Democrazia Futura. Un regionalismo imperfetto e artificiale non aderente alla storia e alle identità locali

  ICT, Rassegna Stampa
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Giulio Ferlazzo Ciano

Nell’articolo che segue, diviso in due parti, si discute di temi identitari. Nella prima parte si introducono i temi che verranno trattati nei prossimi numeri di Democrazia Futura nella rubrica Italiæ, delineando innanzi tutto le due opposte visioni identitarie, dunque culturali, e territoriali, ovvero geografiche, che si possono avere del nostro Paese. Nella seconda parte si affronta più in concreto e con alcuni esempi la difficile questione dell’identità regionale italiana, che la futura riforma dell’autonomia differenziata renderà il perno di una visione plurale della stessa nostra identità nazionale. Ma sono vere identità fondate sulla storia, sulle tradizioni e sui dialetti, quelle delle regioni, o si tratta di un abbaglio? Una lista non completa e non esauriente di casi offre qualche spunto per alcune riflessioni.

È previsto che, a partire dai prossimi numeri di Democrazia Futura, una nuova rubrica si intitoli “Italia”. Anzi si è deciso di chiamarla, più correttamente, “Italiæ”. Apparentemente si tratta di un gioco di parole, cosa in sé vera, tuttavia si tratta anche di un compromesso fra due visioni opposte che si possono avere del nostro Paese o, se si vuol usare un termine ormai desueto, quasi romantico per ispirazione, della nostra Patria.

Italiæ: due opposte visioni identitarie

L’una dunque è la visione unitaria, che era anche quella della maggior parte dei patrioti che teorizzarono durante la stagione risorgimentale l’unità politica della nazione italiana, ma che oggi è in affanno. Visione che tende ad esaltare gli elementi unificanti della Penisola, a partire dalla sua conformazione geografica così particolare e unica, assai facilmente circoscrivibile, passando per la sua storia plurimillenaria con caratteri e linee di tendenza comuni, a cui si aggiunge la pur breve esperienza dei centosessant’anni di unità nazionale, conquistata con sacrifici individuali e collettivi, per finire con l’orgoglio per le nobili tradizioni culturali, per gli indiscussi primati in ambito artistico, architettonico e musicale, in grado di plasmare il gusto dell’intero Occidente, senza dimenticare l’utilizzo di una lingua scritta e parlata di particolare eleganza e soavità, quel “volgare illustre” fiorentino divenuto in tempi relativamente recenti patrimonio comune dell’intero popolo italiano. Tale visione non può che considerare l’esistenza di una sola Italia, al singolare.

L’altra è invece la visione plurale dell’identità italiana, di gran moda negli ultimi decenni, che tende al contrario ad esaltare gli aspetti eterogenei, sottolineando le differenze su base regionale e talvolta persino subregionale e localistica, individuando le diversità non solo sulla scorta dell’ovvia varietà climatica, paesaggistica e geomorfologica, particolarmente amplificata dalla singolare forma allungata del territorio italiano, ma anche in base alla molteplicità di caratteri e temperamenti umani plasmati dai già citati fattori ambientali, così come dalle diverse eredità date dalle consuetudini politico-istituzionali e sociali degli antichi Stati preunitari. Eterogeneità rimarcata inoltre dalla pluralità di dialetti e parlate, di tradizioni gastronomiche e di architetture vernacolari (o almeno quel che rimane di questo patrimonio). A ulteriore conferma di tale visione concorre la presenza di minoranze etniche e linguistiche, di origine non solo latina, storicamente attestate su porzioni di territorio italiano. Da ciò ne deriva, in ragione di tale visione, l’esigenza di ritenere che esistano diverse Italie, al plurale.

Dunque due visioni antitetiche e difficilmente conciliabili. Il compromesso verte sull’uso del carattere tipografico æ: non “Italie” al plurale, senza alcun riguardo per la visione unitaria, ma “Italiæ”. Tale carattere æ fa dell’Italia un termine che, letto alla maniera latina, può essere declinato sia al plurale che al singolare; allo stesso tempo la peculiare combinazione delle due vocali allacciate, fra di loro speculari e capovolte, fa sì che, pur senza scomodare il latino, rimanga un margine di ambiguità: capovolgiamo e invertiamo il fonema e se lo pensiamo al plurale perché termina con “e” avremo la sorpresa di trovarvi una “a”, tornando al singolare. Di fronte all’impossibilità di leggervi il nome al singolare o al plurale rimane al lettore di questa rubrica la scelta se identificarsi nell’una o nell’altra visione, oppure se tentare una sintesi. Operazione più complessa del previsto, perché a mettere insieme le due visioni non è affatto detto che si trovi un punto di mediazione perfettamente equidistante ed equilibrato. Inevitabilmente infatti, pur decidendo di accogliere entrambi i punti di vista, sarà giocoforza dare preminenza all’una o all’altra visione.

Chiunque, infatti, preferirà vedere nella Penisola un insieme di caratteri differenti unificati soltanto politicamente e tardivamente rispetto ad altri Stati nazionali europei, pur accettando di accogliere una parte della visione unitaria, riconoscendo almeno l’esistenza di una nazione italiana, tenderà comunque a privilegiare la diversità in quanto prodotto delle plurali identità della Penisola. Identità di matrice schiettamente popolare, dunque genuine e spontanee, non artefatte da ideologie otto-novecentesche diffuse da élite culturali e politiche. Riterrà inoltre che, oltre a tali differenze culturali, il difforme sviluppo economico abbia prodotto ulteriori forme di differenziazione all’interno del tessuto sociale italiano, tali da dover essere riconosciute dalle istituzioni e governate localmente con forme più o meno ampie di autonomia amministrativa.

Al contrario il sostenitore dell’unitarismo potrà senz’altro riconoscere la dimensione plurale dell’Italia come un elemento per nulla in contraddizione con la sostanziale unità del Paese e del suo popolo nell’insieme, soprattutto se visto dall’esterno. Le diversità non sarebbero dunque nulla di più che variazioni sul tema. L’identità italiana non sarebbe inoltre un’invenzione elitaria, ma un dato di fatto inoppugnabile: la sintesi delle plurime identità locali sulla base di un’unica matrice comune. E riterrà inoltre che, di fronte alle sfide lanciate dai grandi Stati nazionali o plurinazionali extraeuropei, sarebbe controproducente indebolire i più piccoli Stati nazionali del vecchio continente, tra i quali l’Italia, privilegiando forme più o meno differenziate di autonomia localistica a detrimento della forza e della coesione dello Stato centrale.

Di fronte all’impossibilità sostanziale di giungere a un compromesso fra le due visioni non rimane dunque che affidarsi a un accorgimento grafico, sorta di ə (schwa) identitario che non urta nessuna suscettibilità.  

