Democrazia Futura. Serve davvero all’Italia il Trattato del Quirinale?

  ICT, Rassegna Stampa
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Un giovane dottore di ricerca in storia contemporanea  inaugura il long form del quinto numero di Democrazia futura con un saggio che, rievocando la lunga storia delle relazioni fra i due paesi risalenti alla nascita della nazione francese con Clodoveo nel V secolo, si chiede se il recente accordo italo francese siglato a Roma nello scorso novembre che preconizza una “cooperazione rafforzata” fra i due Paesi “Serve davvero all’Italia il Trattato del Quirinale?”,  o se piuttosto nasconda una sorta di “tentazione neo bonapartista da parte di Macron” esercitata sull’Italia da parte della diplomazia transalpina che contemporaneamente potrebbe essere ostile al perfezionamento di un accordo triangolare, ovvero di un Trattato analogo con la Germania.

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Si potrebbe forse spiegare con il concetto di “grandezza incompleta” quel misto di invidia e malsana competizione che da secoli sembra guidare e ispirare la politica della Francia nei nostri confronti. Non ci bastava essere stati grandi con Roma, di una grandezza impareggiabile, soprattutto agli occhi di chi ha nutrito e nutre ancora oggi ambizioni egemoniche su base continentale; anche a cavallo fra medioevo ed età moderna dovevamo lasciare un segno indelebile, riassunto nella feconda stagione dell’Umanesimo e del Rinascimento, fondamentale per forgiare l’odierna identità europea. Insomma, pur nelle condizioni attuali, di Stato smisuratamente indebitato e bisognoso di risorse finanziarie, con una classe dirigente politica generalmente di bassa lega, di nazione priva di ambizioni geopolitiche e finanche stanca di competere nel mondo per una qualsiasi ragione che non sia lo sport, tuttavia la semplice esistenza dell’Italia potrebbe ricordare ai francesi, sempre pronti a voler primeggiare in Europa e nel mondo, che noi italiani secoli addietro fummo persino più grandi di loro.

Si potrebbe poi aggiungere che, sempre dal punto di vista francese, oltre a non esserne neppure troppo coscienti, abbiamo dimostrato in più occasioni di non meritarcela questa nostra grandezza primigenia. Non siamo forse uno dei Paesi europei che investe meno nella cultura e nella ricerca scientifica? Non siamo forse maestri nell’arte dell’autocommiserazione e dello schernimento patrio? Non abbiamo poi abbandonato qualsiasi ambizione geopolitica, finendo per inseguire quasi unicamente più modesti obiettivi di natura commerciale e di cooperazione economica? Aggiungiamo pure il nostro patrimonio archeologico, architettonico e artistico; tutto questo ben di Dio che i francesi, bisogna dal loro atto, hanno dimostrato di apprezzare ancor più di noi, fino a desiderare di volersene appropriare in ragione di una piccola ma preziosa e significativa frazione. Insomma, può sembrare incredibile e assurdo, ma sembra proprio che i francesi, per lo meno se ci riferiamo al vertice della piramide socio-culturale di quella nazione e alla sua classe dirigente politico-amministrativa, ci amino così tanto da volerci controllare e possedere, così da poter vantare di essere anche loro un po’ italiani. Grandi nel presente e nel recente passato in quanto francesi, ma anche nel passato più lontano e nell’antichità in quanto italiani. Solo a questo punto la grandezza della Francia si completerebbe pienamente

Da simili constatazioni che qualcuno, non senza ragione, potrebbe bollare come semiserie possono emergere altre considerazioni, ben più serie questa volta, che riguardano l’attività di contrasto all’Italia da parte della Francia vista attraverso successive fasi storiche. Così facendo si comprenderebbe perché, nel corso dei secoli, l’atteggiamento francese nei nostri confronti, sotto qualunque regime, fosse esso assolutistico, rivoluzionario, bonapartista, monarchico costituzionale o repubblicano, sia sempre stato volto, giustappunto, a controllarci, impedendoci la piena libertà di manovra. In un primo momento, sebbene di durata plurisecolare, la Francia puntò a impedire (ben inteso, non fu affatto da sola in Europa, ma senz’altro ebbe uno dei ruoli più attivi) che l’Italia potesse diventare uno Stato unitario, giungendo persino, in una fase relativamente breve ma intensa, ad annettersi direttamente un terzo del territorio della Penisola. In seguito, dopo che le alchimie del secondo Bonaparte, Napoleone III, sfuggirono di mano al suo stesso ideatore, producendo involontariamente un’Italia unita dalle Alpi alla Sicilia, la politica estera francese si profuse in tentativi, sovente ben riusciti, di intrappolare e inchiodare le ambizioni italiane.

