L’ipotesi di Pubblico Registro Digitale per la Musica divide la industry

  ICT, Rassegna Stampa
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È interessante osservare alcune reazioni provocate dall’articolo che “Key4biz” ha dedicato ad una stimolante iniziativa promossa, ieri l’altro mercoledì 29 settembre, a Milano, dalla Sottosegretaria alla Cultura, la leghista Lucia Borgonzoni, in occasione della quale sono stati preannunciati imminenti bandi ministeriali per l’assegnazione di ben 155 milioni di euro per favorire la “transizione” delle industrie culturali e creative, nell’economia del “Recovery Plan”: 125 milioni per la transizione “digitale” e 30 per la transizione “verde” (vedi “Key4biz” del 29 settembre 2021, “Il MiC annuncia 155 milioni di euro per le industrie culturali: 125 per la transizione “digitale” e 30 per la transizione “verde””).

Molti degli intervenienti hanno interpretato il concetto di transizione digitale come strumento per assicurare maggiore trasparenza al funzionamento del “sistema musicale” italiano: il concetto di trasparenza è intimamente correlato a quello di comunicazione e di valutazione, ed è tasto sul quale battiamo (anzi martelliamo) da anni anche su queste colonne.

Per consentire alla mano pubblica di intervenire in modo adeguato, è indispensabile disporre di “sistemi informativi” accurati, completi, aggiornati, evoluti: ad oggi, così in Italia ancora non è…

Nel caso in ispecie (chance di digitalizzazione del sistema musicale), è stata evocata da molti l’esigenza di un “pubblico registro digitale”, che possa consentire a tutti – imprenditori ed autori, ma finanche appassionati – di acquisire informazioni sicure sui brani musicali, in termini di diritto d’autore e di diritti connessi.

Ad oggi, questo grande database non esiste: incredibile ma vero.

Il problema delle basi di dati riguarda in verità tutti i settori del sistema culturale italiano.

Un esempio emblematico: secondo le stime dell’IsICult, in Italia sono attivi oltre 2.000 festival (tra cinema, teatro, musica, danza, letteratura, ed altre arti e discipline), ma lo stesso Ministero non dispone di un elenco accurato e completo, perché ha informazioni soltanto sulle kermesse che esso stesso finanzia (a fronte di una ben più ampia massa di proponenti e postulanti che possono vedere bocciata la loro istanza di sovvenzionamento ministeriali, ma magari riescono ad organizzare le iniziative grazie al contributo di Comuni ed altri soggetti…).

La stessa “Relazione annuale” sul Fondo Unico dello Spettacolo (Fus) trascura tutte le realtà – e sono migliaia e migliaia, in tutto il Paese – che non beneficiano dei contributi del Ministero della Cultura: una assurdità concettuale, un buco cognitivo intollerabile. Eppure la questione non sembra appassionare nessuno.

La questione ci riporta in verità ad una delle tesi “fondative” della rubrica “ilprincipenudo”, avviata nel luglio del 2014 sulle colonne accoglienti del quotidiano online “Key4biz” e curata dall’Istituto italiano per l’Industria Culturale (IsICult): il complessivo grande anzi enorme “deficit cognitivo” della politica culturale e dell’economia mediale del nostro Paese.

Il Sottosegretario Lucia Borgonzoni ed il Dg della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Mic Ninni Cutaia hanno avviato una serie di “tavoli” per ascoltare le esigenze degli “stakeholder” nei vari settori del sistema culturale italiano: abbiamo apprezzato che questi incontri ministeriali – finora quasi sempre tenuti a porte chiuse – vengano organizzati in modo pubblico e trasparente, finalmente assicurando a qualsivoglia cittadino un diritto di accesso ai processi decisionali della mano pubblica.

Anche dall’incontro di mercoledì a Palazzo Litta, però, si ha avuto netta conferma di un grande “buco” di informazione, di conoscenza, di cognizione: abbiamo ascoltato decine di interlocutori, ognuno interprete e portatore dei propri interessi (come pure è naturale quando si convocano gli “stakeholder”), ma è emersa l’assenza di un’analisi di scenario, di uno studio di mercato, di valutazioni di impatto delle politiche pubbliche.