Italiæ: due opposte visioni territoriali

Nel frattempo è bene introdurre un altro elemento di comprensione del termine Italiæ. Fin qui si è detto delle due visioni quasi contrapposte sull’identità nazionale che danno esiti al singolare o al plurale. Ma c’è un altro punto di vista da considerare che mette in gioco ancora una volta singolare e plurale, e questo riguarda la dimensione territoriale da assegnare all’Italia. È ormai prevalente l’adesione alla dimensione singolare, che considera l’esistenza di una sola Italia, quella politica. Essa consiste pertanto nei 301.338 chilometri quadrati del territorio della Repubblica Italiana. Si potrebbe tuttavia rispolverare la visione di un’Italia che si potrebbe definire “tridimensionale”, che contemperi dunque la dimensione politica, ma anche quella geografica e culturale. A questo punto si parlerebbe di Italie al plurale: l’Italia della Repubblica Italiana e quelle parti d’Italia che per ragioni storiche sono rimaste al di là degli attuali confini politici, ma che sono pur sempre Italia per ragioni geografiche e storico-culturali; non linguistiche, o almeno non sempre, a causa della prevalenza di altre lingue nazionali o di idiomi promossi a tale rango, oppure per il graduale allontanamento, parziale o totale, dei precedenti abitanti di lingua italiana di quei territori.

Pare già di sentire alcune reazioni sdegnate da parte, paradossalmente, proprio di lettori italiani: un pericoloso e indegno modo di ragionare, oltre che un’offesa ai nostri partner e alleati europei. Per quanto riguarda le offese non è il caso di preoccuparsene. Chi scrive infatti non ha certo eserciti da mobilitare e neppure ci pensa, tanto più che muovere guerra per ragioni territoriali sembra che di questi tempi non porti molta fortuna. Il ragionamento rimane giustappunto soltanto un ragionamento, a un livello meramente intellettuale e pacato, senza recare oltraggio alcuno ai nostri vicini ai quali è cosa degna e giusta portare rispetto. Peraltro se gli Stati a noi confinanti posseggono parti d’Italia è perché evidentemente se le sono guadagnate e non ci sarebbe altro da aggiungere. In quanto alla prima obiezione invece, conviene lasciar parlare direttamente una personalità solitamente molto apprezzata per il suo pensiero e la sua lungimiranza:

“A voi uomini nati in Italia, Dio assegnava, quasi prediligendovi, la Patria meglio definita d’Europa. In altre terre segnate con limiti più incerti o interrotti, possono insorgere questioni che il voto pacifico di tutti scioglierà un giorno, ma che hanno costato e costeranno forse ancora lagrime e sangue: sulla vostra, no. Dio v’ha steso intorno linee di confini sublimi, innegabili: da un lato i più alti monti d’Europa, l’Alpi; dall’altro, il Mare.”[1]

Qualcuno dei lettori ha senz’altro riconosciuto la prosa nel consueto stile profetico e solenne di Giuseppe Mazzini. Invero l’apostolo della nazione, lo si riconoscerà senza timore di oltraggiarne la memoria, era uno spirito ardente di ideali, ma al di là di alcuni granitici capisaldi teorici (democrazia, repubblica, fratellanza fra popoli e libere repubbliche d’Europa, eccetera), peccava talvolta di una certa scarsa attenzione ai dettagli. D’altra parte non si può fargliene un torto; dedito alla causa in modo febbrile e quasi senza requie, gli mancava talvolta il tempo per approfondire alcune questioni di non secondaria importanza, tanto più che le sue energie erano volte prevalentemente alla missione di apostolato e al mantenimento di una vasta rete di finanziatori, sostenitori e affiliati. Dunque se Mazzini in “Dei doveri dell’uomo” in termini generali stabiliva il principio di un’Italia nazione territorialmente «meglio definita d’Europa», aggiungendo più nel dettaglio, relativamente ai territori insulari, che «vostre [degli italiani] sono innegabilmente la Sicilia, la Sardegna e la Corsica»[2], più incerta si faceva la sua delimitazione dei confini di terra.

In “Dei doveri dell’uomo” Mazzini risolveva il problema con un metodo artigianale, grezzamente geometrico, dal suo punto di vista non manchevole di un sufficiente rigore scientifico, puntando la punta di un compasso su Parma e l’altra sulla foce del Varo (Var, in francese), includendo così Nizza nei confini ideali d’Italia. Tuttavia ad est la punta del compasso avrebbe raggiungo, a parità di ampiezza, soltanto le foci dell’Isonzo, escludendo pertanto Trieste dalle “divine” frontiere d’Italia. Alcuni anni dopo il nostro, dopo aver evidentemente studiato più a fondo la questione, convenne di considerare il Quarnaro, e non le foci dell’Isonzo, il vero limite orientale d’Italia alla fine dell’arco alpino:

“La religione italiana di Dante è la mia e dovrebbe essere quella di tutti noi. Le Alpi Giulie sono nostre come le Carniche delle quali sono appendice. Il litorale Istriano è la parte orientale, il compimento del litorale Veneto. […] Per condizioni etnografiche, politiche, commerciali, nostra è l’Istria”[3]

Ora, a meno di non preferire un Mazzini á la carte, come si usa dire, buono e da esaltare se protoeuropeista (che poi Mazzini sia stato davvero un protoeuropeista è un altro discorso), cattivo maestro da dimenticare se nazionalista democratico, ci si può sentire pienamente legittimati a scrivere e a pensare ad un’Italia territorialmente al plurale, dentro e fuori gli attuali confini politici, senza dover provare disgusto per quanto scritto o pensato e senza nutrire alcun senso di colpa. D’altra parte, se così fosse, supponendo che il principio del diritto internazionale sull’intangibilità dei confini valga persino a un livello meramente astratto, teorico o sentimentale, allora ci si dovrebbe vergognare e fare ammenda anche quando si afferma che ciò che rimane dell’Ulster annesso al Regno Unito andrebbe reso prima o poi alla Repubblica d’Irlanda, ci si dovrebbe vergognare a stabilire quali territori andrebbero concessi alla futura Palestina indipendente sottraendoli allo Stato d’Israele, ci si dovrebbe vergognare a parteggiare per la Spagna quando questa reclama Gibilterra o a parteggiare per il Marocco quando questo reclama Ceuta e Melilla.

Quindi sarebbe il caso di superare questo blocco psicologico, frutto del trauma prodotto dallo sciovinismo e dallo stolto avventurismo del Ventennio fascista, e liberare la mente dagli steccati dati dai confini politici, perché al di là di Ventimiglia, di Chiasso, di Gorizia e di Muggia, nonché al largo delle Bocche di Bonifacio e di capo Passero, ci sono pezzi d’Italia geografica e storico-culturale che sarebbe un male, oltre che un peccato, ignorare. In questa rubrica, pienamente mazziniana e democratica per spirito, sarà dunque considerata un’Italia territorialmente tridimensionale, al plurale, in questo caso senza ambiguità. E per rispettare non solo il pensiero di Mazzini, ma anche il rigore scientifico della geografia, si considererà Italia il territorio peninsulare diviso dal resto del continente europeo dalla catena delle Alpi tra la foce del Varo e il vallone di Bùccari (Bakarski zaljev, in croato)[4]; si considereranno altresì parti d’Italia tre isole maggiori (Sicilia, Sardegna, Corsica) e un arcipelago della Sicilia (isole Maltesi).

