore analizza dapprima ”L’evento nel tempo dei media”; dalla “cronaca radiofonica in tempo reale dell’invasione marziana raccontata da Orson Welles […] ai media event che entravano in un piccolo schermo a dimensione ormai globale con il clamore drammatico di una sorpresa imprevedibile:  il tentato golpe nell’URSS, la fine di Michail Gorbačëv e lo scontro con Boris Eltsin, l’inizio della Guerra del Golfo, l’inchiesta di Mani Pulite,  la discesa in campo di Silvio Berlusconi, il G8 di Genova e l’attacco alle Torri Gemelle”. Prosegue con l’analisi de “L’evento del Digitale”, dove scrive Barlozzetti “si è diffusa la percezione di una confusione urlante, di una competizione che ha per posta la visibilità, che diventa messaggio e prevale sulle distinzioni, sulla capacità di approfondimento competente, sul valore intrinseco del rapporto con gli altri. E con questa, direttamente proporzionale all’intensificazione passionale  e alla reiterazione seriale un’usura della fiducia e dell’attendibilità della comunicazione”.  Meglio ancora dobbiamo parlare di “Evento nel Digitale” dove “non possiamo più parlare di media event, nel senso di testualità aperte e imprevedibili che vengono a invadere l’ordito dei palinsesti generalisti o il menabò dei giornali e producono un effetto e una partecipazione di massa. Intanto – chiarisce Barlozzetti – abbiamo assistito a una tendenza a eventizzare, a trasformare cioè tutto in evento. […] una strategia volta a creare un’attesa ininterrotta, a prendere una notizia della cronaca e a amplificarne l’alone emotivo e il potenziale capace di sostenere una narrazione. Questa insistenza è andata di pari passo con il rischio di divorare sé stessa e, puntando appunto a montare ovunque e comunque l’evento,  di consumarne il differenziale e stressarlo in una successione seriale, senza una gerarchia e indifferente nel contenuto. Sul versante del pubblico, l’esito paradossale di normalizzare e assuefare”. Infine l’autore esamina “Il Super-Evento-Covid”, ovvero “un inedito Super-Evento che ha attraversato fasi diverse e non cessa di proporsi con mutazioni che nella ripetizione complessiva dello stesso frame – il Covid – continuano ad introdurre l’elemento della sorpresa e della imprevedibilità: le varianti che nessuno è in condizione di anticipare, nemmeno fossero spinoff di una serie televisiva, Delta, Omicron, in attesa della prossima puntata che, a differenza di quelle della fiction, nessuno sceneggiatore – in questo caso, lo scienziato – può immaginare”. Con un avvertimento in conclusione Siamo nel flusso-che-si-fa  e, essendo in forse la fede in un’evoluzione creatrice o in una dialettica finalistica, ci resta solo la possibilità di osservare e vedere fino a che punto siano adeguati gli schemi e le categorie con cui proviamo a leggerlo. Sarebbe assai più comodo ritrovarci in un dopo in cui il divenire si è solidificato e dalla fine possiamo ripercorre tutta la genealogia di ciò che è accaduto. E invece siamo in questo presente che però è anche una paradossale occasione che ci mette a disposizione un laboratorio”. Così “il Covid diventa un Superevento che si alimenta e si sviluppa su una contraddizione costitutiva e irrisolta: da una parte un simulacro tanto invisibile e in assenza, quanto totalizzante nella comunicazione: le ambulanze, le immagini sfuggenti delle terapie intensive, i camion con le bare e l’arredo linguistico e comportamentale, le mascherine, la distanza di sicurezza, il lockdown, il tampone, il greenpass, le mani da lavare…; dall’altra la nostra esperienza vissuta che lo rende comunque reale, che ci abbia contagiato o meno, che crediamo o meno alla sua realtà”.

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1. L’evento tra il rito e l’inaspettato

Appartiene al linguaggio più comune dire di qualcosa che sta per accadere con una forza tale da estrarre dalla normalità di ogni giorno, che è “un evento”. Vi si esprime un’attesa, il bisogno di qualcosa che ecceda la routine e coinvolga tutti. Qualcosa insomma che sta in mezzo tra la realtà di un accadimento e la percezione che se ne ha.

Può essere, per fare esempi che appartengono alla comune esperienza, una partita di calcio che conclude una stagione, l’uscita di un film atteso dal pubblico, l’inaugurazione di una mostra d’arte… Un Milan-Inter finale dello scudetto,  il ritorno di 007 in No Time No Die, Raffaello alle Scuderie del Quirinale, la vittoria dei Maneskin all’European Song Contest, quella di Marcell Jacobs nei 100 metri alle Olimpiadi, l’apertura della stagione scaligera con Macbeth… 

Ognuno di questi accadimenti è anticipato e si realizza già nell’aspettativa che se ne ha, quale che ne sarà il risultato: “evento” è già il fatto che stiamo lì, tutti, più o meno, in attesa con tutta la tensione che nasce dalla certezza che si verificherà – un vero e proprio countdown – e dall’incertezza di quale ne sarà lo svolgimento effettivo e l’esito.

Ma il territorio dell’ “evento” non si esaurisce con questa tipologia di accadimenti. Nell’uso del termine entrano altre pieghe semantiche che riguardano qualcosa che non si connota per la rilevanza dei protagonisti e per l’importanza annunciata di un’occasione.