Una volta ancora, insomma, si rischia di governare nasometricamente le risorse pubbliche: anche la piccola/grande “manna” del Recovery (Pnrr).

Torniamo al “caso” dell’iniziativa di Borgonzoni: la Sottosegretaria, in materia di “registro unico digitale” non si è espressa, ma le posizioni degli intervenuti al dibattito hanno evidenziato una contrapposizione tra una maggioranza di favorevoli ed una minoranza di contrari.

Colui che ha insistito di più sull’esigenza di una “banca dati unica” è stato Massimo Benini di Evolution Collecting.

Contrario si è dichiarato Gianluci Chiodaroli della “collecting” Itsright, che da sempre si oppone a questa prospettiva: quali sono le ragioni di questa contrarietà?! Che alcune “collecting” hanno investito, nel corso del tempo, su propri database e questi sono divenuti “asset” proprietari che hanno un valore, economico oltre che intellettuale (e finanche “storico”, verrebbe da aggiungere)…

Ricci (Nuovo Imaie): favorevoli al “registro unico” per la musica italiana

A fronte di questa obiezione, alcuni hanno sostenuto – e tra questi l’avvocato Andrea Marco Ricci in rappresentanza del Nuovo Imaie (l’ente presieduto da Andrea Miccichè) – che, se il Ministero della Cultura non volesse procedere nella direzione di un “registro unico”, potrebbe comunque prevedere la possibilità sia di finanziare l’implementazione della propria “collecting” sia di prevedere e premiare, progetti di rete tra più soggetti per rendere interoperabili queste banche dati.

In questo modo, l’avvocato Ricci ha evitato di accentuare lo scontro con Itsright, rispetto all’ipotetico obbligo di una banca dati unica, ma si avvallava la prospettiva della interoperabilità per tutti coloro che volessero starci (cioè, in sintesi, tutti o quasi tranne Itsright).

Andrea Ricci di Imaie ha anche precisato che in fondo sarebbe anche semplice realizzare tale banca dati, se, nell’ambito del “deposito legale” obbligatorio presso l’IcbsaIstituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi, si indicassero le informazioni necessarie per realizzare questa banca dati. Questione che riteniamo meriti essere approfondita.

Mazza (Fimi): altre sono le priorità nell’ambito della digitalizzazione: rimasterizzazione dei cataloghi, digitalizzazione multitraccia, digitalizzazione delle informazioni del catalogo (metadati)

Enzo Mazza, Presidente della Fimi, ci ha precisato che, in occasione dell’incontro meneghino, non si è espresso sul tema registro/data base unico, perché ritenuto non di particolare interesse della Federazione delle Industrie Musicali Italiane: “noi parliamo in realtà di interoperabilità dei data base delle Ogc (organismi di gestione collettiva dei diritti d’autore, n.d.r.) dove milioni di tracce devono poter essere identificate con certezza da un lato dagli utilizzatori e dall’altro dagli aventi diritto. La nostra società di gestione collettiva Scf lavora milioni di brani al mese per una ripartizione analitica ed è la più avanzata su questo fronte. L’unico problema è che, per quanto riguarda gli artisti, possono poi esserci performer che appartengono a collecting diverse (presenti sulla stessa registrazione) e lì entrerebbe in gioco l’interoperabilità dei database”.

