Le cronache degli ultimi giorni ci inviano messaggi forti e una domanda che ne discende per tutti noi cittadini del mondo: si può agire senza un perché (ossia contro il senso)? I tragici fatti della povera Sharon che il caso vuole – se mai il caso esista e come spesso succede – nel punto sbagliato al momento sbagliato con la persona sbagliata e che la vede soccombere per una pulsione (apparentemente) incomprensibile ma indifferente verso la vittima (che poteva essere chiunque).
The big question is: quale “il perché di quell’agire senza un perché “ e se si può spiegare (escludendo devianze o uso di sostanze psicotrope) – dicono psicologi e psichiatri – ricorrendo a delusioni o frustrazioni, deviazioni psicotiche (vicine o lontane) e perciò che il desiderio forse ci aveva indicato ma che poi non si sono inverate, come nel caso del giovane Moussa Sangare che addirittura dichiara – incomprensibilmente – di “aver tenuto il coltello come “souvenir”).
Diverso il caso del ragazzo 17enne che stermina la famiglia e si accanisce soprattutto contro il fratellino con decine di coltellate quasi a volere sopprimere il soggetto-oggetto della presunta felicità familiare (attenzione non della presunta “infelicità”) che su quel bambino indifeso si scaricava più che verso se stesso? Dunque anche qui abbiamo un perché o tanti, certo oscuri e profondi, non facilmente conoscibili nemmeno dalle competenze degli “specialisti dell’anima” (psicologi, sociologi, psichiatri). Un perché a volte rimasto seppellito e “frizzato” o disinnescato dalla realtà sotto tante altre macerie di una esistenza precaria o semplicemente “sospesa” (consapevole e/o inconsapevole) o deviata da altre felicità o altri dolori profondi e inespressi della vita ma che ad un certo punto un segnale scatenante li fa riaffiorare esplodendo in devastanti e incontenibili pulsioni reattive di altrettanta sofferenza e dolore rivolte all’esterno e/o verso noi stessi.
E queste impongono di essere “controllate” o – in qualche modo – anche sopprimendo gli oggetti-soggetti (i simboli viventi) che ne sono (spesso solo apparentemente) all’origine distruggendole e/o distruggendo se stessi per esplosivi sensi di colpa o l’incapacità-impossibilità di assumere quel dolore e sofferenza per analizzarlo e porne sotto controllo la pulsione scatenante in una “anima vagante” alla ricerca di un senso o anche provando ad espellerlo.
Ma quali le cause (non poche) di un fenomeno che sembra assumere forme endemiche tra adolescenza e prima giovinezza e perimetrare questa nostra “modernità monca” dove intanto l’esperienza è spenta dall’apparire nelle sagome virtualizzate di uno schermo riflettente e abbagliante di storie, narrazioni e immagini di un cellulare o di un PC e che ci illudiamo di volere (potere) simulare nella realtà ma di fatto sbriciolando e frantumando le fonti dell’identità.
Quella realtà sempre più sfuggente perché scivola dietro uno schermo e si mescola a mille altri stimoli e identità indistinguibili in un liquido e fluido iper-realismo, dove tutto si confonde e sovrappone, mescolando, distorcendo, distraendo, deformando, soprattutto in soggetti fragili (adolescenti e giovanissimi, ma spesso anche ormai cresciuti). Un primo punto nodale è che in questo ibridarsi di realtà, finzione e virtualità la distinzione tra bene e male, tra razionale e irrazionale, tra vero e falso diventa mobile e confusa e dunque la nostra stessa identità perde colore e densità, si fa gassosa e ad alto rischio di evaporazione nella quale perdersi, esposta ai venti di una società dell’apparire dove l’essere si contorce e spesso esplode incapace di riconoscersi.
Anche per irresponsabilità di genitori che come negli Usa regalano armi da guerra a dodicenni che poi “sperimentano” facendo stragi di compagni “senza un perché” (o perché troppi i perché da distinguere e separare, spesso inconfessabili?). Un secondo punto nodale è che il confine realtà-finzione diventa indistinto e incapace di farci vedere le conseguenze delle nostre azioni nella stessa distinzione tra autentico e artefatto (il ricorrente fake usato da adolescenti e da adulti o pianificato in campagne elettorali come nelle recenti vicende della mediocrità istituzionale che hanno portato alle dimissioni del nostro (ex) Ministro della Cultura.
Qui mi pare emergere – un terzo punto nodale – dove si inizia a perdere il “senso di una direzione e consapevolezza delle nostre scelte dentro uno spazio e un tempo dati”, ossia non più configurati da una esperienza che ha un valore in un contesto e solo in quello e che ci indica i limiti del nostro agire (e le eventuali correzioni) mostrandoci le conseguenze che possono determinarsi e delle quali siamo responsabili perché quell’agire (proto) esperienziale non viene percepito come irreversibile ma diventa “reversibile”, ossia senza conseguenze come in un gioco.