Anche in questo caso sono gli esempi che ci aiutano a capire. Si pensi  all’incidente della Costa Concordia davanti all’Isola del Giglio, allo tsunami che colpisce la centrale atomica di Fukushima, all’attentato terroristico al Bataclàn o all’assalto a Capitol Hill… Accadimenti diversi, che non hanno nessun rapporto l’uno con l’altro e che tuttavia possono essere ricondotti ad un medesimo ambito per la modalità con cui si manifestano. E la prima, sostanziale, differenza rispetto ai precedenti è che nulla li annuncia, irrompono brutalmente e all’improvviso nella quotidianità e risucchiano l’attenzione collettiva con un’immediata e potente forza d’attrazione.

Da un lato, dunque, un’attesa, dall’altro, l’inaspettato, in entrambi i casi una forza centripeta che coinvolge e impone la partecipazione all’ “evento”.

Dunque, nel senso comune, il ventaglio delle occorrenze è esteso e pone subito il problema di ricondurle, se non ad unità, almeno ad una qualche trasversalità una partita e un disastro nucleare, una prestazione sportiva e un simil-Titanic, …

Tutte si raccolgono in uno stesso ambito, tant’è che sono indicate nello stesso modo – eventi, appunto – e tuttavia sono attraversate da una linea di discrimine che le dispone agli estremi di un campo di significazione.

Alcune rimandano, infatti, ad una ripetizione rituale  e a una sorpresa che si  svolge all’interno di una cornice di prevedibilità, non so come finirà la partita ma so che è una partita, chi ne sono i protagonisti, dove e quando si svolge. Non vengono a sconvolgere, semmai rassicurano sia pure con l’alea dell’accadimento in tempo reale che nessuno può prevedere.

Altre, invece, esplodono nell’attualità, con l’energia potente di una rottura dell’ordine esistente, di una trasgressione della norma, di un’infrazione del sistema di attese: imprevedibili nella loro apparizione, nello svolgimento e nella conclusione.

Tanto, insomma, nei primi prevale una cerimonialità che può anche essere sorprendente nello svolgimento, tanto le seconde si caratterizzano per un’epifania perturbante che frantuma il quadro, semmai venendo via via – e compatibilmente con l’indecidibilità dell’accadere – sottoposta ad una ricomposizione rituale che ne padroneggi per quanto possibile l’incertezza e la riconduca a un senso.

Tutta una letteratura ha approfondito lo scarto differenziale tra la ripetizione e la novità e lo ha anche trasferito dall’accadere alla modalità stessa del vivere, su un arco che va da un modello di comportamento basato sulla certezza e la ripetizione/noia a uno che sperimenta l’apertura al caso e l’avventura (1).

L’ “evento” è una di quelle categorie multitasking che attraversano gli ambiti disciplinari più diversi, il micro come il macrocosmo, gli individui come le società, la religione come la società dello spettacolo.

Gli etnologi discutono se esistano società orizzontali in cui la dimensione storica sia quasi assente, bloccate e senza evoluzione, a fronte di società verticali, o con il diagramma di una linea progredente ininterrottamente scheggiata da picchi che la scombinano.

Tutte possono essere collocate in un campo di senso in cui si compongono variamente l’ordine messo alla prova e riconfermato da cerimonie che attengono al regime della ritualità e della riconferma di un ordine simbolico, e una tendenza al disordine e a mettere  in discussione equilibri e assetti che possono riguardare la sia tenuta di un sistema sociale per quello che è, sia il suo rapporto con l’esterno o con l’ambiente naturale.

2. L’evento nel tempo dei media.

Fin qui, a un livello descrittivo e tassonomico.

Manca però ancora un elemento per capire come si genera e si diffonde l’evento che per esistere deve non solo accadere ma essere percepito come tale ed essere condiviso dall’insieme sociale. Insomma, manca qualcosa che ne spieghi l’intensità del rumore e la potenza dell’impatto.

Giambattista Vico (2) ne La scienza nuova  parlava della sensibilità degli antichi e del loro “animo perturbato e commosso”, per esempio da un’inspiegabile manifestazione esterna, come un fulmine che attribuivano all’onnipotenza del supremo tra gli dei. O il tramonto del Sole che non necessariamente tornerà il giorno dopo…

Insomma, l’immediatezza di un evento che atterrisce e fa sentire la fragilità della vita esposta a poteri incontrollabili e arbitrari che possono in ogni momento condizionarla  e addirittura distruggerla.

Quell’immediatezza è molto diversa, ma non necessariamente cancellata, dalla condizione moderna in cui gli accadimenti nascono all’incrocio tra la focalizzazione/amplificazione mediatica e la percezione sociale. La loro realtà fa tutt’uno con il simulacro che ne viene allestito e offerto.

Gli eventi si fanno, cioè, conoscere e montano nell’attenzione grazie al fatto che occupano fino ad invaderlo  lo spazio-tempo dei mezzi della comunicazione. Diventano sempre più inseparabili dai media che li isolano, li definiscono, costruiscono l’alone dell’attesa e li celebrano, oppure li accolgono e ne amplificano l’onda d’urto.

E la loro potenza è tale che possono anche prescindere dalla loro effettiva realtà e rovesciare il rapporto tra realtà e rappresentazione. Basti ricordare la cronaca radiofonica in tempo reale dell’invasione marziana raccontata da Orson Welles che non era altro che la messa in scena di The War of the Worlds di Herbert G. Wells.