Il Presidente di Fimi rimarca come il settore “è di fatto completamente online e digitalizzato ma anche in continua evoluzione. L’opportunità legata all’alta definizione è ovviamente connessa a rilevanti investimenti delle case discografiche nella digitalizzazione dei propri cataloghi, un aspetto particolarmente importante se pensiamo, ad esempio, all’imponente archivio di musica italiana, costituito da centinaia di migliaia di tracce”. Mazza sostiene che sono altre le questioni sulle quali dovrebbe concentrarsi l’intervento della mano pubblica, prima del “registro unico”. Fimi ritiene che la digitalizzazione del patrimonio culturale italiano che vale la pena di esplorare sia altra: in particolare, proprio grazie ai recenti annunci delle piattaforme, le imprese del settore dovranno affrontare significativi investimenti economici in tre aree che riguardano da vicino l’offerta di musica italiana: (1) rivalutazione e rimasterizzazione su formati audio/video dell’intero catalogo: con l’evoluzione tecnologica i formati audio/video hanno necessità di essere ri-elaborati e ri-masterizzati secondo i nuovi formati di    fruizione (Hd, Dolby Atmos, 360RealAudio, video Vr, ecc.) che le piattaforme di fruizione stanno implementando; (2.) digitalizzazione multitraccia; (3.) digitalizzazione di tutte le informazioni del catalogo (metadata) che sempre di più, nella nuova economia di fruizione, sono parte fondamentale del posizionamento sulle piattaforme e conseguentemente di ricerca e fruizione dello stesso. Questo tipo di intervento, secondo Mazza, ha un grande valore competitivo sul mercato globale: “con l’integrazione di un’offerta in Hd che verrà indicata dalle piattaforme con particolari evidenze, poter posizionare un repertorio in playlist dedicate significherà anche promuovere la musica italiana con effetti molto positivi”.

“Registro digitale unico” per la musica: che ruolo potrebbe svolgere l’ex Discoteca di Stato ora Icbsa – Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi?!

Per il lettore meno addentro ai “misteri” del diritto d’autore, è bene ricordare che l’acronimo Icbsa si scioglie in “Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi”, un ente pubblico italiano nato nel 1928 con l’obiettivo di raccogliere il patrimonio sonoro italiano.

Si tratta di una struttura (che ha sede a Roma in via Michelangelo Caetani 32),  del Ministero della Cultura (dipende dalla Direzione Biblioteche e Diritto d’Autore, retta Paola Passarelli), con precise funzioni – almeno sulla carta – che vengono evidenziate dal sito web (il cui layout arcaico è sintomatico di una evidente non modernità digitale dell’ente): istituito con il Decreto del Presidente della Repubblica n. 233 del 26 novembre 2007 e regolamentato dal Decreto Ministeriale del 7 ottobre 2008, l’Icbsa è subentrato alla Discoteca di Stato, della quale ha acquisito “le competenze, il personale, le risorse finanziarie e strumentali, le attrezzature e il materiale tecnico e documentario”.

L’Icbsa ha il compito di documentare, valorizzare e conservare il patrimonio sonoro e audiovisivo nazionale implementato dal “deposito legale” previsto dalla Legge n.106 del 15 aprile 2004.

A seguito dell’emanazione del regolamento di attuazione, con il D.P.R. 3 maggio 2006 n. 252, è entrata in vigore, dal 2 settembre 2006, la Legge sul Deposito Legale in Italia, la legge n. 106/2004: la legge ed il relativo regolamento prevedono la consegna all’Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi, entro i 60 giorni successivi alla prima distribuzione, di una copia dei “documenti sonori e video prodotti totalmente o parzialmente in Italia o offerti in vendita o distribuiti su licenza per il mercato italiano e comunque non diffusi in ambito privato”.

Il patrimonio dell’Icsba è composto attualmente da oltre 450.000 supporti: dai cilindri di cera inventati da Edison, ai dischi, nastri, video fino agli attuali supporti digitali. Conserva anche una ricca collezione di strumenti storici per la riproduzione del suono: fonografi, grammofoni e altri apparecchi dalla fine dell’Ottocento agli anni Cinquanta. L’Icbsa ha altresì il compito di formulare standard e linee-guida in materia di conservazione e gestione dei beni sonori ed audiovisivi, promuovendo, anche in collaborazione con altre istituzioni nazionali e internazionali, attività formative e approfondimenti tecnico-scientifici negli ambiti di sua competenza.

E naturale sorge il quesito: perché l’incontro di Palazzo Litta non ha previsto l’intervento di un rappresentante dell’Icbsa?! Non è dato sapere.