In quanto alla Dalmazia e alle sue isole, queste non fanno parte geograficamente della penisola Italiana. Al di là del fatto, come sosteneva a suo tempo il valente geografo Giotto Dainelli, che questa regione sarebbe stata separata dai Balcani dalla catena montuosa delle Alpi Bebie e Dinariche, prolungamento della catena alpina oltre la sella di Vrata, in modo tale da renderla, citando a sua volta il tedesco Theobald Fischer, «una regione naturale caratterizzata in modo speciale»[5], è però pur vero che considerarla parte della penisola Italiana vorrebbe dire travisare il significato del termine penisola. Si prenderà pertanto in considerazione l’italianità della Dalmazia soltanto da un punto di vista meramente, per così dire, sentimentale, tuttavia niente affatto slegato da ragioni storiche e in parte anche culturali. Ma l’approfondimento della questione lo si lascerà eventualmente ad un successivo intervento.

Entrando nel cuore della questione. Il regionalismo approssimativo e i suoi frutti

Fatte tutte queste doverose precisazioni si entra adesso nel cuore della questione annunciata nel titolo stesso dell’articolo. L’Italia identitariamente al plurale e che non si concepisce in senso pienamente unitario vede nell’istituzione regionale il felice emblema delle plurime identità locali che compongono il Paese. E l’istituzione regionale ha pertanto assunto il ruolo di perfetto anello di congiunzione fra ciò che è considerata la genuina identità locale e l’artificiosa identità nazionale, dando spesso la precedenza alla prima nel linguaggio politico e finanche nel parlato quotidiano. È già stato segnalato l’uso improprio del termine Governatore nel dibattito pubblico, entrato comunque ormai nell’uso corrente, laddove il termine costituzionalmente esatto (art. 121 Cost.) è Presidente della Giunta regionale. Non certo l’altisonante Governatore, quasi si trattasse del vertice istituzionale in uno degli Stati federati che compongono l’unione degli Stati Uniti d’America, oppure un amministratore plenipotenziario inviato dalla Metropoli a governare un territorio coloniale. E cosa dire di frasi ascoltate da decenni, pronunciate da “Governatori” o aspiranti tali al prossimo turno elettorale? Frasi come «amo la mia regione», «tuteliamo i diritti della nostra regione», «prima la nostra regione», «difendiamo l’identità della nostra regione», «la nostra regione merita più attenzione», «credo nelle capacità dei territori che compongono la nostra regione», eccetera.

Parafrasando un vecchio slogan politico, si potrebbe affermare che il nuovo corso sia all’insegna del “tutto nella Regione, niente al di fuori della Regione”. A tal punto che anche i cittadini col passare del tempo, familiarizzando e sottoponendosi a pratiche elettorali su base regionale, iniziano a sviluppare una sempre più marcata identità regionale, in qualche caso sfruttata da certe formazioni politiche di matrice identitaria localista. Sovente nelle chiacchiere con altri connazionali si sente dire «sono campano», «sono lombardo», «sono pugliese» (declinato anche al femminile, s’intende), quando un tempo sarebbe prevalso, nel più tradizionale spirito municipalista italiano, «sono di Salerno», «sono di un paese della provincia di Brescia», «vivo nei dintorni di Lecce». Sembra che questo crescente sia in grado persino di produrre fenomeni di irredentismo regionalista, come nel caso della volontà espressa da numerosi romagnoli e marchigiani di “riunire” il Montefeltro in tutto o in parte alla regione Emilia-Romagna, staccandolo dalle Marche, al fine di ridare più propriamente alla sola Romagna i suoi confini naturali sotto il profilo dialettale. Si ritornerà in seguito sulla questione.

Qui ci preme considerare come nel silenzio della pubblica opinione si sia dovuto accettare il principio che Venezia sia prima di tutto un patrimonio liberamente fruibile ai soli cittadini veneti, più che agli italiani tutti. Come si sa dal 16 gennaio 2023 l’ingresso nella città lagunare avverrà previa prenotazione e pagamento di un biglietto d’ingresso variabile, a seconda del periodo, da un minimo di 3 a un massimo di 10 euro. Saranno esentati dal pagamento e dalla prenotazione, oltre naturalmente ai veneziani e a coloro che a Venezia vi lavorano, studiano o effettuano cure, anche tutti i cittadini residenti in Veneto. Ciò significa che per chi abita in uno qualsiasi dei comuni di quella regione programmare una gita di piacere a Venezia sarà, come è sempre stato per tutti noi italiani, una questione che non necessiterà liste d’attesa o esborsi particolari, mentre per chiunque viva al di fuori dei confini veneti il trattamento riservato sarà pari a quello che a cui dovranno sottostare turisti provenienti da ogni parte del mondo. Producendo peraltro il paradosso che gli abitanti in province o territori già appartenuti fino al 1797 ai domìni di Terraferma della Repubblica di Venezia, ma non compresi nei confini della regione Veneto (Friuli, Bergamasca, Bresciano, Cremasco), dove magari ancora oggi campeggiano incisi nella pietra diversi leoni marciani, simboli del potere della Serenissima, dovranno prenotare con largo anticipo come dei turisti qualsiasi, ospiti nel loro stesso Paese.

Ed è un po’ triste pensare che i discendenti, magari anche ignari di esserlo, di quei non pochi volontari che, nel contesto della Prima guerra d’Indipendenza, eroicamente accorsero a Venezia da tutta Italia (Mezzogiorno incluso) per combattere dalla parte del governo provvisorio veneziano retto da Daniele Manin (22 marzo 1848-22 agosto 1849) contro gli assedianti austriaci, dovranno mettersi disciplinatamente in lista d’attesa assieme a gruppi di turisti venuti da altri continenti, anche solo per constatare se sia meglio l’originale o le copie realizzata a Las Vegas e ad Hangzhou. Se si può salvare il principio del contingentamento degli ingressi, non si possono tuttavia accettare eccezioni e privilegi per cittadini di una sola regione italiana in particolare, considerando che Venezia è primariamente un patrimonio di tutti gli italiani. In questa forma i frutti avvelenati del regionalismo sono pronti a maturare.

Un regionalismo peraltro slegato dalla storia e artefice di dubbie visioni identitarie. Si diceva della tendenza a considerarsi ormai sempre più legati a una determinata regione più che a una città. Non essendoci spesso reali e nette differenze tra dialetti, storie e caratteri da una parte e dall’altra di un confine regionale, è ben strano dover accogliere come cosa normale e ovvia il ragionare della propria identità sulla base di meri confini amministrativi assurti al rango di vere e proprie frontiere identitarie, salvo poche eccezioni. In effetti le eccezioni sarebbero solo tre; esclusivamente due se si considera unicamente l’Italia politica: le tre (due) isole maggiori. In quel caso in effetti i confini storici, geografici e culturali sono ben definiti, essendo terre cinte dal mare. In tutti gli altri casi vige una sorta di fantasiosa costruzione posticcia dell’identità territoriale regionale.