Era il 1938 e il pubblico non capì la differenza e prese come realistico il racconto di un radiodramma, esemplare dimostrazione di come il medium potesse diventare il messaggio e fondarne la realtà.  In diretta, abolendo anche lo scarto temporale a cui è costretta la stampa, almeno nella storica versione del giornale. 

Ecco la novità. Con i media elettronici milioni di persone possono partecipare in tempo reale a qualcosa che si sta svolgendo in quel momento e che ha caratteristiche – sociali, culturali e ambientali – per essere condiviso e un potenziale narrativo e passionale da poter coinvolgere non solo e non tanto gli individui che fanno parte di una società quanto gli spettatori e  cioè i destinatari di un processo di comunicazione adeguatamente pianificato e costruito, definiti nel loro profilo di partecipanti ad uno spettacolo.

È dunque un rapporto di strutturale corrispondenza e funzionalità che lega media ed eventi. E questo rapporto va colto nella compresenza ambigua delle sue direzioni, nel punto di contatto tra il dispositivo della comunicazione e la complessità di un soggetto: attese, fragilità, desideri, paure…

Abbiamo citato la provocazione di Orson Welles. Tanto tempo è passato e il percorso dei media ha subito un’accelerazione che alla radio ha affiancato la televisione, l’uno e soprattutto l’altra che scoprono ben presto, accanto alla dimensione orizzontale dei palinsesti, la forza eversiva e aggregante degli eventi. Al punto che una linea sociologica ha introdotto la categoria del media event per indicare queste isole narrative che sospendono la programmazione ordinaria, nascono nella dimensione del villaggio cosiddetto globale e all’intersezione di un negoziato tra chi organizza, chi trasmette e il pubblico.

Sono  stati Daniel Dayan e Elihu Katz (3) ad averne formalizzato il concetto e distinto le tipologie: la Competizione (in particolare nello sport e nella politica), la Conquista (il primo uomo sulla Luna, i grandi viaggi del Papa) e le Incoronazioni (l’archetipo del matrimonio tra Carlo e Diana, le beatificazioni, i funerali di governanti importanti).

Nei media event si esalta il potere produttivo della televisione che li genera in quanto tale, si pone a istanza di legittimazione di poteri e personalità, e si configura come spazio simbolico. In quelle circostanze, si esce dalla routine e il piccolo schermo assume un valore supplementare di senso che sposta l’ambiente domestico in quello di una chiesa.

Questa classificazione risale ormai al 1987.

In linea con quanto detto all’inizio e guardando a ciò che accadeva nella televisione a cavallo tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo secolo, mi è sembrato fosse arrivato il momento di integrare nella nozione del media event anche quelli – come accennato all’inizio – che entravano in un piccolo schermo a dimensione ormai globale con il clamore drammatico di una sorpresa imprevedibile (4):  il tentato golpe nell’URSS, la fine di Michail Gorbačëv e lo scontro con Boris Eltsin, l’inizio della Guerra del Golfo, l’inchiesta di Mani Pulite,  la discesa in campo di Silvio Berlusconi, il G8 di Genova e l’attacco alle Torri Gemelle.

Eventi che, dall’uno all’altro, sovrapponevano la cronaca in diretta alla Storia e spostavano la dimensione quotidiana nel crogiuolo di una Storia – ma quale? – che si fa in diretta.

Una condizione inedita e sconvolgente che ha messo lo spettatore a contatto diretto con il farsi di un accadimento che – quali che fossero le successive contestualizzazioni –  si iscriveva nella sua esperienza e gli dava il potere ubiquo di assistere da casa a guerre, golpe, rivoluzioni, catastrofi ambientali, svolte traumatiche e novità della politica, attentati dalle proporzioni immani…

In tutti, la potenza di un coinvolgimento in una temporalità aperta, vissuta momento dopo momento, sempre sul bordo indecidibile di ciò che sta per succedere: quando arriveranno i bombardieri su Baghdad? E cosa succederà nella sala del Parlamento di Mosca tra Michail Gorbačëv e Boris Eltsin? E, a Genova, all’improvviso, il corpo di Carlo Giuliani a terra e, ancora, lo sgomento di fronte ai feriti portati fuori dalla scuola Diaz. E mentre una delle Torri è già stata colpita, ecco un aereo che entra nel quadro e si schianta sull’altra e l’attesa di un crollo  irreversibile… 

Ecco, le Twin Towers. Karl Heinz Stockhausen, compositore illustre di una destrutturata musica moderna, parla di un’emozione estetica, “La più grande opera d’arte mai realizzata”.

Ricordo quel giudizio per sottolineare come la scala impensabile di quell’evento lo spostasse non solo dalla cronaca alla Storia, ma addirittura  sul piano di una rivelazione in cui lo sgomento di fronte alla catastrofe cedeva alla contemplazione affascinante di una Bellezza e dunque come nell’elettrodomestico televisivo si aprisse un varco che andava oltre il rapporto con la sorpresa tremenda delle immagini e restituiva lo sguardo alla visione di qualcosa di assoluto, a una creatività tragicamente primigenia, oltre appunto la convenzionale normalità in cui le immagini si susseguono, conciliate, in un flusso.

Le Torri Gemelle ferite restituivano l’immagine al mistero che la realtà rimuove da sé, introducevano lo scarto  dell’aleatorietà e del limite consustanziale alla vita.

