L’annunciato rifiuto degli Stati Uniti di partecipare ai cruciali colloqui del G20 dei ministri degli esteri a Johannesburg la prossima settimana va ben oltre un semplice atto isolato di protesta.
Questo gesto rappresenta un segnale inquietante di un più ampio disimpegno americano dalla scena globale, aprendo di fatto una breccia strategica di cui la Cina sembra intenzionata ad approfittare pienamente.
Gli USA hanno motivato l’assena con la politica di repressione razziale della minoranza bianca in Sud Africa: Washington comunque sta offrendo alla Cina l’opportunità di rafforzare la propria influenza all’interno dei consessi internazionali e, in prospettiva, di erodere la storica leadership degli Stati Uniti in qeusti consessi.
Il contrasto è subito evidente: mentre il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha confermato la sua presenza, sottolineando l’impegno di Pechino verso il multilateralismo, la sedia americana rimarrà vuota. Questa situazione solleva interrogativi non trascurabili sulla futura partecipazione del Presidente Trump al vertice G20 di novembre, un dubbio che si fa ancora più pressante considerando che nel 2026 la presidenza di turno del gruppo dovrebbe transitare proprio agli Stati Uniti. La decisione unilaterale americana rischia di compromettere seriamente la capacità del G20 di operare in maniera efficace e coordinata, proiettando un’ombra inquietante su una potenziale crisi di leadership a livello globale.
La radice di questa frattura tra USA e Sudafrica affonda nelle polemiche innescate dalle accuse mosse da Trump nei confronti di Pretoria, riguardanti presunte confische di terre e trattamenti discriminatori. Accuse che il governo sudafricano ha respinto con fermezza, definendole infondate e pretestuose, nonostante l’assassinio degli agircoltori bianchi sia una realtà nel paese.
Paradossalmente, questa disputa bilaterale sembra giocare un ruolo inatteso nella strategia geopolitica cinese. Pechino, infatti, si è immediatamente offerta di sostenere con forza la presidenza sudafricana del G20, promettendo pieno appoggio per l’organizzazione del vertice di novembre. Un segnale tangibile di questo impegno è stata la mossa dell’ambasciatore cinese in Sudafrica, Wu Peng, che ha esplicitamente manifestato la “disponibilità della Cina a sostenere la presidenza sudafricana del G20” proprio nel giorno in cui Rubio annunciava il clamoroso boicottaggio americano.
La Cina, con una chiarezza disarmante, non nasconde le proprie ambizioni di leadership globale. Le dichiarazioni del ministero degli Esteri cinese sono inequivocabili: Pechino si dichiara “pronta a lavorare con tutte le parti… per inviare un forte messaggio di sostegno al multilateralismo, rafforzando la solidarietà e la cooperazione, e rispondendo congiuntamente alle sfide globali”. Questo messaggio, carico di implicazioni, risuona come una sfida aperta al dogma isolazionista del “America First” di Trump, ponendosi in antitesi diretta con l’attuale approccio statunitense alla politica internazionale.
Esperti del calibro di Christopher Vandome, analista di Chatham House, evidenziano come l’assenza degli Stati Uniti offra alla Cina “una maggiore possibilità di sfruttare la propria posizione all’interno del gruppo, dimostrando un impegno concreto verso quel multilateralismo che gli Stati Uniti sembrano invece rinnegare”. Steven Gruzd, del South African Institute of International Affairs (SAIIA), concorda con questa analisi, affermando che la Cina si sta muovendo in maniera decisa per “occupare lo spazio che gli Stati Uniti stanno volontariamente lasciando libero”. L’enfasi posta da Pechino sulla necessità di una cooperazione internazionale, in netta contrapposizione con la dottrina “America First”, trova un terreno fertile in Sudafrica e in molti altri paesi del cosiddetto Sud Globale, desiderosi di alternative alla leadership occidentale tradizionale.
Tuttavia, è fondamentale analizzare attentamente i limiti intrinseci a questa strategia cinese e alla sua potenziale ascesa a una leadership globale incontrastata. Nonostante l’indubbia importanza delle relazioni con Pechino, il Sudafrica – come giustamente sottolinea Vandome – intende preservare la propria autonomia e mantenere una posizione di non allineamento, sforzandosi di apparire come un partner affidabile capace di dialogare e operare su diverse linee geopolitiche. Pretoria, in altre parole, non ambisce a diventare un satellite orbitante eccessivamente vicino all’orbita cinese.
Inoltre, la sostenibilità a lungo termine della leadership cinese nel contesto globale rimane una questione aperta. Se da un lato la Cina si erge a paladina del multilateralismo e a portavoce delle istanze del Sud Globale, dall’altro lato resta da verificare se la sua visione del mondo e le sue soluzioni ai complessi problemi globali saranno universalmente accettate e condivise.
Non è da escludere che la sua crescente influenza possa generare resistenze o preoccupazioni latenti tra alcuni membri del G20, timorosi di un nuovo equilibrio globale eccessivamente sbilanciato verso l’oriente. L’agenda del G20, particolarmente focalizzata su temi delicati come il debito dei paesi a basso reddito, la transizione energetica sostenibile e la gestione delle materie prime critiche, richiede risposte complesse e un consenso il più ampio possibile, che non può certamente basarsi esclusivamente sul sostegno, pur importante, della Cina.
Infine, non va sottovalutato l’allarme lanciato da Gruzd riguardo al potenziale “indebolimento del G20” innescato dal boicottaggio americano, soprattutto in prospettiva della prevista presidenza statunitense nel 2026. Se gli Stati Uniti dovessero effettivamente allontanarsi in modo significativo o ridimensionare drasticamente il loro coinvolgimento nel G20, l’efficacia complessiva del forum e la sua stessa capacità di affrontare le crescenti sfide globali potrebbero essere seriamente compromesse, anche di fronte al massimo impegno profuso dalla Cina.
Del resto bisogna essere realisti: questi grandi consessi internazionali hanno, sinora, mostrato un’utilità molto limitata. Non un conflitto mondiale è stato prevenuto o risolto da queste riunioni, come conferma quanto successo in Ucraina o in Medio Oriente. Alla fine questi eventi appaiono sempre più come dei momenti di comunicazione all’esterno, non all’interno del gruppo. Eventi utili per fare qualche titolo sui giornali e riempire gli alberghi per una settimana.
L’assenza degli Stati Uniti dal G20 rappresenta indubbiamente un’opportunità strategica per la Cina di avanzare la propria agenda e di proporsi come leader alternativo sulla scena internazionale. Pechino sta sfruttando con abilità la situazione per criticare l’approccio isolazionista americano e per promuovere con forza la propria visione di un multilateralismo cooperativo e inclusivo.
Questa avanzata cinese non è esente da ostacoli e da limiti intrinseci. La reazione degli altri membri del G20, la capacità del Sudafrica di preservare la propria autonomia strategica e, soprattutto, la reale efficacia della leadership cinese nel fornire soluzioni concrete alle intricate sfide globali rimangono incognite cruciali che plasmeranno il futuro del G20 e, più in generale, i nuovi equilibri dell’ordine internazionale. Sinora il G20 non ha dato soluzioni, ma solo illusioni, e nulla fa pensare che la guida cinese cambierà qualcosa.
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