Cosa sono le regioni italiane?

Sarà conveniente ragionare ora su cosa siano le regioni italiane. Ebbene, volendo essere franchi, esse non sono generalmente null’altro che espressioni geografiche create a tavolino in una logica meramente burocratico-amministrativa. Il motivo è presto detto: le regioni italiane non sono affatto, come chiunque conosce un poco di storia d’Italia preunitaria, le eredi post unificazione delle antiche circoscrizioni storiche del Paese. Sono semmai semplici insiemi di circoscrizioni provinciali, create in base alla legge n.204/1859 promossa da Urbano Rattazzi, talvolta ereditate dalle precedenti amministrazioni degli Stati annessi al Regno d’Italia[6] (come nel caso delle province lombarde e duosiciliane), più spesso soggette a rimaneggiamenti, a volte pesanti, nel corso dell’ultimo secolo. Insiemi di province andarono a costituire unità geografiche di conto a fini meramente statistici, più correttamente denominate, dal 1861 al 1947, Compartimenti. Solo con la carta costituzionale repubblicana del 1947 le regioni fecero la loro comparsa ufficiale e con questo nome, sebbene di fatto fosse naturale già prima di allora definire “regioni” ciò che l’algida nomenclatura ufficiale definiva “compartimenti”, se non altro per richiamare la suddivisione dell’Italia in 11 regiones attuata per la prima volta dall’imperatore Augusto.

Regioni statistiche-geografiche che in buona parte, almeno così si diceva, ricalcavano tale prima suddivisione augustea dell’Italia, sebbene naturalmente le regiones romane nulla avessero a che fare dal punto di vista politico amministrativo con l’istituzione regionale attuale, mentre le attuali 20 regioni italiane, anche solo per il fatto stesso di essere quasi il doppio di quelle augustee (si devono escludere Sicilia e Sardegna, che ai tempi di Augusto erano a tutti gli effetti delle province dell’Impero non facenti parte dell’Italia), non ricalcano se non in minima parte e molto rozzamente quelle di età imperiale. Sono dunque un prodotto molto più recente, frutto in parte delle trasformazioni politiche e culturali iniziate con le invasioni longobarde, iniziate canonicamente nel 568, e terminate soltanto al momento dell’unificazione nazionale, nel 1861. Trasformazioni che hanno parzialmente stravolto la partizione augustea della Penisola, creando inedite aggregazioni territoriali; facendo scomparire unità linguistiche-culturali consolidate (nel caso, ad esempio, della Liguria augustea che giungeva fino al corso superiore del Po), facendone emergere nuove, frutto talvolta delle bizzarrie della storia. Alla fine non si può che constatare che i nomi aulici di origine romana che contraddistinguono ancora oggi alcune regioni attuali (Liguria, Emilia [non Romagna], Umbria, Lazio, Campania, Puglia) non sono che orpelli toponomastici rimasti a dare nobiltà ad aggregati territoriali per nulla legati a una qualsiasi identità etnico-linguistica preromana, sia essa ligure, gallo-padana, umbra, latina, campana o apula.

Il caso esemplare del Lazio, regione inventata: dal Latium al Patrimonio di San Pietro

Il caso del Lazio è a suo modo emblematico; verrà pertanto raccontato più nel dettaglio (si consiglia di munirsi di atlante o carta geografica). Il Lazio di fatto è una classica invenzione di una regione postunitaria, per lo meno con tale nome che si richiama espressamente alla Regio I “Latium et Campania” di augustea memoria. Al di là del fatto che Campania e Lazio erano state unite fra loro, convenzionalmente i confini del territorio latino (definito Latium adiectum, “Lazio aggiunto”, rispetto al più esiguo Latium vetus, “vecchio Lazio”, frutto delle conquiste romane ai tempi della monarchia), allargato in seguito alle guerre fra Roma e le altre popolazioni latine durante i secoli V e IV a.C., giungevano fino e non oltre l’attuale fiume Garigliano. Romani propriamente detti, Volsci, Ernici, Aurunci e alcune colonie sabine vivevano su un territorio delimitato a nord-ovest dal basso corso del Tevere, a nord dai monti Cornicolani e Lucretili, per poi seguire la dorsale dei monti Simbruini fino ai monti della Meta e alle Mainarde, da cui la linea di demarcazione scendeva verso il mare attraverso l’attuale territorio cassinese e lungo il corso del Garigliano. Un territorio, dunque, corrispondente in parte alle attuali province di Frosinone, Latina e poco più della metà di quella di Roma sulla sola riva sinistra del Tevere (sulla riva destra c’era l’Etruria).

Al di là dei rimaneggiamenti della suddivisione regionale dell’Italia successiva ad Augusto, con l’inizio delle invasioni barbariche, ma soprattutto in seguito alla guerra greco-gotica (535-553), che portò al rapido spopolamento di Roma e dei centri principali, iniziò la lenta scomparsa del toponimo Latium, o Lazio che dir si voglia, dalla coscienza collettiva. Le incursioni dei saraceni nell’870-910 e alcune sortite di Ungari provenienti dall’Italia settentrionale (927, 937 e 942) fecero il resto. Progressivamente, con la scomparsa di un’identità latina propriamente detta, andò invece affermandosi una nuova identità sulla base dell’autorità pontificia stabilita nella Roma spopolata, decaduta e in rovina dei secoli VIII-IX, in parte anche grazie alla scomparsa della minaccia longobarda che, spingendosi nell’alta Tuscia, grossomodo non oltre l’attuale territorio provinciale viterbese, attentava alla sicurezza e all’indipendenza dell’autorità civile e religiosa papale. Levati di mezzo i longobardi del centro-nord della Penisola per intervento dei franchi (774), l’autorità politica dei pontefici poté estendersi in profondità sulla riva destra del Tevere, fino a conglobare approssimativamente l’attuale territorio viterbese (non senza l’esistenza di potenti e mal tollerate isole giurisdizionali, territori in mano a figure tipiche del mondo feudale del tempo, come i prefetti di Vico). Non era Lazio, bensì quello che si è soliti chiamare Stato della Chiesa o Patrimonio di San Pietro. Territorio che peraltro non comprendeva e che per secoli non comprese la Sabina e, una volta che si costituì il Regno di Sicilia sotto la dinastia dei normanni Altavilla (fine secolo XI), neppure più il territorio cassinese e il litorale compreso fra Terracina e il Garigliano.

