Le proteste continuano a infiammare la Bielorussia ma il governo non vuole cedere di un passo e continua a minacciare i manifestanti attraverso accuse penali, con l’obiettivo di contenere le numerose proteste popolari delle ultime settimane. Intanto Svjatlana Cichanoŭskaja, leader dell’opposizione e già candidata alla presidenza, ha dichiarato dalla Lituania, dove è ora rifugiata: «Il futuro della Bielorussia, e quindi il futuro dei nostri figli, dipende ora dalla vostra unità e dalla vostra determinazione. Vi chiedo di continuare ad espandere gli scioperi, non fatevi intimidire, restate uniti».
LE CONTROVERSE ELEZIONI PRESIDENZIALI
Domenica 9 agosto 2020 si sono tenute in Bielorussia le attese elezioni presidenziali. Al voto si sono scontrati l’attuale presidente Alexander Lukashenko, la candidata del partito indipendente “Paese per la Vita” Svjatlana Cichanoŭskaja e un’altra donna sempre nella lista degli indipendenti, Hanna Kanapackaja. Nonostante diversi sondaggi pre-elettorali dessero come sconfitto Lukashenko e le indipendenti in testa, con uno scarto di diverse decine di punti percentuali, i risultati hanno spiazzato tutti. Con l’80% dei voti, in pratica un plebiscito, il presidente uscente è stato riconfermato, per il suo sesto mandato consecutivo. Alexander Lukashenko è in carica infatti dal lontano 20 luglio 1994, vantando ben ventisei anni di guida ininterrotta del Paese.
La notizia, in realtà, se inquadrata all’interno delle logiche di un regime autoritario ormai ventennale, non risulta così sconvolgente. La campagna elettorale di Lukashenko è stata spietata e fortemente autoritaria: sono state vietate candidature, arrestati avversari politici e usate minacce e pressioni per convincere i cittadini a rieleggere il presidente in carica.
Le accuse di falsificazione dei risultati elettorali sono cominciate già la sera stessa delle elezioni, quando la Tv sponsorizzata dal governo bielorusso ha mandato in onda i risultati degli exit poll che mostravano Lukashenko vincente con l’80,23% dei voti e Cichanoŭskaja con appena il 9,9%.
Persino figure filo-governative hanno ritenuto improbabile la veridicità di questi exit poll. Così già la sera del 9 agosto, i sostenitori di Cichanoŭskaja sono scesi in piazza in tutte le principali città del Paese (Minsk, Brėst, Vicebsk, Mazyr, Hrodna, Homel’, Pinsk, Babrujsk). Le persone hanno espresso profonda insoddisfazione e hanno chiesto un conteggio equo dei voti. Inizialmente si è trattato di proteste pacifiche, ma a Minsk la situazione è degenerata velocemente in violenti scontri tra manifestanti e forze di polizia.
LE PROTESTE CHE INFIAMMANO IL PAESE
Le proteste in Bielorussia sono iniziate prima delle elezioni presidenziali e sono tutt’ora in corso. Si è trattato di una serie di manifestazioni popolari contro il governo, definite anche “rivoluzione delle ciabatte“, cominciate il 24 maggio per le accuse di corruzione nel governo e per il rifiuto di quest’ultimo di adottare misure di contenimento della pandemia di Covid-19. Le proteste sono partite dalla capitale Minsk per poi diffondersi in tutto il Paese, inasprendosi dopo l’arresto del banchiere e oppositore Viktar Babaryka e del blogger Sjarhej Cichanoŭskij.
La mattina del giorno seguente alle elezioni a Minsk la gente ha iniziato a portare dei fiori sul luogo in cui un manifestante era morto la notte prima. Mentre le proteste infiammavano il Paese a seguito dei risultati falsificati, la candidata dell’opposizione Svjatlana Cichanoŭskaja ha pubblicato un video in cui diceva di aver lasciato la Bielorussia e di essersi rifugiata in Lituania. La decisione è avvenuta dopo esser stata detenuta per sette ore senza motivi validi e costretta a girare un filmato in cui esortava i manifestanti a interrompere le proteste.
Nel corso delle proteste il governo ha schierato anche mezzi speciali: la polizia antisommossa del governo (AMAP/OMON), le truppe interne e la forza speciale d’élite antiterrorismo “Almaz”. È stato riferito che durante gli scontri queste forze speciali hanno utilizzato anche cannoni ad acqua vicino al mercato di Riga e proiettili di gomma ovunque. Inoltre, secondo fonti indipendenti, le squadre dell’AMAP avrebbero sequestrato alcune ambulanze o usato furgoni simili ad esse per ingannare i manifestanti e farli passare attraverso le barricate da loro innalzate.
Il 12 agosto nei pressi di un mercato di Minsk, in segno di protesta contro la violenza della polizia e gli arresti di massa, centinaia di donne vestite di bianco e con fiori in mano hanno creato una catena umana. Nonostante questi gesti pacifici, le violenze della polizia non si sono fermate. Contemporaneamente, alcuni membri delle forze dell’ordine hanno espresso solidarietà ai protestanti pubblicando video in cui gettavano le divise nella spazzatura e chiedevano alle autorità di smetterla di opporsi ai manifestanti.
