Leopardi “sovranista”. Ecco cosa scriveva nei Canti e nello Zibaldone (di Becchi e Palma, su Libero)

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Articolo di Paolo Becchi e Giuseppe Palma su Libero del 12 agosto 2019:

Non c’è giorno che passi senza che si trovino argomenti per screditare il “sovranismo”. Il sistema che domina ancora la cultura nel nostro Paese ha ben ramificato i propri tentacoli ovunque, dalle televisioni alle università, dai concorsi letterari alle istituzioni. Eppure la dottrina sovranista, che non ha nulla a che fare con il nazionalismo aggressivo, è parte integrante delle opere dei Padri della nostra letteratura. Lo scorso anno ci occupammo, proprio su questo giornale, di Dante, Boccaccio, Foscolo, Manzoni, e Berchet, oggi vi presentiamo Giacomo Leopardi.

Due sono le liriche che in tal senso ci interessano, “All’Italia” e “Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze”, entrambe inserite nei Canti pubblicati nel 1835.
Leggiamo alcune parti di “All’Italia”, i cui Versi racchiudono ed esaltano i valori e i sentimenti patriottici: “O patria mia, vedo le mura e gli archi / E le colonne e i simulacri e l’erme / Torri degli avi nostri, / Ma la gloria non vedo, / Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi / I nostri padri antichi. Or fatta inerme, / Nuda la fronte e nudo il petto mostri […]”. Leopardi soffre la condizione in cui versa la sua Patria, in quel periodo spezzettata e non ancora unita, forte del suo glorioso passato ma priva di gloria recente, inerme, nuda nella fronte e nel petto che pur fiera non esita a mostrare. Siamo nel 1818, anno in cui è composta la lirica, e la penisola italiana è dominata a Nord da un Impero straniero, quello austriaco, al Centro dal potere temporale del Papa sotto la protezione dei Borbone di Francia (sono già trascorsi tre anni dalla caduta di Napoleone) e a Sud dai Borbone di Napoli, di stirpe spagnola. L’ indipendenza nazionale che Leopardi reclama a gran voce è ancora lontana dal realizzarsi. Ancor più significativa la parte in cui rievoca la forza che aveva avuto nei secoli passati (Perché, perché? dov’è la forza antica, / Dove l’armi e il valore e la costanza?), puntando il dito sui contemporanei che la tradiscono (Chi ti discinse il brando? / Chi ti tradì?). Della parte centrale della lirica colpiscono alcuni versi in cui il poeta chiede persino di poter imbracciare le armi e combattere, offrendo il suo sacrificio personale (L’armi, qua l’armi: io solo / Combatterò, procomberò sol io. / Dammi, o ciel, che sia foco / Agl’italici petti il sangue mio), immedesimandosi egli stesso nella battaglia (E fumo e polve, / e luccicar di spade / Come tra nebbia lampi).

Anche “Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze” disegna lo stesso leitmotiv: l’amor nazionale. In questa poesia (che metricamente è una canzone), composta sempre nel 1818, Leopardi sprona i giovani della sua generazione al riscatto della sventurata Patria (Amor d’Italia, o cari, / Amor di questa misera vi sproni, / Ver cui pietade è morta), e se nulla o nessuno può salvarla per responsabilità dei traditori, allora è meglio ch’ella rimanga da sola (Se di codardi è stanza, / Meglio l’è rimaner vedova e sola). I traditori dell’epoca erano quelli che favorivano la dominazione straniera reprimendo le istanze patriottiche dei propri fratelli, esattamente come oggi il nemico interno va contro gli interessi nazionali per favorire quelli stranieri. Tempi e soggetti differenti, tradimenti e scopi similari.

Se da una parte la poetica patriottica di Leopardi fu sminuita da De Sanctis, che la relegò a semplice patriottismo giovanile frutto del fiorire delle idee liberali di quel tempo che mettevano in discussione l’antico assetto europeo, dall’altra fu riscoperta e valorizzata da Carducci, che nel triennio 1898-1900 contribuì alla pubblicazione dello Zibaldone, una raccolta di pensieri “di varia filosofia” che il poeta di Recanati aveva scritto dal 1817 al 1832.
Proprio nello Zibaldone troviamo uno dei passi più conosciuti e più letti nell’ultimo periodo: “La patria moderna dev’essere abbastanza grande, ma non tanto che la comunione d’interessi non vi si possa trovare, come chi ci volesse dare per patria l’Europa. La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci conviene. E conchiudo che senza amor nazionale non si dà virtú grande”. Quanta attualità in questi pensieri! Chi oggi parla di un super Stato europeo, fondato sulle ceneri degli Stati nazionali, dice qualcosa che lo stesso Leopardi – quasi duecento anni fa – osteggiava. Per il Poeta è la Nazione, coi suoi confini disegnati dalla natura, il luogo in cui i cittadini possono sentire il senso della loro appartenenza. Alcuni potrebbero criticare tale visione come oramai superata, non più al passo coi tempi, ma sbaglierebbe. Patria è comunità di interessi, è comunione di nobili ideali, è amor nazionale, è condivisione delle proprie tradizioni, dei propri Santi, delle proprie sciagure, della propria letteratura, dei propri eroi. Tanto nell’Ottocento quanto ai giorni nostri.

Ma lo Zibaldone è attualissimo anche sotto un altro profilo. Esso fornisce infatti una lezione a chi vorrebbe dare la cittadinanza a tutti in un mondo necessariamente cosmopolita, oggi diremmo globalista. Scrive Leopardi: “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto”. L’irreversibile declino di Roma ha inizio a partire dalla concessione della cittadinanza a tutti gli abitanti dell’Impero (con la Constitutio Antoniniana del 212 d.C. dell’imperatore Antonino Caracalla) senza che nessuno più ne apprezzasse il valore come invece era stato in passato, provocando in tal modo un forte affievolimento del senso di appartenenza (Civis Romanus sum). Nel giro di poco più di duecento anni crollò una civiltà che era stata indiscussa protagonista per oltre sette secoli. Un cosmopolitismo distruttivo ed annientatore della civiltà europea dell’epoca. Esattamente ciò che oggi vorrebbero i globalisti che disprezzano confini, patrie e identità.
Quest’anno ricorre il bicentenario della stesura definitiva dell’Infinito (1819-2019), la poesia forse più conosciuta in Italia e nel mondo. Duecento anni compiono anche alcune lettere giovanili, in gran parte indirizzate all’amico Pietro Giordani, che lo introdusse nei salotti letterari di quel tempo. In una di queste epistole proprio del 1819 Leopardi scriveva: “Mia patria è l’Italia per la quale ardo d’amore, ringraziando il cielo d’avermi fatto italiano”. Oggi sono solo i sovranisti che rivendicano questo senso di appartenenza nazionale e sono orgogliosi di rivendicarlo, ricordando Giacomo Leopardi.

di Paolo Becchi e Giuseppe Palma su Libero del 12 agosto 2019


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