Non più Lazio dunque, ma un territorio sottoposto progressivamente all’autorità del Comune di Roma contrapposto al Papato, nonché al Papato stesso, mentre il toponimo Lazio finiva definitivamente nella discarica della storia e prevalevano semmai toponimi quali Campania o Campagna (riferito in seguito anche come Campagna di Roma, cioè la regione a est della capitale fino a comprendere tutta l’attuale Ciociaria, con baricentro nella valle del fiume Sacco), Maritima (il territorio compreso fra Velletri e Terracina, con i monti Lepini e le paludi Pontine) e Tuscia. Tale rimase per secoli la struttura dello spazio soggetto a Roma e alla sempre più radicata autorità pontificia, soprattutto dopo la fine della cattività avignonese (1309-1376). L’antico nome ricomparve soltanto a metà ‘400, in pieno sviluppo umanistico, riesumato da Flavio Biondo nell’opera Italia illustrata (1453)[7]. Latium dunque, ma nulla di più di un nome scambiato fra pochi eruditi e studiosi di antichità. Invero va detto che fra questi eruditi il nome doveva aver fatto breccia, se è vero che poco più di un secolo dopo un riquadro nella cosiddetta Galleria delle Carte geografiche (nel complesso dei Palazzi Vaticani), dipinte nel 1580-1583 su indicazione del domenicano perugino Ignazio Danti, recava la dicitura Latium et Sabina, accanto a quella di Tuscia Suburbicaria per il territorio sulla riva destra del Tevere. Si trattava pertanto di una riscoperta che stava avendo una certa diffusione, ma pur sempre legata al valore storico e geograficamente limitato del toponimo, che non era quindi utilizzato per determinare il nome ufficiale o di uso corrente di alcun territorio dello Stato della Chiesa.

Passarono i secoli e del termine Lazio usato in forma ufficiale o nel linguaggio parlato non c’era traccia. E non riemerse neppure in seguito alla conquista napoleonica dell’Italia. Se nel 1809 l’embrione di quello che sarebbe stato il Lazio post unitario fu costituito in un’unica suddivisione amministrativa annessa all’Impero Francese, il dipartimento del Tevere (suddiviso nei circondari di Frosinone, Rieti, Roma, Tivoli, Velletri, Viterbo), il suo nome era giustappunto derivato dal fiume che lo attraversava (come solitamente in uso nella toponomastica amministrativa di marca francese) e non dall’antico appellativo di origine romana. Tuttavia andava segnalata una novità: per la prima volta al territorio di Roma era aggregato il Reatino, ovvero la Sabina propriamente detta, corrispondente alla metà sud-occidentale dell’attuale provincia di Rieti (escluso quindi l’ex circondario di Cittaducale che, con l’alta valle del Velino e la valle del Salto, era invece considerato terra abruzzese, da secoli parte del Regno di Napoli). Novità che scomparve peraltro con la restaurazione pontificia nel 1815.

Il Latium ridestato dall’unità nazionale. Con grande prodigalità.

Il Lazio non era ancora niente in veste ufficiale. Per un ritorno in pompa magna del termine si dovette quindi aspettare l’unità nazionale che, come si sa, raggiunse Roma e la residua parte dello Stato Pontificio (sussistente su quello che era stato il dipartimento napoleonico del Tevere, escluso il circondario di Rieti) nel 1870. Tale infatti fu il nome col quale la neonata provincia di Roma del Regno d’Italia costituì da sola il compartimento (regione) del Lazio. Un Lazio di dimensioni ridotte rispetto all’attuale, trattandosi né più né meno della regione romana rimasta sotto il controllo papale dal 1860 al 1870. Rieti e il suo circondario (la Sabina propria) facevano parte della provincia di Perugia, che da sola, allora una delle province più vaste del Regno, costituiva il compartimento dell’Umbria. Il resto di ciò che per la seconda volta nella storia era ufficialmente denominato Lazio comprendeva gli attuali territori provinciali di Viterbo, Roma, Frosinone e Latina, con l’eccezione dei circondari di Sora e Gaeta, aggregati alla provincia della Terra di Lavoro (con capoluogo Caserta), parte del compartimento della Campania. La linea di demarcazione fra i due compartimenti del Lazio e della Campania ricalcava così fedelmente il vecchio confine fra lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie, più arretrato verso Roma di circa 30-40 chilometri lineari rispetto all’attuale confine tra Lazio e Campania. Era stata addirittura aggregata alla Campania ciò che un tempo era stata l’exclave pontificia di Pontecorvo.

La superficie del redivivo Lazio dopo il 1870 misurava pertanto all’incirca 12.140 chilometri quadrati. Rispetto alle superfici del Latium vetus, quello arcaico delle origini (VIII-V secolo a.C.), di appena 2350 chilometri quadrati, e del Latium adiectum, di quasi 9000 chilometri quadrati, si trattava di un allargamento significativo. Tanto più che entravano a far parte del Lazio per la prima volta circa 5000 chilometri quadrati corrispondenti a un’area che non era mai stata parte del Lazio di classica memoria, ovvero la Tuscia (corruzione medievale del termine Etruria), corrispondente alle attuali province di Viterbo e quasi metà della provincia di Roma, ovverosia l’intera porzione posta alla destra del Tevere (salvo alcuni chilometri attorno all’Urbe, considerati parte del Latium  anche nell’antichità).

Tuttavia il processo di rimaneggiamento e ridefinizione dei confini di questa regione (come anche di altre regioni italiane nel periodo post unitario) non era terminato. La prima fase si aprì nel 1923, quando, sulla base dei pieni poteri concessi con legge n.1601 del 3 dicembre 1922, furono emanati dal governo di Benito Mussolini un buon numero di regi decreti atti a razionalizzare il sistema amministrativo, sia in ambito meramente burocratico-strutturale, sia anche in termini di ridisegno della geografia amministrativa e giudiziaria[8], che soffriva degli squilibri prodotti dall’adozione, con poche modifiche, delle circoscrizioni amministrative degli Stati preunitari. Capitava così di trovare province molto estese e popolate accanto ad altre con superfici esigue e scarso popolamento. Una razionalizzazione era effettivamente necessaria e all’epoca non c’era bisogno del consenso o addirittura dell’iniziativa diretta dei territori, come prevede invece dal 1947 l’attuale carta costituzionale (art. 132 Cost.), con una procedura perfezionata in seguito alla revisione (2001) del Titolo V della Parte II: si procedeva d’ufficio. E così fu a partire dal 1923. Istituite le province di Viterbo e Frosinone, scorporando i loro territori dalla vasta provincia di Roma, a Roma fu in cambio aggregato il circondario di Rieti (corrispondente all’incirca a metà dell’attuale provincia, come in età napoleonica). La superficie complessiva del compartimento del Lazio ascendeva così a circa 13.600 chilometri quadrati.

