Era davvero necessario un altro Pinocchio?

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Una recensione o una qualsivoglia critica deve essere prima di tutto oggettiva e per nulla arbitraria. Ma per me, che ho imparato a leggere e a scrivere con le avventure del bizzarro burattino e che sono cresciuto con la fobia paranoica di vedermi spuntare due lunghe orecchie di asino se non studiavo (grazie mille, Walt Disney!), parlare di Pinocchio non è mai facile. Tuttavia, è necessario dedicare due parole sull’ultima fatica di Matteo Garrone, se non altro per il clamore che ha generato nel panorama cinematografico italiano. Prima di tutto desta molta curiosità la dicotomia incassi-critica: da una parte infatti, grandi e piccini hanno particolarmente apprezzato la pellicola (non si spiegherebbero altrimenti i 6,5 milioni di euro registrati in poco più di due settimane, senza contare che sta attualmente tenendo testa a film come “Star Wars: Episodio IX” e “Il Primo Natale”), d’altro canto questo nuovo Pinocchio spacca in due la critica. La firma di Matteo Garrone è probabilmente croce e delizia di questo film: se da una parte il suo nome ha assicurato finora un notevole ritorno economico, è altresì vero che è proprio il suo nome a inasprire le penne di quei critici che da un grande regista come lui si aspettavano qualcosa in più. Ma tra rigidi detrattori e recensori entusiasti, a quale corrente accodarsi?

Matteo Garrone dopo “Il racconto dei racconti – The Tale of Tales” (ispirato all’antologia fiabesca Il Cunto de li Cunti) e “Dogman” (ispirato invece ai raccapriccianti eventi del Canaro della Magliana) decide di portare in scena il Pinocchio di Collodi… anzi riportare, dal momento che, tra film e cartoni animati, il grande pubblico ha avuto modo di vedere la storia del burattino Pinocchio in tutte le salse. Per il Pinocchio di Garrone, i due termini di paragone non potevano che essere il Pinocchio di Roberto Benigni senza infamia e senza lode e l’immortale e leggendaria miniserie RAI di Luigi Comencini: fermo restando che entrambe sono due opere figlie di un’epoca molto diversa dalla nostra e destinate a un pubblico molto diverso da quello di oggi, nella memoria collettiva confronti e paragoni sono inevitabili.

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Con le sue atmosfere buie e grottesche, questo Pinocchio ha fatto e farà molto parlare di sé…

Il Pinocchio di Garrone mantiene nella narrazione una certa fedeltà al testo collodiano, senza tuttavia rimanervi attaccato pedissequamente: con le sue atmosfere un po’ dark un po’ fantasy Garrone cerca di creare un microcosmo tutto suo, un mondo a sè stante, con luci e ombre (molte, molte ombre!) che sembra quasi avere una propria mitologia interna. Nel voler dare vita a questo mondo magico e fiabesco, tuttavia Garrone scivola nell’orrido e nel raccapricciante: ne sono una testimonianza gli animali antropomorfizzati, i mostri ripugnanti e il design dello stesso burattino che più che un burattino sembra un bambino con la pelle di legno, una sorta di freak dei circhi americani d’inizio ‘900.

Dal punto di vista tecnico il film non eccelle, ma neanche è da condannare: con i suoi effetti speciali, la fotografia, il montaggio e la colonna sonora, il Pinocchio di Garrone regge il confronto con le tante pellicole che invadono ogni giorno i cinema italiani senza fare brutta figura. Anche il cast, che vanta grandi nomi del teatro italiano (comico e non), è di tutto rispetto: eccezionale è il Mangiafuoco di Gigi Proietti e convincenti sono Ceccherini e Papaleo (forse più il primo che il secondo) nei panni del Gatto e della Volpe. Ma il vero vanto del film è Roberto Benigni, che dopo aver interpretato il burattino collodiano nel 2002 viene qui proposto nelle vesti del buon Geppetto, ruolo che interpreta magistralmente. Se Garrone avesse dedicato l’intera pellicola alla figura di Geppetto, a quest’ora staremmo parlando di un film meraviglioso: Benigni rende alla perfezione l’umanità, la gratuità e l’intima delicatezza di questo personaggio. Con il suo accento toscaneggiante e quella sua mimica bizzarra e sbarazzina, Benigni rende giustizia alla figura umile e amorevole di Geppetto, che tanto si prodiga e si affanna per quel figliolo “nato” per magia da un ceppo di legno.

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Da sinistra verso destra: Federico Ielapi (Pinocchio), il regista Matteo Garrone e Roberto Benigni (Geppetto)

Il vero problema di questo Pinocchio è Pinocchio stesso: interpretato senza troppe sbavature da un promettente Federico Ielapi, manca in questa figura quella raffinata complessità che Collodi aveva tratteggiato nel romanzo. Non c’è quella lotta tra bene e male, non c’è la tentazione che prevale sui buoni propositi. Manca del tutto quel viscerale desiderio di diventare un bambino che ha distinto tutti gli altri “Pinocchi” del cinema. Il Pinocchio di Garrone è un personaggio piatto, vuoto, indifferente, fine a sé stesso, vittima degli eventi e di un mondo crudele e meschino. Manca in lui quel conflitto interiore che mette in contesa la svogliatezza e la volontà di essere un buon figlio e un buon scolaro; mancano il rimorso, il senso di colpa, quell’indolenza che si alterna e si contrappone al senso del dovere: mancano, in generale, quelle mille sfumature e contraddizioni che rendono questo personaggio uno dei più affascinanti della letteratura mondiale. In questo film, l’acerbità, la banalità e la più totale mancanza di consapevolezza di sé rendono questo Pinocchio un personaggio difficile da empatizzare, anzi quasi ispirano indifferenza.

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Forse indifferenza è la parola che contraddistingue questo film: le due ore e cinque minuti di film scorrono abbastanza velocemente, ma il film non trasmette grandi emozioni. Non lascia quella morale intensa e profonda che sembra quasi arricchire l’anima. Racconta una storia che è già stata raccontata, la riassume sommariamente dimenticandosi di inserire quegli elementi patetici e commoventi che servono oggi più che mai alle nuove generazioni. Un film non brutto, ma che disperde la tensione tra la dolcezza di una povertà rassegnata e la frenesia di una reazione inevitabilmente distruttiva. Questo Pinocchio ha la grave colpa di non riuscire a immergere lo spettatore in quel mondo rurale a volte statico a volte dinamico che aveva immaginato Collodi.

Era necessario? Assolutamente no. Matteo Garrone ha fortemente desiderato questo film lavorandoci sopra per ben quattro anni, ma si limita a riproporre la favola collodiana senza inserire alcuna nota autoriale (eccezion fatta per quegli elementi grotteschi e inquietanti di cui abbiamo già parlato) forse per paura di contaminare quella favola che lo ha sempre affascinato fin da quando era bambino. Quel che ne viene fuori è una pellicola che non spicca in nulla se non nella magnificenza visiva e scenografica, ma che non trasmette nulla di nuovo. Pinocchio rimane dunque, tra critiche e incassi, un esperimento cinematografico controverso, e saranno solo il tempo e la fortuna a dirci se questo film rimarrà o meno una perla della cinematografia italiana. Nel frattempo, là fuori ci sono e ci saranno tante altre belle storie che Matteo Garrone saprà raccontare egregiamente su pellicola.

Voto finale: 4-/10

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