Così non fu mai facile emanciparsi dall’abbraccio dei cugini d’oltralpe. Abbraccio soffocante, talvolta mascherato dalle consuete e convenzionali profusioni di amicizia, ma sempre volto a impedirci di camminare a passo sostenuto quanto il loro.

  • Quando venne la stagione degli appetiti coloniali, i francesi ci tolsero subito le occasioni più ghiotte e a portata di mano. Responsabilità in parte anche nostra, non c’è dubbio, ma il cosiddetto “schiaffo di Tunisi”, nel 1881, lo ricevemmo noi da parte loro e non viceversa.
  • Quando uscimmo vincitori dal primo conflitto mondiale, insieme alla Francia, della quale eravamo alleati, la diplomazia francese si volse a contrastare la penetrazione italiana nei Balcani e nell’area danubiana, penetrazione nel nostro caso facilitata dal vuoto generato dal collasso del defunto egemone Impero Austro-Ungarico, e lo fece appoggiandosi in modo particolare alla Jugoslavia, sfruttando così la frizione causata dalla faglia etnico-culturale di antica data nell’Adriatico orientale.
  • Quando poi l’Italia fascista si impelagò nell’avventura etiopica (anacronistica e immorale quanto si vuole, ma pur sempre espressione di una cinica ragione di Stato imperialistica che non mancava certo ad altre nazioni del tempo, Francia inclusa), la Francia prima sembrò essere d’accordo, fornendo una sorta di via libera informale all’intervento (colloqui Mussolini-Laval a Roma, 6 gennaio 1935), in seguito però cambiò idea, tentando dapprima una mediazione poco soddisfacente, quindi votando anch’essa per le sanzioni della Società delle Nazioni, offrendo così un buon contributo al nostro avvicinamento alla Germania, esattamente come lo schiaffo di Tunisi, diversi decenni prima, aveva favorito la nostra adesione alla Triplice Alleanza.

La resa dei conti in questa occasione fu rapida, persino troppo, e nel giugno del 1940 dichiarammo guerra alla Francia. Mal ce ne incolse tuttavia, perché il prezzo di quella nostra goffa ed emotiva vendetta a caldo fu la disfatta nella seconda guerra mondiale, da cui derivò un’ulteriore cessione di nostri territori proprio ad essa, alla Francia, che nella sua lunga storia di “amichevole” vicinanza ne aveva presi in pegno da noi già abbastanza. Non paga di aver imposto all’Italia di arretrare la linea di confine, fino ad andare in più punti oltre lo spartiacque alpino, in sede di trattato di pace propose per i nostri confini orientali una linea che, in quanto a spirito punitivo, era soltanto meno severa di quella proposta dall’Unione Sovietica. Persino la Gran Bretagna aveva suggerito per noi un confine orientale più generoso. E poco ci mancò quindi che per l’amicizia francese dovessimo dire addio anche a Trieste.

Peraltro quella fatale dichiarazione di guerra si rivelò in fin dei conti la peggiore delle nostre mosse, in grado di produrre danni irreparabili nel lungo periodo. La nostra disfatta segnò anche il momento dopo il quale non fummo più in grado di ambire ad essere quasi pari alla Francia e i nostri destini tornarono pertanto a divaricarsi irreversibilmente: la Francia potenza imperiale e militare con arsenale nucleare (in quest’ultimo caso solo dal 1960) e seggio permanente nel consiglio di sicurezza dell’ONU; l’Italia, rimasta a galleggiare sul Mediterraneo, senza più colonie e conseguente proiezione internazionale.

