EDIFICARE COME SE LA SABBIA FOSSE PIETRA

  News, Rassegna Stampa
image_pdfimage_print

La contingenza della vita, il problema della morte e il divenire del mondo.

Roma – È una mattina assolata quella del 26 dicembre a Roma. L’aria è fresca ma non fredda, il sole è alto e fa sentire il calore e la potenza dei suoi raggi. In fondo, il solstizio d’inverno è alle spalle, il sole è di nuovo vittorioso e le ore di luce iniziano, pian piano, ad aumentare. È la giornata perfetta per andare ad ammirare il presepe in piazza San Pietro. L’aggancio con il cantico di Zaccaria è l’ideale:

«Per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge, per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,78-79).

L’opera si chiama Sand Nativity, effettuata dagli scultori Susanne Ruseler, che ha lavorato sui pastori e sugli animali a sinistra, da Ilya Filimontsev, che ha scolpito il nucleo centrale della Sacra Famiglia e l’Angelo, e da Radovan Zivny, che ha cesellato i volti e le vesti dei Re Magi nella parte destra della scena; coordinati dall’americano Varano. Essa è composta dalla sabbia della spiaggia di Jesolo, per una superficie di circa 25 metri, con il bassorilievo di 16 metri di lunghezza, 5 di altezza e 6 di profondità. Sul pannello a destra, la citazione è dello scrittore argentino Jorge Luis Borges: «Nulla si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra».

Davanti a questa scultura il tempo sembra cristallizzarsi, anzi divinizzarsi. Un tempo ormai compiuto, passato, ma che si fa eterno. Un tempo liturgico. Una nascita che annuncia l’eternità a venire. Se nel Cantico dei Cantici risuona il «perché forte come la morte è l’amore» (Ct 8,6), qua è evidente che l’amore ha sconfitto la morte. Non si ha la sensazione di essere davanti ad una nascita normale e solamente umana, che trasmetterebbe sì gioia, ma non più forte della morte, ovvero senza un rimando ulteriore. L’opera è ricca di particolari e dettagli, ma la mano aperta di Giuseppe sembra proprio suggerire il cristallizzarsi del tempo, il suo andare oltre lo scorrere normale. Nessuno dei personaggi guarda l’altro, essi sono assorti in contemplazione, in qualcosa che li oltrepassa: è il loro atto di adorazione nei confronti del mistero e del paradosso, tutto cristiano, del Logos che si incarna! Si ha una sensazione di raccoglimento, come se si stesse in preghiera, in ascolto. La resurrezione è già avvenuta. Ricordando la sua nascita, tutto è proiettato nell’attesa della sua nuova venuta: gli esseri umani, la creazione, il mondo. È una nascita che significa già parusia, venuta. Un’attesa che contempla e coinvolge tutti e tutto.

Il materiale della scultura e la frase dello scrittore argentino, ci ricordano che tutto è contingenza, che tutto inizia e finisce, tutto ciò che sperimentiamo passa, si nasce e si muore. La vita è sabbia, diviene e si trasforma nel molteplice. Ma se la morte fosse l’ultima parola, quella definitiva, questa vita così costituita e fondamentata non avrebbe senso: niente avrebbe senso nell’oblio finale, nel non-essere più. Chi ama spera nell’eternità. Davanti al non-senso della vita, l’unica risposta ragionevole è proprio quella dell’amore, fino al suo limite estremo, quello della croce: amare per non perdersi, amare per essere davvero, amare per trovare il senso. E sfuggire così davanti alla pazzia del non-senso. L’uomo da solo non si salva, è redento da Dio perché Dio s’incarna. Amare, allora, di un amore donato, il passo iniziale è stato fatto da Dio, non dall’uomo. Amare di un amore corrisposto. Amare perché si è già amati. La sabbia diventa così pietra. Solo questo è l’amore che salva.

                                                                                                                                  Emanuele Cheloni

EDIFICARE COME SE LA SABBIA FOSSE PIETRA