Potremmo, su questa base, fare anche un passo in più e dire che l’Evento ha a che fare con la percezione del tempo e con la dimensione esistenziale che, nella mancanza che la contraddistingue, nell’esserci di cui parlava Martin Heidegger (5) oscilla tra la ricerca di una rassicurazione e il progetto, vale a dire l’apertura al possibile e alla sua ricchezza sconvolgente e ricreante. Oppure, se volessimo guardare alla seconda parte del suo pensiero, all’oscillazione tra l’ente che solidifica e l’apertura all’essere che poi viene a coincidere con l’essere che si pensa e si apre allo svelamento di sè stesso. All’evento, Ereignis,  dell’Essere che, tornando all’inizio, si riappropria di sé.

Potremmo anche non seguire Heidegger nella sua battaglia contro la metafisica e l’oblio dell’essere nel trionfo della Tecnica e della riduzione del mondo nel segno dell’utilità e del calcolo, e però questo riferimento ci consente comunque di disegnare un orizzonte della riflessione sull’evento e di svolgerla alla luce di un passaggio complesso e decisivo.

3. L’Evento del Digitale.

Abbiamo elencato alcuni eventi mediatici e ricordato il loro impatto nella e oltre la televisione.

Non so se sia azzardato dire che sono stati gli ultimi media event.

Per due motivi. Il primo, perché appartengono all’ultimo tempo dei media nel senso tradizionale con cui si sono sviluppati e sono stati vissuti nella modernità: il giornale, il cinema, la radio e la televisione.

Evito di ripetere che non si tratta di una successione ma di un cammino che s’intreccia con quello di una società che sposta la sua centralità dalla campagna alla metropoli e dei media fa il suo sistema di relazioni, la nuova piazza dello spettacolo, dell’informazione e della cultura (nella sua valenza stretta – la varietà dei saperi, le espressioni dell’arte – e in quella larga socio-antropologica).

L’altro, perché dopo di quegli accadimenti e alcuni altri che li hanno seguiti – dalla strage della scuola di Beslan allo tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano al maremoto e al disastro della centrale nucleare di  Fukushima – finisce il tempo dei media trasversalmente accomunati nello statuto analogico, legati cioè alla materialità di un supporto  – la stampa del giornale, la pellicola del cinema, il tubo catodico della televisione – alla corrispondenza di un segnale con il fenomeno che lo genera.

Diluito nella percezione, nella successione di alcune svolte che hanno riguardato gli standard di trasmissione, nel passaggio graduale e composito dallo spettatore all’utente, i media event sono andati a ricostituirsi nel nuovo orizzonte del digitale e di una tecnologia numerica in grado di riprodurre allo stesso modo parole, suoni e immagini.

Sono cioè transitati in un contesto che ha costituito, sul piano del sistema della comunicazione e del suo rapporto con la vita, l’evento che  segnato una radicale discontinuità ha comportato un cambio di paradigma che investe il rapporto tra tecnologie e vita o se si vuole tra il senso di una vita immersa in un dispositivo tecnologico totalizzante.

Questo evento  si è dato con alcuni tratti costitutivi:

  • un processo sorprendente e pervasivo, di per sé trainato da una continua innovazione;
  • una trasversalità che ha ricostituito i media tradizionali e li ha ricontestualizzati in un ambiente nuovo, accessibile con una serie di dispositivi interconnessi e differenziati per modalità d’uso e per funzionalità;
  • una capacità inarrestabile di interfacciarsi con le funzioni e le attività di ogni giorno, parallela a quella di ricostituire nella dimensione on line il mondo del lavoro e dell’intrattenimento, e di tradurvi lo spazio-tempo analogico del commercio e dell’economia;
  • una connessione a tempo pieno gestibile in mobilità e in un rapporto d’interattività;
  • la trasformazione dell’utente in risorsa produttiva, grazie alla profilazione dei dati relativi e dunque alla possibilità di ottimizzare la circolazione e lo sfruttamento dei dati che lo riguardano.

Questi tratti circoscrivono un paradigma nuovo, sul bordo diveniente in cui si toccano e si riconfigurano un prima e un dopo.

Per stare all’aspetto che qui ci interessa, in questa cornice si sono intrecciati  alcuni fenomeni significativi  di un passaggio in cui, da un lato, i media tradizionali sono stati chiamati a riconvertirsi e intanto si sono difesi alzando la posta per difendere l’ascolto o la tiratura, dall’altro, la rete ha risucchiato il territorio tradizionalmente presidiato dell’informazione e lo ha investito con un cambiamento radicale dei modi di produzione, distribuzione e consumo.

Distinguiamo i due ambiti soltanto per capire, essendo evidente che sono presi in un processo unitario in cui alle difficoltà corrispondono gli avanzamenti, alle resistenze gli spostamenti.

Sul primo versante, si è quindi accelerata una tendenza all’eccesso, volta a difendere il territorio e a catturare l’attenzione più larga possibile.

Ogni giorno, un titolo sparato come definitivo e assoluto in prima pagina o –  in una televisione con una moltiplicata disponibilità di canali –  la necessità di forzare toni e spostare il perimetro del galateo, per esempio con i reality e i talent-show o con  talk-show assortiti con ospiti belligeranti in modo da produrre picchi conflittuali al volume più alto possibile.

Insomma, la Iper-notizia e il Rumore, l’enfasi che gonfia le news, e il clamore che gioca sulle componenti passionali dell’ascolto.