Non era finita, perché l’ultimo e definitivo riordino amministrativo, attuato nel 1927, comportò da una parte l’istituzione della provincia di Rieti, comprensiva dell’unione dei due circondari di Rieti (già parte del Lazio dal 1923) e di Cittaducale (territorio dal XII secolo appartenuto agli Abruzzi e al Regno di Napoli), provincia che assunse pertanto la forma attuale, mentre dall’altra, con la soppressione della provincia della Terra di Lavoro (Caserta) furono aggregati al Lazio (alle province di Frosinone e, in seguito, di Littoria/Latina) i circondari di Sora e Gaeta, quest’ultimo comprendente anche le isole di Ponza, Palmarola, Zannone e Ventotene, geograficamente costituenti parte dell’arcipelago Campano. La superficie del Lazio raggiunse così le dimensioni attuali di 17.207 chilometri quadrati, quasi il doppio rispetto al Latium storico.

Gli incerti criteri per definire i confini regionali

Qual era stato il criterio per creare questa regione “inventata”? In verità se ne usò più di uno, talvolta contraddicendoli fra loro, ma con l’unico minimo comun denominatore della maggiore razionalità amministrativa, a scapito dunque di un’identità storica, geografica e culturale. Perché se è vero che con il criterio storico si unì al Lazio l’estremità orientale dell’antico Latium adiectum, è pur vero che da un punto di vista culturale e identitario quella parte della regione, dopo secoli di assoggettamento al Regno napoletano, era ed è ancora oggi una realtà ibrida, da un punto di vista dialettale ad esempio più campana che laziale, così come da un punto di vista architettonico (il centro storico di Gaeta rende senz’altro l’idea). Tuttavia secondo il criterio linguistico-dialettale fu considerato logico aggregare al Lazio l’attuale provincia di Rieti perché vi si parla tuttora un dialetto linguisticamente affine alla famiglia dei dialetti laziali, sebbene in questo caso l’adesione al modello culturale-dialettale contraddicesse il criterio storico, dato che Rieti non era mai stata legata amministrativamente a Roma e che, per di più, una metà del suo territorio provinciale era appartenuto per secoli al Regno di Napoli, dunque culturalmente ibridato con l’identità abruzzese (anche in questo caso l’architettura lo testimonia). In quanto alla Tuscia, sebbene essa non fosse mai stata parte del Lazio in senso storico-antichista, è pur vero che la secolare dipendenza dallo Stato della Chiesa e più direttamente da Roma ne aveva profondamente inciso l’identità, da un punto di vista culturale e linguistico-dialettale.

Ad ogni buon conto si è mostrato come l’identità della regione italiana chiamata Lazio sia molto meno definita di quanto si creda, tanto più che ancora oggi la famiglia dei dialetti laziali o “mediani”, come li definisce la Carta dei dialetti d’Italia edita dal CNR (1977), sulla base degli studi dei linguisti Giovanni Battista Pellegrini e Manlio Cortelazzo, si estende anche alle parlate di tutta l’Umbria e di gran parte delle Marche, oltre che ad alcuni comuni della Maremma grossetana e persino della conca aquilana, mentre la cadenza di un abitante di Cassino o di Gaeta richiama di più quella napoletana. Verrebbe da chiedersi pertanto cosa sia il Lazio e se i loro abitanti saprebbero dirlo. Ma la stessa domanda, ne siamo certi, farebbe sorgere dubbi a gran parte degli abitanti di tutte le regioni d’Italia, tranne ai siciliani, ai sardi e (se ne facessero parte politicamente) ai corsi, che il mare aiuta a circoscrivere con nettezza i loro limiti identitari storico, geografici e dialettali (fatto salvo per l’influenza corsa sul dialetto gallurese). Per tutto il resto si potrebbero formulare ipotesi su ipotesi e non si approderebbe probabilmente a niente di certo.

Un’altra regione di dubbia identificazione, la Lombardia 

Che cos’è ad esempio la Lombardia? Stando a quel leghismo che si è fatto interprete della strenua difesa dell’identità lombarda, passando dalla rivendicazione di un modello di governo federale e, da ultimo, all’autonomia differenziata per quella regione, Lombardia è qualsiasi comune sul quale sventoli una pur sbiadita bandiera con la rosa camuna stilizzata in bianco su fondo verde (simbolo a sua volta totalmente privo di storia, frutto di una proposta grafica nel 1995). Ovverosia la Lombardia amministrativa. Viene da commentare: troppo facile e sciattamente approssimativo. Peccato infatti che il toponimo Longobardia (da cui deriva Lombardia) nella storia si sia col tempo geograficamente contratto, partendo da una estensione massima che, a cavallo fra alto e basso Medioevo, includeva gran parte della penisola Italiana, isole maggiori escluse, ovverosia il territorio che era stato sottoposto al dominio dei Longobardi. Se ancora per poco più di un secolo dopo la battaglia di Legnano (1176) ci si riferiva a Lombardia come il territorio della Penisola soggetto formalmente al Sacro Romano Impero, tanto che in Europa i “lombardi” erano molto spesso considerati gli italiani tutti, sovente prestatori o mercanti di origine astigiana e lucchese, col passare del tempo se ne abbandonò parzialmente l’uso, facendo in seguito aderire l’aggettivo “lombardo” solamente al territorio soggetto al dominio dei signori di Milano, dapprima i Visconti (1277-1447), poi gli Sforza (1450-1535).

Territorio che, durante la sua massima espansione, durante la signoria del duca Gian Galeazzo Visconti (1385-1402), giunse a inglobare gran parte della Valle Padana (comprese le città di Verona e Vicenza e i loro contadi), fino alla dorsale alpina e per breve tempo persino alcune città della Toscana e dell’Umbria con i loro contadi (Pisa, Siena, Perugia). In seguito le fortune della Lombardia, anzi dello Ducato di Milano, declinarono e, tra le conquiste veneziane di Terraferma, la progressiva emancipazione dei ducati emiliani, la lenta ma inesorabile avanzata dei Savoia verso il Ticino e, non ultimo, le conquiste dei confederati svizzeri durante le guerre d’Italia, il territorio lombardo finì per restringersi a un assai ridimensionato Stato di Milano, soggetto prima alla Spagna (1535-1714), poi all’Austria (1714-1796), che non si estendeva neppure su metà della superficie dell’attuale Lombardia. E a questo punto potrebbero iniziare la serie di domande, tra cui: possono considerarsi prettamente lombardi territori, come quelli di Bergamo, Brescia e Crema, rimasti sotto dominio veneziano dal 1428 (a Crema dal 1447) fino al 1797? Tre secoli e mezzo abbondanti di cultura veneta lasciano segni, malgrado tutto. Esistono poi confini geografici o storici nettamente definiti per quanto riguarda la Lombardia? In questo caso pare già di sentire la risposta: il silenzio. D’altra parte, stando anche alla già citata Carta dei dialetti d’Italia, nemmeno per una visione dell’identità lombarda da un punto di vista dialettale ci sarebbero degli elementi solidi e incontrovertibili. O meglio, ci sarebbero parzialmente, ma a patto di non considerare l’ente regionale definito con il nome di Lombardia come unico rappresentante di un’identità locale su base linguistico-dialettale e culturale.