Magari di giovani e adolescenti che hanno giocato poco nella loro vita infantile perché esposti a regalini o a schermi “per mangiare o per non disturbare” con genitori troppo occupati o distratti. Infatti, possiamo correggerci e imparare da quella esperienza e da quell’agire ma solo se ne percepiamo la sostanziale irreversibilità.
Cliccando su uno schermo come in un videogioco, tutto ciò implode e diveniamo invece irresponsabili in quanto il nostro agire opera in una sorta di “spazio virtuale neutrale” che ci oscura le conseguenze del nostro agire perché ne percepiamo la reversibilità ma non il tragico eventuale esito che si trascina, come in un gioco replicativo, dove ci si può premiare se vinciamo o sanzionare se sbagliamo, ma dentro una esperienza finita e reversibile sempre uguale a se stessa come in tutti i giochi non mediati da adulti consapevoli.
Allora – quarto punto nodale – se la realtà non è sempre un gioco e non è (quasi mai) reversibile scorrendo nello spazio-tempo e che la cambia in questa evoluzione, possiamo solo renderla fonte di apprendimento “imparando ad imparare”, convivendo con l’errore e riconoscendolo non tanto per migliorare la performance ma adattandoci alla complessità del mondo circostante, in primo luogo educando attraverso le esperienze reali e concrete e certo anche all’uso intelligente dei device a scuola e fuori, accompagnati da insegnanti o adulti consapevoli, che dovremmo però formare.
Per esempio vietandone l’uso sotto i 14 anni come in Francia ed educando gli stessi genitori ad un uso responsabile anche teatralizzandone le buone pratiche in una scuola o famiglia-comunità consapevoli e attente, senza ritorni antistorici a forme di luddismo come nelle comunità Amish con le loro profonde radici mennonite. Perché come per il sistema immunitario che va arricchito esponendolo a germi e batteri i bambini devono essere esposti ai problemi e agli errori nell’esperienza (e nei giochi non virtuali) perché si rinforzino, mentre gli smartphone li iper-proteggono sottraendoli all’esperienza iniettando in loro atarassia e ansia.
Ecco allora perché – in quinto luogo – dobbiamo forse ripartire da luoghi, tempi e competenze dell’esperienza che la famiglia non è più in grado di per sé di esaurire per una formazione “sana, consapevole, robusta e buona” (perché spesso micronizzata, allargata, frammentata e della quale va analizzata la crisi dell’istituto partendo da paternalismo e gender gap ); rivalorizzando tempi e spazi della scuola (con tempi e spazi senza device); ri-mobilitando gli oratori (ormai scomparsi ma che possono essere ripensati per formazione, sport e prossimità anche in senso laico e civico anche di accoglienza e integrazione delle comunità di immigrati evitandone la segregazione); valorizzando al forza del volontariato (come generatore di esperienza al servizio di un senso di comunità).
Ma per far questo serve allora costruire e alimentare nuovi luoghi pubblici della prossimità e della condivisione con la scuola al centro (con tempo pieno per esempio) per riprodurre esperienze della concretezza con una riforma dell’istituto scolastico al servizio di una società complessa, emotivamente solida (educazione sessuale come in Francia o Regno Unito) e responsabilmente digitale che sappia educare alla rottura e allo strappo per rialzarsi un bambino-adolescente-giovane che possa imparare a ripartire e risollevarsi con gioia e supportato dai compagni (riconoscendo e sanzionando il bullismo endemico con sapienza ed equilibrio).
Luoghi pubblici e privati ( scuola e tempo pieno o allargato) dove i nostri ragazzi e ragazze possano esplorare in libertà i confini della realtà e socializzare successi e fallimenti per ripartire e crescere “gomito a gomito” con l’altro, con il diverso, nella condivisione e nella prossimità, nell’aiuto come in un gioco di squadra formando al team e ad una leadership condivisa e al coaching per far emergere e controllare le pulsioni nel vissuto delle emozioni, separando le buone dalle cattive e valorizzando le prime cogliendo i sintomi delle seconde e moderandoli guidandoli, facendo emergere i segnali di manifestazioni psicopatologiche devianti per accogliere, curare, orientare, contenere nel limite del possibile con le necessarie strategie terapeutiche (emotive, cognitive, sociali e politiche) per agire sul diffuso disagio digitale-sociale-ambientale anche educando alla disconnessione vista la diffusione di comportamenti autolesionisti e suicidi (cfr. hikikomori giapponesi o i troppi suicidi norvegesi).
Soprattutto imparando dalla tragica esperienza del Covid che ha gonfiato diffuse insicurezze e ridotto anche i tassi di apprendimento ma in caduta libera già dal 2000 come segnalano molte indagini planetarie. Considerando che (con l’avvento dello smartphone) tra 2012 e 2019 registriamo una riduzione netta di socializzazione tra adolescenti (e non solo) da una media di 120 min./giorno ai 67min/giorno (Haidt, New York University, 2024) facendo prevalere la “modalità di difesa”(dalle minacce) su quella della “scoperta”(opportunità e innovazione), abbattendo anche il loro quoziente intellettivo. Riducendo anche nelle università italiane l’apprendimento e performance del 30% in media.