Sto generalizzando, è evidente che il quadro risulta articolato e che le modalità sono variamente declinate, ma gli effetti sono evidenti. In particolare, si è diffusa la percezione di una confusione urlante, di una competizione che ha per posta la visibilità, che diventa messaggio e prevale sulle distinzioni, sulla capacità di approfondimento competente, sul valore intrinseco del rapporto con gli altri. E con questa, direttamente proporzionale all’intensificazione passionale  e alla reiterazione seriale un’usura della fiducia e dell’attendibilità della comunicazione.

Quanto alla rete, avanza con l’inerzia inarrestabile della sua pervasività e della ricchezza delle navigazioni che mette ciascuno in condizione di sentirsi padrone delle sue scelte e dei suoi percorsi. Mi sposto da un sito all’altro oppure entro nel circuito dei social in cui, senza mediazioni e filtri di competenza, posso dire la mia su qualunque argomento e partecipare da protagonista alla formazione di un’opinione social che diventa a sua volta notizia e alimenta il circuito. Conseguenza, la stessa notizia vede erodersi il fondamento analogico, il rinvio a una qualche realtà e viene sottoposta allo statuto indecidibile del digitale. Dove, per sintetizzare, non conta la sostanza ma tutto è simulazione ed effetto.

È importante sottolineare la percezione che l’utente ha di un suo protagonismo personalizzato e sottolineare come essa si presenti come il versante soggettivo di un dispositivo. Vale a dire che ci troviamo alle prese con un Giano bifronte che registra, controlla, cataloga, in una parola, profila tutti i comportamenti, le scelte, le preferenze di ciascuno e, ininterrottamente, retroagisce su di essi con un marketing iper-individualizzato.

4. L’Evento nel digitale.

Cosa ne è dell’evento in questo scenario complesso, diffratto e in divenire?

Certamente, non possiamo più parlare di media event, nel senso di testualità aperte e imprevedibili che vengono a invadere l’ordito dei palinsesti generalisti o il menabò dei giornali e producono un effetto e una partecipazione di massa.

Intanto, abbiamo assistito a una tendenza a eventizzare, a trasformare cioè tutto in evento. Non solo quelli che potremmo ricondurre alla doppia tipologia sopra ricordata – l’assalto a Capitol Hill, l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, la petroliera che s’incaglia nel Canale di Suez, la caduta di Kabul, l’addio della Cancelliera Merkel … e i Maneskin a Sanremo e poi in Europa, l’avventura della Nazionale agli Europei, le Olimpiadi, la morte e i funerali di David Sassoli… – ma una strategia volta a creare un’attesa ininterrotta, a prendere una notizia della cronaca e a amplificarne l’alone emotivo e il potenziale capace di sostenere una narrazione.

Questa insistenza è andata di pari passo con il rischio di divorare sé stessa e, puntando appunto a montare ovunque e comunque l’evento,  di consumarne il differenziale e stressarlo in una successione seriale, senza una gerarchia e indifferente nel contenuto. Sul versante del pubblico, l’esito paradossale di normalizzare e assuefare.

Si prenda, per fare un esempio, la  scomparsa di Raffaella Carrà che riempie i palinsesti di un flusso di repertorio e testimonianze, fino a Rai1 che manda in onda in prima serata le puntate di Carramba! Che sorpresa, come se il corpo-simulacro di Raffaella resuscitasse e continuasse a vivere nel suo luogo, e cioè in televisione.

Una piena così invadente e ripetitiva che dilata l’elaborazione del lutto dal giorno della scomparsa fino a quello del funerale e via via muore di sè stessa, più aggiunge, più toglie, con il risultato paradossale che un attimo dopo… non se ne parla più. Finito, basta, eccesso di rammemorazione che produce silenzio.

Fin qui il panorama, sia pure estremizzato, sembrerebbe ancora prossimo a quello tradizionalmente televisivo, in realtà l’evento che certo nella televisione generalista trova ancora una dimensione comunitaria, si genera e prolifera sul bordo o ancor più nell’ambiente ormai strutturale della rete.

Il suo, infatti, è un corpo mutante che si espande nei siti che ripropongono immagini e contributi, nei post dei social, nelle foto, nei commenti che non si limitano a una chiosa ma fanno massa e partecipano attivamente all’accadimento, entrano nel negoziato del suo significato e si rivalgono sull’evento stesso. L’ambiente della rete fa diventare l’evento un ambiente di interrelazioni. Non solo, ma la rete può assurgere a soggetto collettivo che diventa un attore che interviene nell’orientarlo e nel prolungarlo.

Anche in questo caso, con una fenomenologia ambigua. Da una parte, il fandom che estende e riarticola la testualità di una serie televisiva fino a trasformarla nelle galassie in espansione degli ecosistemi narrativi (6). Dall’altra, il ruolo che siti e social giocano, ancora per esemplificare, nella campagna elettorale per le presidenziali americane del 2019, non solo come cassa di risonanza, ma spazio attivo di costruzione/diffusione del consenso nei confronti dei candidati. Con un deus ex machina nel back stage costituito dall’algoritmo che, orientato dai poteri interessati, lavora, pianifica, costruisce destinatari e adegua la comunicazione. A ognuno l’evento che si aspetta e che desidera. Libero ognuno di partecipare e personalizzarlo, nella cornice eterodiretta di un’eco-chamber in cui si trova solo quello che ci si aspetta e cade qualunque discrimine tra vero e falso (7).

5. Il Super-Evento-Covid

E poi venne il Covid. Con tutte le caratteristiche per essere considerato un evento: improvviso e imprevedibile, anche nell’annuncio che ne ha da subito catalizzato l’attesa e l’ha orientata verso un thriller invisibile e minaccioso come nessun altro.