Curiosa assenza, non meno strana di quella della Società Italiana Autori Editori. Eppure è Siae a rappresentare la maggioranza degli autori ed editori italiani, circa 100mila…

Il bilancio dell’Icbsa è di 4,6 milioni di euro (totale delle risorse che risultano dal consuntivo 2020), i dipendenti sono una ventina: dimensioni forse inadeguate rispetto ai compiti teorici che la legge assegna all’Istituto ed a quelli che potenzialmente gli potrebbero essere affidati.

Nella sezione “Archivio Digitale” del sito web Icbsa, si legge: “è in via di realizzazione la digitalizzazione dell’intero patrimonio audiovisivo dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi, utilizzando un processo di trascrizione digitale ottimizzato per il trattamento di grandi quantità di documenti, in grado di gestire processi automatizzati di verifica e ripristino delle informazioni e l’accesso attraverso reti telematiche alle collezioni. Il progetto prevede la produzione di file nel formato Bwf (Broadcast Wave File) che vanno ad alimentare l’archivio digitale dell’Icbsa. Si stanno trascrivendo in digitale dischi a 78 giri, a 33 giri, nastri a bobina, cilindri di cera e cd audio”.

Quella formula – “in via di realizzazione” – è piuttosto generica: qual è la situazione attuale, quali gli obiettivi di breve-medio-lungo periodo?! Non è dato sapere, perché l’Istituto pubblica sì uno stringato bilancio annuale, ma non un “bilancio sociale”, che consenta di comprendere esattamente funzioni ed obiettivi, risultati attesi e raggiunti…

L’impressione che si matura esplorando il sito dell’Istituto è di un approccio documentativo… più da bibliotecario e conservatore, che da operatore dinamico del sistema musicale in epoca digitale…

Si legge sul sito web: “il sistema di conservazione dei dati digitali è affidato ad un armadio robotizzato (Teca Digitale) in grado di gestire in modo completamente automatico la salvaguardia dei file. Attualmente sono conservati in Teca Digitale circa 300 Tb (terabytes) di dati multimediali. La fruizione di questa grande mole di dati è possibile grazie ad una Teca Digitale parallela che contiene tutti i files compressi, visibili tramite browser web in tutto il mondo grazie all’utilizzo di formati standard quali jpeg e mp3, unimarc e mag (per i metadati), attraverso la rete intranet e internet. Naturalmente nel rispetto della legge sul copyright soltanto in sede è possibile consultare l’intero documento, mentre nel resto del mondo i file audio, in bassissima qualità, durano al massimo 30 secondi, e le immagini sono protette da watermark”.

Che l’Istituto non sembri stimolare molto la sensibilità del Ministero è confermato dalla modesta entità degli interventi assegnati nell’economia dei 100 milioni di euro all’anno previsti dal Fondo per la Tutela del Patrimonio Culturale (istituito dall’art. 1, commi 9 e 10, della Legge n. 190/2014, la cosiddetta “Legge di Stabilità 2015”) soltanto 16.576,75 euro (!) per la “Campagna fotografica del Patrimonio Museale dell’Icbsa”…

Ed il “Portale della Canzone Italiana” lanciato dal Ministero della Cultura nel 2018?!

L’ultimo segno pubblico – con una qualche ricaduta mediale – dell’Istituto risale ad oltre tre anni fa, allorquando nel febbraio del 2018 venne presentato il Portale della Canzone Italiana: usando le parole del Ministro Dario Franceschini, “Una scheda per ognuna delle 200.000 canzoni dal 1900 al 2000 e la possibilità di ascoltarle gratuitamente! Alla vigilia di #Sanremo un archivio della canzone in 8 lingue che nessun paese al mondo ha!” (vedi “Key4biz” del 5 febbraio 2018, “ilprincipenudo. Il Mibact lancia il Portale della Canzone Italiana (in alleanza con Spotify)”.