Potemmo soltanto gioire di genuina e impotente invidia, mascherata da sentimenti umanitari, del processo di decolonizzazione che infine colpì anche la nazione transalpina, facendole infine perdere la sua perla d’oltremare algerina, sebbene neppure le intelligenti manovre di Mattei con l’ENI riuscissero a sostituirci all’influenza francese nel Mediterraneo occidentale e nell’Africa subsahariana.

Alla fine, naturalmente non solo per questi motivi, non avemmo altra scelta che credere che l’adesione alla NATO e al progetto di unificazione europea ci avrebbe conservato ancora un peso specifico nel mondo. E per un po’ in parte è stato anche vero, tanto più che l’impetuoso sviluppo economico del secondo dopoguerra ci aiutò a rincorrere la Francia quanto meno sul fronte della produzione industriale e, più in generale, dell’economia.

Negli anni Ottanta ci sentimmo persino abbastanza spavaldi da giungere a restituire lo schiaffo di Tunisi, a poco più di cent’anni da quell’avvenimento, attraverso l’appoggio in esclusiva al cosiddetto colpo di Stato medico che disarcionò Habib Bourghiba dal governo della Tunisia e vi installò Zine El Abidin Ben Ali, il quale per certi versi da quel momento potè essere definito il nostro uomo a Tunisi. Tuttavia si trattava di un miraggio africano di breve durata e nel 2011 lo abbiamo compreso bene. In quell’anno lo schiaffetto riparatore craxiano ci è stato restituito con gli interessi da Nicolas Sarkozy, disarcionando in quel caso “il nostro uomo” in Libia, Mu’ammar Gheddafi, con l’aggravante di far sprofondare quel Paese per noi cruciale in una guerra civile senza fine apparente. Pochi mesi prima anche Ben Ali era saltato in seguito alle proteste popolari.

Il resto è cronaca e il tempo rivelerà la gravità di quegli avvenimenti di cui si inizia ad intravedere la reale portata.

Del presente e del passato prossimo sono inoltre le sempre più incisive pressioni economico-finanziarie francesi sul mercato italiano, anche in settori strategici della nostra economia. Compartecipazioni azionarie, imprese industriali a capitale misto, fusioni e scalate societarie, che in alcuni casi hanno prodotto storie di successo, hanno assunto però in altri casi la caratteristica di una seconda “campagna d’Italia” intesa a favorire l’acquisizione da parte francese di settori rilevanti della nostra economia.

Un fatto nuovo giunge a rinverdire i fasti dell’accesa competizione tra Francia e Italia. Il Trattato per una cooperazione bilaterale rafforzata italo-francese, detto anche trattato del Quirinale, sembra essere il punto d’arrivo della plurisecolare strategia d’oltralpe volta ad ingabbiarci nel suo abbraccio soffocante.

La novità, tuttavia, è che questa volta, evidentemente dati per persi anche gli ultimi tasselli della nostra sfera d’influenza e forse anche per la necessità di bilanciare il peso preponderante assunto nell’Unione Europea post-Brexit dalla Germania e dai suoi sodali rigoristi, sembra che allo stesso governo italiano non sia rimasta alcun’altra mossa se non affidarsi alla protezione della Francia. Certamente una protezione mascherata da cooperazione, da patto stipulato fra pari, entrambi soci costruttori dell’Unione Europea, ma il punto è che non si tratta proprio di un patto alla pari.

Un patto non propriamente alla pari fra due Paesi con dimensioni non propriamente simili

Partendo da alcuni dati essenziali in forma di comparazione:

• Superficie

Italia: 301.338 kmq

Francia: 543.965 kmq (relativamente alla sola Francia metropolitana, ovvero Esagono e Corsica); 664.397 kmq (compresi i Dipartimenti e i Territori d’Oltremare, DOM-TOM)

• Popolazione

Italia: 60,3 milioni (stima per l’anno 2020) con tendenza alla stabilità se non a una leggera flessione.