Il 16 agosto resterà invece una data storica per il Paese: quel giorno, infatti, gruppi di opposizione hanno organizzato in Piazza della Vittoria a Minsk la “Marcia della libertà“, una manifestazione a cui, secondo l’agenzia Reuters hanno partecipato circa 200 mila persone, molte delle quali portavano il vessillo biancorosso, bandiera ufficiale della Bielorussia, diventata indipendente nel 1995.
Il 17 agosto Lukashenko si è recato in visita alla fabbrica di trattori di Minsk dove però è stato aspramente contestato dai lavoratori. Agli scioperi si sono uniti inoltre i lavoratori della Tv di Stato. Sempre in quella data la Cichanoŭskaja ha rilasciato un video in cui si diceva pronta a guidare il paese attraverso un governo di transizione per organizzare delle nuove elezioni presidenziali. Il neo-eletto presidente ha però negato ogni possibilità di nuove elezioni e ha soltanto accennato alla possibilità di indirne di nuove, solo in seguito ad una, secondo lui “necessaria”, modifica della Costituzione tramite referendum.
In questi mesi le proteste sono state spesso represse con la violenza, causando almeno 3 morti, oltre 200 feriti tra i manifestanti e ben 6000 arresti. L’Alto commissario per i diritti umani dell’ONU e numerose altre figure istituzionali hanno condannato la repressione autoritaria delle manifestazioni da parte del governo bielorusso.
In risposta Lukashenko ha affermato che le proteste dell’opposizione sarebbero state orchestrate da un non ben precisato “complotto straniero”, dietro al quale si potrebbero nascondere “americani, NATO, russi o ucraini”.
Intanto il presidente rieletto promette una repressione ancora più feroce e implacabile delle opposizioni.
Dopo la conferma dell’apertura di un procedimento penale a carico dei membri del Comitato che parla a nome dei manifestanti, il Capo dello Stato ha annunciato il licenziamento dei dipendenti statali che hanno scioperato unendosi alle proteste.
Il presidente, sempre negli ultimi giorni, ha rafforzato i controlli alla frontiera con l’Europa, per evitare l’infiltrazione di sostenitori stranieri e ha richiamato all’opera gli agenti anti-sommossa e il Kgb contro quello che definisce “un tentativo di colpo di Stato”.
In molti nel Paese temono che le ultime mosse di Lukashenko siano finalizzate a creare le condizioni ideali per giustificare un intervento militare della vicina Russia sul territorio.
LE REAZIONI E GLI SCHIERAMENTI INTERNAZIONALI
Anche se inizialmente tiepide e in alcuni casi tardive, le reazioni da parte dell’UE e dei suoi principali Stati membri sulla crisi bielorussa sono arrivate. Il 14 agosto l’Alto rappresentante dell’Unione europea Josep Borrell ha dichiarato che l’Unione europea non accetta i risultati delle elezioni e che saranno valutate le sanzioni da adottare contro i responsabili dei brogli elettorali e delle violenze delle ultime settimane. Nel frattempo l’UE invita il presidente bielorusso al dialogo e alla moderazione, ma i suoi sforzi sembrano restare inascoltati. Ne è la prova il tentativo della cancelleria tedesca Angela Merkel di dialogare con Lukashenko, miseramente fallimento.
Mosca si trova invece in una situazione piuttosto delicata. Minsk è infatti legata alla Russia e ad altre 4 repubbliche ex sovietiche (Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan) dal Trattato di Sicurezza Collettiva firmato nel 1992, il quale prevede all’Articolo 2 “misure per prestare assistenza” al Paese nel quale dovesse verificarsi “una minaccia alla sua sicurezza, stabilità, integrità territoriale e sovranità”. Condizioni che, ad oggi, non sembrano ancora essersi verificate e quindi giustificare un’eventuale intervento russo. Inoltre, i rapporti fra i due Stati sono tesi ormai da anni, anche se Putin potrebbe rivelarsi favorevole ad un’apertura verso Minsk in cambio di un’allargamento della sua sfera d’influenza sul Paese di Lukashenko.
Il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping è stato il primo capo di stato a congratularsi con il leader bielorusso per la sua vittoria e nel suo messaggio di augurio ha confermato la stabilità dei rapporti diplomatici ed economici tra i due Paesi.
Diametralmente opposta la posizione della Lituana, il cui Comitato per gli affari esteri, lo scorso 12 agosto, ha votato per dichiarare come illegittima la presidenza di Lukashenko. Il presidente lituano Gitanas Nausėda ha dichiarato in un comunicato, elaborato assieme a Lituania, Lettonia e Polonia: «In primo luogo, le autorità bielorusse interrompono l’uso della forza contro i loro cittadini e allentano la situazione. Secondo, le autorità bielorusse rilasciano i detenuti, che sono già migliaia, (e) tutti i manifestanti che hanno subito repressioni. Terzo, la Bielorussia riprende il dialogo con la sua società civile». Sempre lo stesso giorno la Lituania ha aperto le sue frontiere per accogliere le persone in fuga dalla Bielorussia.
Anche il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha definito le elezioni bielorusse come “non libere ed eque” condannando “le violenze contro i manifestanti e la detenzione dei sostenitori dell’opposizione”.
In copertina: Auhen Yerchak/EPA/TASS
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