È arrivato attraverso la televisione all’inizio del 2020 ed … è ancora in corso. Per questo, per l’impatto e per la durata, possiamo parlarne ormai come di un inedito Super-Evento che ha attraversato fasi diverse e non cessa di proporsi con mutazioni che nella ripetizione complessiva dello stesso frame – il Covid – continuano ad introdurre l’elemento della sorpresa e della imprevedibilità: le varianti che nessuno è in condizione di anticipare, nemmeno fossero spinoff di una serie televisiva, Delta, Omicron, in attesa della prossima puntata che, a differenza di quelle della fiction, nessuno sceneggiatore – in questo caso, lo scienziato – può immaginare.

Dunque, il Covid è stato e continua ad essere vissuto in una continuità  da serie televisiva che va avanti stagione dopo stagione e non accenna ad avere una conclusione, con picchi drammatici, nella prima fase specialmente, le restrizioni fino al lockdown, poi una pausa estiva e una ripresa invernale, secondo un andamento oscillatorio che nell’attualità vede riacutizzarsi il contagio in proporzioni quantitative imprevedibili, ancorché – sembra – con una minore virulenza.

Insomma, un Super-Evento/serie che ha fatto tutt’uno con l’ambiente mediatico al punto che qualcuno ha parlato di infodemia (8) per sottolineare la collocazione egemonica che ha assunto nell’agenda dei media e, al tempo stesso, il devastante effetto che questa concentrato di attenzione ha avuto sul piano della percezione del pubblico.

Il Covid, in questo senso, è venuto ad accentuare/amplificare le routine, con le relative perversioni, di quel sistema ibrido che agglomera media e rete. Il sistema lo ha assunto cioè a super-frame e ha svolto fino in fondo tutta la contraddizione tra informazione e spettacolo, vero e falso, in ciò agevolato da un fenomeno di cui la Scienza, non avendo un paradigma consolidato e affidabile, è stata costretta a rincorrere in tempo reale l’evoluzione, prevedendo nei limiti del possibile e sottoponendo necessariamente a verifica post festum ogni conclusione.

Tutti continuiamo ad assistere a un super-talk-show dilagante da una rete all’altra in ogni fascia oraria, che ha certamente riportato attenzione sulla dimensione generalista della tv  e in cui si è venuto ad estremizzare un trend che conoscevamo:

  • si è imposto un copione con al centro la nuova star del Virologo – ultima figura dell’Esperto –  che si è moltiplicato in una squadra di sembianti, ognuno dei quali autorizzato dal titolo a dare un parere che il pubblico ascolta con l’attenzione che si deve in una questione che riguarda la vita. Questa moltiplicazione è discesa dalla logica conflittuale del talk-show ed è stata enfatizzata dalla ricerca esasperata da parte di ciascuna emittente di costruire un parterre che potesse accendere un contraddittorio il più aspro possibile;
  • la pluralità quasi mai disciplinata e governata, facilitata anche dall’incertezza prudente della scienza e dall’evolvere imprevedibile della pandemia, ha fatto sì che la quantità overdose dell’informazione e l’affastellarsi di sentenze incompatibili generassero un effetto di spaesamento e addirittura di rifiuto: lo stesso fenomeno che si è registrato per la politica i cui rappresentanti sulla scena mediatica sono stati percepiti senza differenze, tutti accomunati nell’esteriorità di uno scontro in cui l’immagine, l’abilità oratoria o la simpatia hanno finito per prevalere sui contenuti. Effetto confermato dal fatto che nel match ai Virologi si sono aggiunti esponenti degli schieramenti politici;
  • un’ulteriore fase del talk, che ha ancor più disorientato, è stata quella che ha messo in scena la controversia tra vax e no-vax, tra scienza e negazionismo, con il dibattito annesso se fosse legittimo o meno dare voce alle voci del dissenso, incerti tra libertà d’espressione e il rischio di legittimare posizioni aberranti;
  • infine, il paradosso proprio della visibilità televisiva dell’attenzione a una situazione specifica che nella sua singolarità rischia di venire generalizzata: si pensi alla ricerca del “paziente zero”, dell’untore da cui è disceso il contagio e la continua, ossessiva, focalizzazione sui più diversi casi individuali offerti dalla cronaca a proposito delle reazioni ai vaccini, con un’insistenza e un’accentuazione emotiva sproporzionata rispetto alla totalità dei casi.

Accanto ai talk, nella intensificazione dell’emergenza, si è sviluppata una linea seriale in cui la televisione ha ospitato direttamente il potere politico, almeno quanto il potere politico ha avvertito la necessità di utilizzare il medium per rivolgersi ai cittadini e comunicare sia lo stato delle cose, sia i provvedimenti via via assunti: un contatto “faccia a faccia”, reiterato nel caso del premier Giuseppe Conte, più sorvegliato e distillato dal presidente Mario Draghi, con stili di comunicazione completamente diversi. Senza entrare nelle polemiche che hanno riguardato la decretazione emergenziale adottata dal governo e lo “stato d’eccezione” che avrebbe imposto, è il caso di rimarcare questi sotto-eventi, annunciati e attesi, andati in onda nell’orario di massimo ascolto della sera: il potere che si presenta con la figura del Presidente del Consiglio, più diretto con Conte, con la modalità della conferenza-stampa nel caso di Draghi, e parla al Paese.