Francia: 67,4 milioni (stima per l’anno 2020, di cui 65,2 milioni relativi alla sola Francia metropolitana) e con tendenza al costante aumento; alcune previsioni stimano la crescita demografica francese in grado di raggiungere per il 2050 una popolazione fra gli 80 e gli 85 milioni di abitanti. Inutile aggiungere che in Italia non sapremmo neppure dove mettere 20 milioni di abitanti in più.

• Prodotto Interno Lordo

Italia (fonte FMI, 2020): 2.106 miliardi di US$

Francia (fonte FMI, 2020): 2.938 miliardi di US$

Economicamente il PIL italiano vale dunque poco più di 2/3 di quello francese.

• Valore delle esportazioni (stima del 2019)

Italia: 687 miliardi US$

Francia: 969 miliardi US$

• Forze armate

Impossibile stilare una rassegna dei mezzi e degli uomini impiegati nei rispettivi eserciti, tuttavia è pur vero che la notevole distanza fra i due Paesi è riscontrabile in ognuna delle tre principali armi, dall’esercito, all’aeronautica e alla marina.

Può essere utile confrontare le stime di spesa per la Difesa riservate dai rispetti governi secondo i calcoli (2020) dell’International Institute for Strategic Studies.

Italia: 29,3 miliardi di US$

Francia: 55,0 miliardi di US$

Appare evidente da questi pochi ma essenziali dati che il peso specifico dell’Italia di fronte alla Francia è decisamente ridotto. In economia paghiamo il fatto di essere un Paese incompiuto e a due velocità, con il sud e le isole maggiori ancora troppo arretrati e un centro-nord della Penisola che sostiene da solo gran parte del settore industriale e finanziario. L’elefantiaco debito pubblico peraltro è un’ulteriore zavorra.

Vanno considerati inoltre dei limiti strutturali, dovuti alla geografia e all’orografia che non sono propriamente nostre alleate. Infine, anche se non si tratta affatto di una questione irrilevante, vista l’aggressività delle potenze mediterranee emergenti e della corsa agli armamenti da parte delle superpotenze globali, la debolezza delle nostre forze armate sconta ancora il ritardo accumulato a causa del trattato di pace punitivo del 1947.

La timidezza tutta italiana di impegnarsi anche solo indirettamente sul campo persino nel giardino di casa (emblematico e anche piuttosto sconfortante è stato il dissennato disimpegno italiano in Libia durante l’offensiva del generale Khalifa Haftar contro Tripoli nell’aprile 2019, fermata con il decisivo intervento della Turchia e dei suoi droni d’assalto schierati a sostegno del governo di Fayez as-Sarraj, solo a parole sostenuto anche da Roma) non aiuta a programmare una strategia di difesa a lungo termine e, così facendo, consente ai nostri antagonisti regionali di affilare ancor più i coltelli e di vedere in noi l’anello debole dell’Occidente.

Altri episodi emblematici che danno il senso del declino della forza diplomatica e militare italiana sono noti alle cronache: l’umiliante odissea dei fanti di marina del reggimento San Marco in India; lo sfibrante e probabilmente ormai insolubile “affare Regeni” in Egitto; le azioni di disturbo turche alla nave di esplorazione e ricerca Saipem al largo delle coste cipriote; la dichiarazione unilaterale algerina di estensione della Zona Economica Esclusiva marittima ad appena 12 miglia dalle coste sud-occidentali della Sardegna.