Regioni sulla soglia dell’autonomia differenziata: le mai chiarite ambizioni lombardo-venete

Più facile, molto più facile in effetti è definire confini storici, geografici e linguistici per la penisola Italiana. Aveva ragione Mazzini: «la patria meglio definita d’Europa». Ed è quindi dentro questi confini che dovremmo ricercare la nostre identità, senza andare a impelagarsi in questioni di lana caprina per stabilire quale identità locale, su base regionale, prevalga di più su altre in un determinato territorio. In fondo siamo tutti italiani, per stirpe o per naturalizzazione, ed è questo che conta. Il rischio a lungo andare è di ricercare le differenze dove in realtà non ce ne sono, scambiando semplici confini amministrativi per frontiere storico-culturali e cedendo alla tentazione di vedere la nostra identità riflessa in una piccola patria pronta a rivendicare la sua specificità anche a livello governativo. Le piccole patrie, come abbiamo potuto sperimentare per esperienza diretta negli ultimi decenni (Catalogna docet), si nutrono anche di vantaggi politici legati ad esperienze di autogoverno. L’autogoverno dopo qualche decennio finisce per formare una “tradizione” di esperienza politica che non potrà mai più essere ricondotta nel solco di una maggiore centralizzazione amministrativa, anche se assai blanda o circoscritta a settori strategici; potrà soltanto essere ampliata e spinta eventualmente fino alle estreme conseguenze di una contrapposizione frontale con la Patria nazionale, ritenuta opprimente matrigna e dalla quale si vorrebbe staccarsi per intraprendere un percorso di indipendenza e sovranità effettiva.

La Lombardia vorrebbe in futuro intraprendere questa strada? O magari il Veneto? Regione nel quale l’ambiguo “governatore” Luca Zaia sembra interpretare dal 2010 la parte di colui che, se da un lato assicura di voler applicare alla lettera il dettato costituzionale, rivendicando la cosiddetta autonomia differenziata per la sua regione, così come stabilito con la riforma del Titolo V nel 2001, dall’altro mostra di nutrire una sospetta visione storica, esaltando sempre il ruolo della Serenissima a scapito dell’esperienza postunitaria italiana, pressoché taciuta, quasi come se, persa l’indipendenza nel 1797, la Repubblica di Venezia aspettasse ancora oggi di essere restaurata, rappresentando il 1866 soltanto un passaggio di mano da un’amministrazione straniera (quella austriaca) ad un’altra (quella italiana). Il fatto di essersi riferito, in molte occasioni e con un certo sincero trasporto, a una “identità” veneta, a un “popolo” veneto, mentre mai si è riferito chiaramente ai veneti come portatori di una identità italiana o come parte del popolo italiano, limitandosi al massimo ad omaggiare le alte cariche dello Stato e a dilettarsi con omologhi presidenti di giunta sulle differenze gastronomiche fra le loro regioni, fa venire più di un dubbio se ci si trovi di fronte a una versione italiana (anzi veneta) di Jordi Pujol, il fondatore dell’autonomismo catalano, padre spirituale degli indipendentisti Artur Mas e Carles Puigdemont.

Ad ogni modo un’eventuale restaurazione della terza Repubblica di Venezia, dopo la prima gloriosa esperienza plurisecolare e la seconda brevissima parentesi risorgimentale, riproporrebbe il problema (che a quel punto diverrebbe spinoso) sui confini incerti della “identità” veneta e se essa sia riconducibile solamente allo spazio racchiuso entro i confini amministrativi dell’attuale regione Veneto. Che nel frattempo, da quando si è costituita come una delle quindici regioni a statuto ordinario, ha perso un piccolo pezzo del suo territorio, con la devoluzione nel 2017 del comune di Sappada (già in provincia di Belluno) alla regione Friuli-Venezia Giulia. In questo caso ci sia permesso solidarizzare con il presidente Zaia per la perdita.

Piccole secessioni regionali: il caso del Montefeltro

 La secessione di Sappada in compenso permette di tornare a una questione rimasta in sospeso, quando si è evocato una sorta di “irredentismo regionalista” che al momento, come suo maggior risultato, si è concretizzato nella storica (perché mai avvenuta in un millennio) partizione della subregione del Montefeltro. Montefeltro che è un territorio soggetto a un’identificazione geografica esclusivamente in base a un criterio storico, privo com’è di confini fisici ben definiti. E storicamente il Montefeltro è quel territorio corrispondente in gran parte all’omonima diocesi (non è raro che circoscrizioni ecclesiastiche corrispondano in modo più fedele ad antichi confini di territori, contadi e subregioni) che aveva un tempo sede nel borgo attestato sull’antico Mons Feretri, attualmente noto come San Leo.

Da questa piccola subregione, che la Carta dei dialetti italiani del 1977 assegna linguisticamente all’areale gallo-italico e alla famiglia dei dialetti emiliani (come peraltro tutti i dialetti parlati nell’attuale provincia di Pesaro e Urbino), proveniva la ben nota famiglia di signori rinascimentali che resse le sorti di Urbino e del suo ducato (inizialmente contea) dal 1155 al 1508. Ducato di Urbino che proseguì la sua esistenza sotto i Della Rovere per poi, con la morte dell’ultimo duca (1631), confluire sotto l’amministrazione diretta pontificia attraverso l’istituzione di una Legazione. Ciò comportò che tutti i rimaneggiamenti di circoscrizione successivi mantennero inalterata l’unità amministrativa del piccolo Montefeltro, fra le medie e alte valli della Marecchia, del Conca e del Foglia. Persino in età napoleonica fu mantenuta inalterata, confluendo integralmente il Montefeltro nel dipartimento del Metauro annesso alla Regno Italico (1808-15), confinante con il dipartimento del Rubicone. Tale confine rimase anche in seguito alla Restaurazione, a separare la Delegazione apostolica di Urbino e Pesaro (integrante pressoché interamente il Montefeltro) e la Legazione di Forlì, sopravvivendo all’unificazione nazionale (1860) come confine fra le province di Pesaro e di Forlì. Il Montefeltro finiva così per essere incluso nel compartimento delle Marche, dichiarate regione a statuto ordinario dalla Costituzione repubblicana e istituita come ente amministrativo nel 1970.

Poi, nel 2001, è venuta alla luce la revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione che ha cambiato in parte le carte in tavola. Con la parziale riscrittura dell’articolo 132 si dava infatti inizio alle danze delle modifiche territoriali. Nel secondo comma, infatti, è scritto che:

“Si può, con l’approvazione della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Province e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una regione ed aggregati ad un’altra.”