E poi la rete. Non si è aggiunta ed è stata usata in modalità diverse che dicono di un  potere pervasivo e dell’ambiguità strutturale che la caratterizza:

  • infrastruttura essenziale per la raccolta e l’elaborazione dei dati da parte delle amministrazioni, che ha prodotto il Bollettino quotidiano – un altro pilastro seriale dell’evento-Covid –  e  gli elementi su cui basare i provvedimenti delle istituzioni: perché non vederlo anche come un grande gioco di simulazione diventato una quotidiana coazione a ripetere?
  • interfaccia essenziale per lo smart working, il lavoro a casa, e per la didattica a distanza nella scuola, con problemi che hanno evidenziato l’arretratezza della cablazione e il digital divide nel nostro Paese;
  • strumento e superficie di contatto e connessione essenziale per tutta la galassia dei no-vax che lo hanno usato per la circolazione e la condivisione delle informazioni, per costruire un luogo identitario e fare proselitismo, indire manifestazioni e flash mob, diffondere una contro-informazione su cui si è allungata l’ombra dell’echo-chamber. In ogni caso, un livello fondamentale a sostegno delle proteste, un’altra linea seriale di sotto-eventi culminati nelle manifestazioni dei portuali di Trieste e nell’assalto alla sede della CGIL a Roma.

Siamo ancora dentro il superevento Covid, sostenuto e alimentato dall’incertezza degli sviluppi e delle prospettive. Ogni giorno esposti a una quantità di messaggi che è difficile se non impossibile ricomporre in una cornice unitaria che consenta di assumere comportamenti coerenti che diano una qualche sicurezza.

E dobbiamo constatare come la drammaticità dell’emergenza abbia spiazzato gli attori e accentuato contraddizioni già operanti.

Stiamo verificando come la  straordinaria capacità di comunicazione del sistema rischi di diventare un boomerang e di farlo implodere su sé stesso, e come gli attori dell’evento si siano fatti trovare largamente spiazzati all’appuntamento: la Politica, la Scienza, l’Informazione hanno manifestato gravi e preoccupanti difficoltà nella capacità di costruire processi di comunicazione chiari, univoci e autorevoli.

E ciò è accaduto sia per la debolezza strutturale di ciascun ambito unita al labirinto confuso del sistema della comunicazione, unificato  solo dalla potenza indifferente e al tempo stesso variamente orientata dell’algoritmo, sull’ambiguo punto di contatto tra tecnologie e poteri. 

Sarebbe facile dire che il superevento-Covid ha rivelato la mancanza di un orizzonte comune che tenesse insieme comportamenti, linee d’azione, obiettivi e pratiche.

Lo sapevamo già che il tempo dei Grandi Racconti era finito, che la democrazia non poteva reggersi solo sul simulacro idealizzato di se stessa, che la Metropoli simbolo dell’età classica dei media si era spostata nella frammentazione puntiforme, nell’ibrido di media generalisti esausti e di una rete in cui le promesse idealistiche di libertà e autodeterminazione celavano in controluce la realtà di controlli invisibili e di traiettorie tangenziali in cui andavano a (s)comporsi in modo imprevedibile le relazioni tra l’individuo e la società, l’identità e l’alterità, impossibili da ricondurre a una qualche mappa.

In questa assenza di quadro assistiamo a una diaspora convergente di fenomeni:

  • una Politica che tenta di ri-centralizzare il proprio ruolo e al tempo stesso fatica ad avere un radicamento identitario;
  • un corpo sociale scisso fra condizioni individuali le più diverse, fra le situazioni familiari – nella loro più diversa e scomposta fenomenologia – prese in un lockdown che rischia di diventare psico-antropologico, e le isole fluttuanti e agguerrite dei social;
  • la deriva dei saperi che non da oggi vedono fibrillare i fondamenti e, lontani da ogni positivismo, si muovono su percorsi scheggiati e avventurosi, remota essendo una ricomposizione. Tutto ciò a fronte di un mito della Scienza, ossimoro diffuso la cui credibilità è stata largamente minata dal Covid .

Non sono – va ribadito – giudizi di valore, è piuttosto la descrizione di un panorama rispetto a un prima e a un qui-e-ora, nel mezzo di un Supervento che ha funzionato da shaker radicale e che continua a collocarci all’interno di un movimento in divenire.

Siamo nel flusso-che-si-fa  e, essendo in forse la fede in un’evoluzione creatrice o in una dialettica finalistica, ci resta solo la possibilità di osservare e vedere fino a che punto siano adeguati gli schemi e le categorie con cui proviamo a leggerlo.

Sarebbe assai più comodo ritrovarci in un dopo in cui il divenire si è solidificato e dalla fine possiamo ripercorre tutta la genealogia di ciò che è accaduto. E invece siamo in questo presente che però è anche una paradossale occasione che ci mette a disposizione un laboratorio.

E allora, a questo punto del discorso, è il caso di richiamare l’attenzione su una differenza che segna il Superevento-Covid, l’incastro con la quotidianità di una vita messa direttamente a rischio da un’alterità tanto invisibile, quanto prossima, addirittura in ogni istante minacciosa di un contagio. Invisibile ma così potente da distruggere il supporto analogico, il corpo, della vita stessa.

Ecco dunque che il Covid si colloca su un bordo inedito, sospeso fra la bolla dei discorsi che se ne fanno, nella cornice piena, frastagliata e molteplice prodotta dal sistema della comunicazione, e la nostra esposizione, diretta e personale, in cui ogni parola, ogni immagine,  commento, post, messaggio … modulano la nostra percezione e la indirizzano nelle intenzionalità più diverse.