Al di là dei dettagli, emerge un dato di fatto: il cosiddetto trattato del Quirinale non è stipulato fra due potenze di pari o quasi peso. E non è un fattore di poco conto. Un simile trattato così impegnativo e vincolante fra le due parti, o è stipulato fra due attori dello stesso o quasi calibro (per esempio, sebbene puramente teorico in ragione delle attuali frizioni fra i due Stati, nel caso di un eventuale simile trattato tra Francia e Regno Unito), oppure lo squilibrio, che nel caso specifico dei rapporti tra Italia e Francia rischia di ampliarsi a nostro svantaggio nei prossimi decenni, determinerebbe inevitabilmente l’instaurarsi di una posizione di forza da parte di una delle parti contraenti a svantaggio di quella più debole. Negare una simile semplice verità, fidandosi delle buone intenzioni e rassicurazioni del contraente più forte, vorrebbe dire avere un’idea alquanto ingenua della storia e delle relazioni internazionali. Stipulare un simile trattato con l’intenzione di porci al riparo delle eventuali future offensive tedesche e dei paesi rigoristi dell’Unione Europea, facendoci scudo della forza diplomatica francese, così come per proteggerci dalle angherie turche, egiziane ed algerine, facendoci scudo in questo caso della forza militare francese, significherebbe inevitabilmente accettare la prospettiva di diventare un protettorato della Francia. Un processo che avrebbe i suoi tempi di maturazione, ma che porterebbe inevitabilmente prima o poi la parte più forte e ambiziosa (sicuramente Parigi) a imporre a quella più debole e cedevole (sicuramente Roma) i suoi programmi e le sue strategie.

Il trattato franco tedesco dell’Eliseo del 1963 rinnovato nel 2019 ad Aquisgrana

D’altra parte esiste al mondo qualcosa di simile a un trattato così vincolante fra due nazioni indipendenti? Qualcosa di molto simile in effetti sì: è il cosiddetto trattato dell’Eliseo, analogo accordo di cooperazione rafforzata tra la Francia e la Repubblica Federale Tedesca, stipulato nel 1963 e rinnovato nel 2019 nella simbolica sede di Aquisgrana. Che differenza tuttavia fra i due casi: a parte che nel 1963 la Germania, allora peraltro la sola parte occidentale di essa, era quasi obbligata dalla storia (la seconda guerra mondiale, da essa scatenata, era terminata meno da meno di vent’anni) a stipulare un accordo che mettesse fine alla secolare ostilità tedesca con il nemico per eccellenza, dal quale la Germania era stata sconfitta due volte (l’ultima volta invero soltanto grazie agli alleati della Francia libera, ma a prezzo di indicibili distruzioni e umiliazioni), tale accordo definiva anche lo status delle relazioni fra coloro che, nel breve volgere di pochi decenni, sarebbero assurti al rango di “azionisti di maggioranza” di quella che oggi è l’Unione Europea. Il tempo, inoltre, in una visione retrospettiva, avrebbe giocato a favore della Germania e questo fatto, molto probabilmente, sarà stato anche considerato dai diplomatici tedeschi dell’epoca. Infatti, se la riunificazione delle due Germanie non appariva ancora negli anni Sessanta facilmente conseguibile, è pur vero che l’impetuoso sviluppo industriale della Germania occidentale era invece ben visibile e giocava a tutto vantaggio del governo di Bonn.

Infine, la riunificazione tedesca nel 1990 ristabilì in Europa l’esistenza di un piccolo gigante demografico, territoriale ed economico, in grado di controbilanciare alla pari, se non anche a vantaggio di Berlino, il peso degli impegni e dei vincoli stabiliti con Parigi. Si può così affermare, senza timore di smentita, che quel trattato è durato nel tempo senza essere contestato, né sofferto dall’opinione pubblica e dal governo di una delle due parti, perché si tratta di un accordo fra due potenze regionali dal simile o uguale peso specifico. Alla maggior debolezza di una parte (sul piano militare, nel caso della Germania) sopperisce la maggior debolezza dell’altra parte (sul piano economico, nel caso della Francia), raggiungendo così una sorta di equilibrio perfetto, associato alle reciproche cospicue dimensioni demografiche che col tempo andranno a stabilizzarsi su valori pressoché simili. Niente di tutto ciò nel nostro caso. Lo squilibrio è evidente e apparirà molto probabilmente sempre più evidente nei prossimi decenni. Ci sarebbe soltanto da sperare in un rafforzamento delle istituzioni, della legalità e nel conseguente rilancio delle economie del Mezzogiorno e delle isole maggiori, così come auspicato nel 2021 da Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone in un loro saggio[1], tuttavia, alla luce dei precedenti storici, è lecito non farsi troppe illusioni in merito. Ma allora a che fine stipulare un simile matrimonio? Perché da parte dell’Italia sembra che si voglia aderire ai desideri francesi di vederci finalmente vinti e avvinti a un destino comune stabilito a Parigi? A questo proposito, per trovare qualche spunto, sarebbe interessante leggere il preambolo e gli articoli del summenzionato trattato.