Non era una novità, perché lo prevedeva anche la precedente versione approvata nel 1947, tuttavia l’enunciato nel 2001 era stato perfezionato e reso più chiaro. Ne è derivato, cosa mai avvenuta, un interesse per alcuni comuni a rivedere il loro posizionamento geografico-amministrativo ambendo ad unirsi ad un’altra regione, per cause legate a vantaggi di natura economica, camuffate da visioni identitarie localiste. E così, senza voler percorrere nel dettaglio tutta la trafila, in seguito a un referendum convocato per il 18 dicembre 2006, che ha visto le popolazione locali esprimersi in tal senso, sette comuni della media e alta val Marecchia (tra i quali San Leo) hanno espresso il desiderio di staccarsi dalle Marche e di unirsi all’Emilia-Romagna, decisione formalizzata con atto del consiglio regionale delle Marche nel giugno 2009. L’unità storica e amministrativa del Montefeltro, mantenuta per quasi un millennio, veniva così rotta attraverso democratico consenso, con la partizione fra Marche ed Emilia-Romagna. I “patrioti” regionalisti romagnoli, forse anche per un accrescimento dell’influenza del partito della ex Lega Nord in quelle province, si inorgoglivano per il ritorno di quel territorio di 328 chilometri quadrati alla loro regione naturale, ambendo magari a nuove “redenzioni”, come effettivamente avvenuto nel 2021, con l’annessione di altri due comuni feltrini.

Le non conclusioni, in attesa dei prossimi frutti del regionalismo

Verrebbe da commentare che con tutti i problemi del nostro Paese queste minutaglie potrebbero benissimo passare inosservate, tuttavia sono il sintomo di un generale scivolamento del sentimento identitario verso posizioni schiacciate su un localismo regionalista estremo. Tale quasi da confondere le regioni con delle nazioni, mettendo persino da parte le storiche rivalità municipalistiche, da cui derivava l’attaccamento degli italiani alla propria città più che alla regione. Eppure il futuro è proprio questo, anzi negli ultimi tempi sembra essersi tramutato in futuro prossimo venturo, considerando che il governo presieduto da Giorgia Meloni e compartecipato dalla Lega ha inserito nel programma di governo quella riforma in senso federalista su base regionale, attraverso il processo denominato di “autonomia differenziata”, che, se attuata, potrebbe cambiare nei decenni a venire in modo radicale la visione identitaria degli italiani. Italiani che sono identitariamente sempre più stretti fra un’incudine europea, che appiattisce le identità nazionali gettandole nel calderone neocarolingio di Bruxelles, e il martello regionalista, contrappeso abilmente sfruttato dalle élite tecnocratiche europee per indebolire, frammentandole, le identità nazionali, soffiando così sul fuoco delle piccole patrie. Non si può escludere che, se dovesse attuarsi la riforma in senso federale, dopo un periodo di transizione della durata di una generazione o poco più (il tempo di indottrinare i giovani cresciuti ed educati nella regione ad autonomia differenziata), potrebbero approdare anche sul suolo italiano le istanze indipendentiste su base regionalista che abbiamo visto all’opera negli ultimi anni, soprattutto in Catalogna e in Scozia. Considerando le dimensioni più ridotte delle nostre regioni non si può escludere che tali ambizioni potrebbero concretizzarsi con l’unione di più regioni finalizzata a tale scopo, quelle macroregioni teorizzate dal cattivo maestro Gianfranco Miglio.

A quel punto ciò che oggi definiamo dettagli meno che secondari potrebbero assumere un’importanza maggiore, dato che semplici e approssimativi confini amministrativi potrebbero aspirare a tramutarsi in confini di Stato. E la guerra russo-ucraina, così come il conflitto in ex Jugoslavia, indicano come siano spinose e laceranti le rivendicazioni sorte sulla scorta di un’approssimativa (come è giusto che sia) ripartizione territoriale ereditata dalle precedenti suddivisioni degli Stati nazionali o plurinazionali nel quale questi territori erano inclusi. Naturalmente un tale scenario è fin troppo catastrofico se applicato a un Paese mediterraneo e di indole meno bellicosa quale è il nostro, Paese che peraltro, al netto del plurisecolare municipalismo di vecchia memoria, poi in seguito del separatismo siciliano, del leghismo padano, del neoborbonismo e di varie altre galassie politiche che promuovono visioni identitarie localiste con intenti secessionistici, è riuscito a passare indenne attraverso tutte le tempeste nei suoi centosessantuno anni di esperienza unitaria, senza uscirne territorialmente diviso. Almeno per ora. Non si può escludere pertanto che avesse ragione Mario Draghi a sostenere che «i governi passano, l’Italia resta», che potremmo volgere anche in «le riforme autonomistiche passano, l’Italia resta». Ma non possiamo essere neppure così sicuri che il motore della storia, con la consueta spiazzante imprevedibilità, possa avere in serbo per questa vecchia Penisola un destino diverso e meno roseo, forse anche un po’ catastrofico per la tenuta dell’unità nazionale. Catastrofico naturalmente solo per coloro che non equivocano l’identità regionale con quella nazionale.


[1] Giuseppe Mazzini, Dei doveri dell’uomo, 1860; ed.2010 (Milano, Rizzoli-BUR), pp.67-68.

[2] Ivi, p.68

[3] Giuseppe Mazzini, La pace, in “Unità Italiana”, 25 agosto 1866; tratto da Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, vol. XIV, Politica – vol.XII (Dio e il Popolo), Roma, 1885, p.215

La “religione italiana di Dante” a cui fa riferimento Mazzini si riferisce a due versi della Divina Commedia, in seguito più volte citati dal medesimo in altri suoi scritti: «sì com’a Pola, presso del Carnaro/ch’Italia chiude e suoi termini bagna» (Inferno, Canto IX, 113-114).

[4] A differenza della Suddivisione Orografica Internazionale Unificata del Sistema Alpino (SOIUSA), che dal 2007 esclude parte delle Alpi Giulie e l’intero Carso dal sistema orografico alpino, sembrerebbe accogliendo pressioni politiche giunte dalla Slovenia, il sistema detto di Partizione delle Alpi, adottato in base alle conclusioni del IX Congresso Geografico Italiano (1924), in uso ancora oggi in numerosi testi e pubblicazioni italiane e francesi, accoglie un punto di vista che ingloba nel sistema alpino le Alpi Giulie meridionali e l’intero Carso, fino al golfo di Fiume e al citato vallone di Bùccari, estremo limite orientale continentale della penisola Italiana.

[5] Giotto Dainelli, Prontuario dei nomi locali della Dalmazia, in “Memorie della Reale Società Geografica Italiana”, vol. XV (III), 1918, p.327

[6] Piero Aimo, Stato e poteri locali in Italia (1848-1995), Roma, Carocci, 1997, pp.30-32

[7] Alcune informazioni essenziali sulla storia del territorio regionale si ottengono consultando la voce “Lazio” sull’Enciclopedia italiana Treccani; inoltre, Lazio (Guida d’Italia), Milano, Touring Club Italiano (ed.1981), pp.73-75.

[8] Piero Aimo, Stato e poteri locali, op.cit, pp.105-110.

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