Ognuno variamente collocato – mai definitivamente – lungo tutto l’arco che va da una certezza al suo contrario, fra la fede – perché di questo si tratta- nella Scienza e il Consenso alla decisioni della Politica, e il rifiuto di tutto questo, per i motivi più diversi: perché quelle Autorità avevano già perso legittimazione, perché in una società senza ombrelli protettivi si accentuano le pulsioni che troppo semplicisticamente sbrighiamo via come irrazionali, perché la pulsione alla sopravvivenza che porta a dare comunque fiducia alle prescrizioni di chi governa, si mescola a quella opposta che sospinge nell’abisso oscuro, ma ben presente dell’inconscio, di Thanatos.

Anche per questo il Covid diventa un Supervento che si alimenta e si sviluppa su una contraddizione costitutiva e irrisolta:

  • da una parte un simulacro tanto invisibile e in assenza, quanto totalizzante nella comunicazione: le ambulanze, le immagini sfuggenti delle terapie intensive, i camion con le bare e l’arredo linguistico e comportamentale, le mascherine, la distanza di sicurezza, il lockdown, il tampone, il greenpass, le mani da lavare…;
  • dall’altra la nostra esperienza vissuta che lo rende comunque reale, che ci abbia contagiato o meno, che crediamo o meno alla sua realtà.

Kabul è lontana, Biden è oltre oceano, i migranti sono bloccati al confine remoto tra Polonia e Bielorussia, e invece il Covid è qui ed è un gomitolo in cui si aggrovigliano il linguaggio e la realtà.

Se questo è il quadro incorniciato da una Parola che si dà come Significante di qualunque catena di significati, ecco che il suo evento si impone sia a livello simbolico – il Significante, appunto – sia nell’immaginario, abbiamo visto quanto plurale e composito, di tutti e di ciascuno e come Reale, in quanto tale impossibile e indicibile.

Conclusioni. L’esigenza di una mediologia esistenziale

Per questo, avviandoci alla conclusione, ci sembra interessante richiamare all’esigenza di una mediologia esistenziale.

Che il Covid/Supervento non sia venuto ad annunciare o comunque che non sia la frattura che schiude nell’esistenza la percezione dell’altrove che spiega la instancabile ricerca di un senso e l’impossibilità di raggiungerlo?

Slavoj Zizek distingue (9) tra un approccio trascendentale all’evento e uno ontologico, come a dire Immmanuel Kant da una parte e Heidegger  dall’altra, il criticismo di contro all’oblìo dell’Essere. Che, fra virologi sentenziosi e l’ultimo tampone, nell’orgia di una comunicazione sul vuoto, il Covid non sia un invito a (ri)percorrere il bordo che separa l’esistenza dal suo significato?

Note a fine testo

(1) Vladimir Jankélévitch, L’aventure, l’ennui, le sérieux, Paris, Aubier éditions Montaigne, 1963, 224 p. Traduzione italiana L’avventura, la noia, la serietà, Genova, Marietti, 1991, 183 p. Poi Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 2018, XXVII-193 p. ; Jean Starobinski, « L’ordre du jour », Le Temps de la réflexion, Paris, Gallimard, IV (4) 1983, 472 p il teso è alle pp. 101-125*. Traduzione italiana di Carlo Gazzelli: L’ordine del giorno, Genova, Il Melangolo, 1990, 76 p.

(2) Giambattista Vico, Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni secondo l’edizione del 1744i, in Opere, a cura di Paolo Rossi, Milano, Rizzoli 1959, 918 p. il passo citato è a  p. 101].

(3) Daniel Dayan, Elihu Katz, Media events. The live broadcasting of history, Cambridge, Massachussets – London,  Harvard University press, 1992 XI-306 p Traduzione italiana di Stefania Di Michele: Le grandi cerimonie dei media. La storia in diretta, Bologna, Baskervile, 1993, 282 p.

4) Guido Barlozzetti, Eventi e riti della televisione. Dalla Guerra del Golfo alle Twin Towers, Milano, FrancoAngeli, 2002, 270 p.

(5) Martin Heidegger, Sein und Zeit, «Jahrbuch fur Philosophie und phänomenologische Forschung», VIII, Halle, Niemameyer Verlag, 1927, 438 p. Traduzione italiana di Piero Chiodi condotta sull’undicesima edizione: Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1988, XXXIX- 558 p. Prima traduzione italiana: Milano-Roma, Bocca, 1953, 455 p.

(6) Guglielmo Pescatore (a cura di), Ecosistemi narrativi. Dal fumetto alle serie tv, Roma, Carocci, 2018, 271 p..

(7) La letteratura su questo fenomeno è ampia e il dibattito è aperto, una sintesi dei problemi in Walter Quattrociocchi, Antonella Vicini, Misinformation. Guida alla società della disinformazione e della credulità, Milano, FrancoAngeli, 2016, 172 p. 

(8)Marco Ferrazzoli, Giovanni Maga, Pandemia e infodemia. Come viaggia il virus dell’informazione, Bologna, Zanichelli, 2021, 232 p.

(9) Slavoj Žižek, Evento, Traduzione dallo sloveno di Edoardo Acotto Torino- Novara, Utet – De Agostini, 2014, 222 p. [si veda p. 12].  

https://www.key4biz.it/democrazia-futura-levento-tra-comunicazione-e-vita-per-una-mediologia-esistenziale/390681/