Nel preambolo, relativamente alla traduzione italiana, si legge che le due parti convengono alla firma di un trattato, come appare in cima alla lista di considerazioni ed enunciazioni di principio, «tenendo in considerazione la portata e la profondità dell’amicizia che le unisce, ancorata nella storia e nella geografia».

Un lungo, lontano nel tempo, portato storico dietro alla “profonda amicizia” fra le due cugine latine: Clodoveo e la nascita della nazione francese alla fine del V secolo a fronte del fallimento del tentativo dei Longobardi di confederazione di piccoli stati alleati a causa dell’alleanza fra i Franchi e il Papato

A questo punto sarebbe senz’altro istruttivo rammentare quante volte si sia palesata nel concreto la “profonda amicizia” fra le due cugine latine. A tal fine bisognerebbe andare un po’ più indietro nel tempo, passaggio forse un po’ noioso, ma necessario. Tanto più che, a differenza di quanto spesso si sente enunciare dalla vulgata comune, l’Italia non è una nazione giovane. Si tratta invero di uno Stato giovane, almeno nella sua forma unitaria, ma di una nazione antica.

E il portato storico di una simile affermazione risiede nel fatto che le relazioni italo-francesi non sono un prodotto dell’unificazione italiana, ma ovviamente perdurano nella storia a partire dagli eventi che portarono al collasso dell’Impero Romano e alla progressiva e traumatica formazione dei cosiddetti regni romano-barbarici, a cavallo fra la fine del V secolo e l’VIII-IX secolo. È in quel periodo, durato fra i quattro e i cinque secoli, che avvengono le grandi scosse di assestamento dell’epocale terremoto prodotto dalle invasioni germaniche che devastarono e fecero sprofondare la parte occidentale dell’Impero Romano nel caos, determinandone la fine traumatica.

Fu quello il periodo di incubazione di gran parte delle moderne famiglie nazionali europee, senz’altro di tutte quelle nazioni di origine mista romano-germanica. La nazione francese, emersa dall’occupazione della Gallia romana da parte di diverse tribù germaniche, iniziò a distinguersi già a partire dalla fine del V secolo grazie alle conquiste del re Clodoveo, appartenente alla dinastia dei Merovingi e alla tribù dei Franchi. Il regno franco si sarebbe esteso nei secoli successivi, non senza difficoltà e arretramenti, sull’area occupata approssimativamente dall’attuale Francia.

In Italia la transizione fu più complicata: a una prima fase unitaria sotto Odoacre e, soprattutto, sotto i Goti guidati dall’illuminato Teodorico, seguì una trentennale guerra sanguinosa che determinò per un breve periodo il passaggio dell’Italia sotto le insegne di Bisanzio. Durò poco perché, già a metà del VI secolo, l’invasione della parte centro-settentrionale della Penisola da parte della tribù germanica dei Longobardi costrinse i bizantini ad arroccarsi a sud e lungo alcune zone costiere dell’Italia, mentre nel corso dei secoli successivi i Longobardi riuscirono con fatica a costituire una sorta di confederazione di piccoli stati alleati che riconoscevano un unico re residente a Pavia. Poteva essere per noi questo l’inizio del processo di costruzione di uno stato dinastico su base approssimativamente nazionale, esattamente come per la Francia. Ma proprio in questo periodo emerse la difficile e contrastata esistenza fra le due nazioni vicine, separate dalle Alpi, barriera mai abbastanza alta per impedire agli uni di invadere gli altri.

Si sa come andò: il papato, stretto nella morsa longobarda, strinse un’alleanza strategica con i Franchi, che non aspettavano altro se non un pretesto per invadere l’Italia e impossessarsene. Come in tutti i patti scellerati c’era anche in questo caso un piatto di lenticchie da pagare al questuante di Roma, in cambio del suo simbolico assenso all’invasione. Si trattava, secondo il dettato della cosiddetta Promissio Carisiaca, della cessione al Papato di un territorio che avrebbe dovuto comprendere l’Etruria, l’Umbria, il Piceno, la Romagna, parte dell’Emilia e la Corsica, oltre alle aree appenniniche centro-meridionali occupate dai Longobardi.