Comportamenti diffusi accompagnati da burnout, stress, ansia, insicurezza, distrazione e caduta di attenzione dalle elementari, ai licei, alle università fino alle organizzazioni di lavoro. Possiamo allora rilevare che dal movimentismo interazionista libertario, emozionale e “ciarliero” del ’68 immersivo in esperienze (anche psicotrope e psichedeliche) di ogni genere ma certo spesso liberatorie (sul piano comportamentale, musicale, culturale, familiare) di una società ingessata, burocratica e autoritaria siamo passati in 60 anni in una epoca della iper-connessione e dell’accesso che – paradossalmente – vediamo immersa nel più totale mutismo e/o in un ermetismo (emoticon, segni sincopati, “grugniti “ vari e offese visive in libertà) iterativo e replicativo che sembra aver rimosso scrittura, disegno e parola a favore di un sincretismo digitale e dell’immagine spesso incomprensibile, inutile oltre che energeticamente costosissimo).
Sembriamo aver rimosso dalla lavagna della storia dell’uomo i rudimenti alla base di ogni esperienza concreta di avanzamento che ci hanno accompagnato dalle meraviglie delle Grotte di Lascaux (quasi 18000 anni fa) in avanti fino al grande salto di Gutenberg del 1455 con il Rinascimento oltre le oscurità del Medioevo che stampò per la prima volta la Bibbia e la rese accessibile al mondo intero con i libri che seguirono e una cultura diffusa per tanti se non per tutti.
Distinguendo in questo modo realtà e finzione nella concretezza del fare insieme e nella condivisione per scegliere i sentimenti di una “vita buona”, una vita spiritualmente ricca e preziosa che però non esiste in natura ma va costruita con fatica, speranza e gioia unendo possibilmente mondi laici e religiosi e da condividere con l’Altro da noi. Per comprendere qui allora che non si può agire senza un perché essendo sempre alle prese con la “modellazione di una testa ben fatta “ direbbe Edgar Morin, in quanto esseri imperfetti esposti sempre all’apprendimento dell’esperienza moderando le pulsioni e canalizzandole – diversamente dai coccodrilli o dai virus che sono invece viventi perfetti dominati dalle gabbie delle pulsioni seppure capaci di apprendimento – nella esplorazione costruttiva, emotiva, culturale e sentimentale nella prossimità condivisa della catena evolutiva del nostro inesausto “apprendere ad apprendere” anche con un uso buon e consapevole della tecnologia e ora dell’IA.
Quell’apprendimento dall’esperienza che ci accompagna fuori dalla “gabbia delle pulsioni” per accendere il riconoscimento delle emozioni e attivare il loro controllo avviando poi la scelta dei sentimenti morali e delle regole che ne discendono (perché “non possiamo non essere kantiani”) quali condizioni evolutive per tenere sempre accesa la speranza costruttiva e costitutiva di una “vita buona” nel senso moderno proposto tra tanti altri ( e prima di Immanuel Kant) anche da David Hume già nel 1739.
Condannati dunque a ripartire da una scuola riformata, da una azienda che investa sulla formazione delle persone e dalle esperienze accese come fuochi nella savana delle comunità di appartenenza per avventurarci fuori dalle gabbie weberiane funzionali-burocratiche-gerarchiche delle molteplici rivoluzioni industriali di una modernità sempre incompleta verso una libertà e creatività condivise.
Perché attorno a quei fuochi tribali si sviluppi una capacità di ascolto individuale e collettiva che ci aiuti a continuare ad ammirare le stelle e l’immensità di cui siamo parte infinitesima (anche con progetti di welfare aziendale-territoriale) nell’etica della responsabilità verso i nostri simili e verso l’ambiente nella sostenibilità con il paziente recupero e diffusione di valori di base nella costruzione del senso che è ben oltre lo schermo di uno smartphone.
Anche – e forse soprattutto – con una educazione alle emozioni positive per accogliere e comprendere la complessità con una conoscenza condivisa e fronteggiare i misteri della mente e della coscienza per provare a controllarne il vuoto e il buio che incombe sempre su tutti noi esplorando i lumi della speranza nella responsabilità di una comune sapienza e di una esperienza (intergenerazionale e inter-gender) che possa sempre essere condivisa oltre l’inconoscibile nella ricerca inesausta del perché e del senso dell’essere su questa Terra che nonostante tutto rimane meravigliosa soprattutto fuori dallo schermo di un laptop o da uno smartphone e ben oltre l’algoritmo di Dio che semmai esistesse non sarà mai in grado di indicarci la scelta giusta tra le tanti possibili perché l’automa onnisciente non può conoscerla essendo una semplice macchina forse costruita da un’altra macchina forse anche super-intelligente, ma una macchina che giustizia, emozioni e sentimenti li può solo descrivere ma non scegliere e che tra razionalità e istinto rischia di lasciarci in mezzo al guado.
Questa la Grande Illusione che ci incolla allo schermo e che sembra spesso guidarci in una fascinazione attrattiva e spaesante (perché apparentemente veloce, facile e comoda) ma “vuota di senso”!
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