Anche in questo caso si sa come andò: nel 774 i Franchi scalzarono i Longobardi dal centro-nord Italia, segnando in negativo il destino della Penisola per i secoli successivi e tuttavia non diedero interamente al papa quanto gli era stato promesso.

In più non andarono oltre Spoleto, lasciando che fra gli Abruzzi e la Campania sopravvivessero dei piccoli ma agguerriti principati longobardi. Il barattiere aveva ottenuto la sua degna paga, ma in ogni caso ciò segnava il fallimento della seconda occasione offerta dal destino per costruire una monarchia unitaria su base nazionale.

Dall’emancipazione dei Liberi Comuni dall’autorità della Corte itinerante in Germania del Sacro Romano Impero  alle mire della nuova dinastia dei Capetingi verso la Sicilia e l’Italia Meridionale. Il nuovo trattato fra il Papato e il Re di Francia e la fine dell’egemonia sveva con l’arrivo della dinastia angioina a Napoli

Lo sfaldamento del potere franco nella parte centro-settentrionale della Penisola avvenne per gradi, molto lentamente, nel corso dei secoli successivi, ma anche se i Liberi Comuni, sorti gradualmente a partire dall’XI secolo, riuscirono a sottrarre ai feudatari del contado di origine franca il controllo dei principali mercati e delle piazze commerciali, allo stesso tempo una pesante eredità derivata dalla conquista dell’Italia da parte dei Franchi avrebbe segnato ancora per molto tempo il destino della Penisola.

L’eredità dell’imperatore Carlo Magno era stata infatti dispersa fra tre dei suoi nipoti e l’Italia centro-settentrionale era ricaduta sotto il controllo di Lotario. La Lotaringia subì in seguito a sua volta ulteriori suddivisioni e ripartizioni e, infine, la valle Padana, il Triveneto, la Liguria e la Toscana rimasero sotto l’autorità e il controllo di un Sacro Romano Imperatore con corte itinerante in Germania. A un giogo se ne sostituì un altro e per un po’ di secoli i francesi, anche perché alle prese a loro volta con un processo di parziale sfaldamento dell’unità iniziale del regno, lasciarono l’Italia alle prese con le sue beghe interne e le sue lotte per l’emancipazione dei Liberi Comuni dall’autorità degli imperatori germanici.

Passarono i secoli, la Francia ritrovò una sua stabilità e unità sotto la dinastia dei Capetingi, mentre questa volta ad attirare le mire della nostra storica “amica” d’oltralpe non furono le regioni del centro-nord (formalmente ancora sotto la sovranità dell’impero Germanico), ma quelle del sud della Penisola. In particolare lo splendido Regno di Sicilia, con capitale a Palermo e territorio esteso sull’omonima isola e sul Mezzogiorno continentale, fino agli Abruzzi e alla Terra di Lavoro. Era questa, almeno a quei tempi, una delle regioni più ricche d’Italia, oltre ad essersi dimostrato un regno di dimensioni abbastanza considerevoli da insidiare le ambizioni francesi nel Mediterraneo. Peggio del peggio, almeno dal punto di vista francese, l’ultimo effettivo re di Sicilia, Federico II di Svevia, deteneva anche la corona di Sacro Romano Imperatore e puntava a unificare i domini meridionali della Penisola con le ricche città padano-venete. Si trattava della terza opportunità offerta dal destino per vedere nascere in Italia una monarchia unitaria su base nazionale. Una mossa ben compresa dai pontefici di quel tempo e da loro assai temuta. Il rischio per i domini papali era quello di finire nella morsa del re-imperatore svevo e per il papa di essere di fatto ostaggio di un futuro monarca italiano con velleità imperiali.

E così per la seconda volta, alla morte di Federico II (1250), per tarpare le ali ai suoi successori e, in particolare, all’ambizioso re Manfredi, capo del partito ghibellino fu stipulato un ennesimo patto scellerato fra il papa e il re di Francia. Si trattava di trovare un sostituto alla dinastia sveva, che dominava sulla Sicilia e sull’intero Mezzogiorno d’Italia, che garantisse la sopravvivenza del papato sulla base degli equilibri già stabilitisi nella Penisola. Il re capetingio trovò il sostituto di Manfredi in un esponente di una fra le più nobili casate di Francia, quella degli Angiò, e lo inviò con un seguito imponente di cavalieri, appoggiati ben poco opportunamente dagli alleati guelfi della Penisola, a scacciare gli Svevi dal Mezzogiorno e dalla Sicilia. Ci riuscirono, naturalmente. E così all’ambizione egemonica nella Penisola della casata sveva, si sostituì un regno angioino con capitale a Napoli che riconosceva formalmente il Papa quale signore feudale e che guardava alla Francia come nazione di riferimento politico e militare (1266).

Fu una corte munifica quella di Napoli, ma i suoi sovrani furono sempre più legati ai destini della Francia di quanto non lo fossero a quelli d’Italia, almeno nella prima fase della loro storia. Tale conquista peraltro provocò, per reazione allo squilibrio delle potenze a livello europeo, l’occupazione della Sicilia da parte aragonese seguita alla rivolta del Vespro e più tardi, sempre da parte del Regno d’Aragona, della Sardegna. Sempre lo squilibrio a livello europeo prodotto dal travaso di cavalieri e nobili francesi calati nel Mezzogiorno d’Italia avrebbe determinato sul lungo periodo il rischio che l’Italia fosse vista come riserva di caccia e terra di conquista da parte dei nostri potenti vicini. Si iniziava così a intravedere il destino di cattività straniera che ci attendeva.

Altro effetto indesiderato della conquista francese del Regno di Napoli fu il rafforzarsi delle pretese del partito guelfo italiano che trovò in Carlo d’Angiò e nei suoi successori dei formidabili protettori, fomentando così ancor più la rivalità fra città e signori locali schierati su opposti fronti.

D’altra parte si tratta di una delle più vecchie e rodate tattiche per mantenere il potere: divide et impera; e in Italia la storia aveva prodotto un terreno fra i più fertili per seminare discordia. Eppure questa egemonia francese non era sempre approvata da quegli stessi pontefici che indirettamente la avevano provocata. Tanto fu fastidiosa la loro protesta, almeno in un caso, quello celebre del tanto biasimato Bonifacio VIII, che i francesi, colmi di superbia, pensarono bene, oltre ad assestargli un umiliante schiaffo[2], di trasferire l’intera sede papale in Francia, ad Avignone.

Cattività avignonese che durò fino al 1376.

A quel tempo, complice il carisma di una celebre santa mistica senese, in grado di riportare il pontefice a Roma, e lo scoppio della cosiddetta guerra dei Cent’anni, che infuriava tra francesi, inglesi e borgognoni, la Francia, passata sotto il controllo della dinastia dei Valois, per un po’ parve estraniarsi dai destini della Penisola e condusse una lotta senza quartiere per la sua stessa sopravvivenza. Inutile dire che per molti decenni da quella parte delle Alpi non avemmo più noie.

Le noie, assieme alla ripresa delle sempre “amichevoli” relazioni franco-italiane, ricominciarono alla fine della summenzionata guerra d’indipendenza francese, nel 1453.


[1] Ernesto Galli della Loggia, Aldo Schiavone, Una profezia per l’Italia. Ritorno al sud, Milano, Mondadori, 2021

[2] C’è una costante nelle esibizioni di forza dei popoli: si dice che i tedeschi battano i pugni sul tavolo, i francesi o chi per loro – perché in effetti lo schiaffo a Bonifacio VIII lo assestò un nobile romano loro alleato – schiaffeggiano: ad Anagni, nel 1303, come a Tunisi, pur simbolicamente, nel 1881; gli schiaffi, naturalmente, li riceviamo sempre noi!

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