A distanza di tre anni, non si ha notizia dell’evoluzione di questo progetto, curato da Ales spa (società “in-house” del Ministero della Cultura), originariamente coordinato da Paolo Masini, consigliere del Ministro e – tra l’altro – ideatore del progetto “MigrArti”. Luciano Ceri, che collabora con il Portale della Canzone Italiana, è il Responsabile del Progetto “Discografia Nazionale della Canzone Italiana” dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi…

Il tema – come abbiamo già segnalato – di un “registro unico musicale” evoca quel che è stato definito da alcuni intervenienti, sempre nell’incontro di ieri l’altro a Milano, “il disastro del registro cinematografico”. È proprio così?!

Il fallimento del Pubblico Registro Cinematografico?!

Va osservato che la Direzione Generale Cinema e Audiovisivo (Dgca) del Ministero della Cultura ha comunicato, qualche mese fa, che, a far data dal 21 maggio 2021, la tenuta del “Pubblico Registro Cinematografico” (alias “Prc”) affidata alla Società Italiana Autori ed Editori (Siae), sarebbe cessata ad ogni effetto di legge.

La gestione del Registro è quindi stata affidata dal Mic Dgca a Cinecittà Luce.

Si ricordi che il Registro Pubblico Cinematografico è stato creato nel lontano 1938 (con l’art. 13 di un Regio Decreto, il n. 1961 del 16 giugno 1938), con l’obiettivo concedere sovvenzioni alla nascente industria cinematografica italiana: venne istituito per identificare i soggetti giuridici a cui garantire sussidi governativi sui film prodotti.

La banca dati del Prc ha però sempre svolto una funzione meramente “dichiarativa” dei diritti esistenti sulle opere cinematografiche italiane: ha riportato gli atti di trasferimento, ferma restando la possibilità di opporvisi per i terzi che avessero potuto vantare diritti sulle opere.

Questa funzione “soft” permane oggi, anche nel passaggio tra documentazione cartacea e file digitali: il Registro svolge la funzione di dare agli atti in esso trascritti una conoscibilità generale – ed in qualche modo una minima certezza giuridica – da parte degli enti interessati alle vicende contrattuali riportate.

Gli effetti della registrazione al Prc sono però – appunto – di natura meramente “dichiarativa”: più precisamente, la validità e l’opponibilità rispetto a terzi di quanto iscritto nel Registro costituiscono una “presunzione semplice” (vincibile con la prova contraria ex art. 2729 Codice Civile).  

Un nuovo registro, sostitutivo di quello istituito nel 1938, è arrivata a distanza di 60 anni dalla istituzione di quello originario: il 29 maggio 1998 con il Dpcm 8 aprile 1998, n. 163, che conteneva il “Regolamento recante norme sul Pubblico Registro della Cinematografia” (istituito ai sensi dell’art. 22 comma 4 del Decreto Legge 14/1/1994, n. 26, convertito dalla legge 1° marzo 1994, n. 153 “Interventi urgenti a favore del Cinema”). Questo nuovo registro avrebbe dovuto essere reso operativo dalla Siae entro il 30 settembre 1998.

La data di fine settembre 1988 è rimasta… lettera morta, per due concause: difficoltà tecnica nell’attivazione degli strumenti attuativi necessari ed opposizione di alcune importanti organizzazioni del settore audiovisivo e di alcuni titolari di “library” (che non avevano – e non hanno – alcun interesse a giustificare la titolarità dei propri prodotti), che vedevano di cattivo occhio un registro cinematografico trasparente ed efficace (ed aperto anche ai film stranieri). Meglio lasciar prevalere dubbi, incertezze, nebbie.

Insomma il nuovo registro non ha mai visto la luce.

La legge 14 novembre 2016 n. 220, recante la “Disciplina del Cinema e dell’Audiovisivo” (la cosiddetta “Legge Franceschini”) ha precisato che la tenuta del Pubblico Registro Cinematografico da parte della Siae sarebbe cessata una volta che fosse stato reso operativo presso il Ministero il nuovo Registro pubblico delle Opere Cinematografiche e Audiovisive (già previsto ai sensi dell’art. 32 della stessa legge, la quale abroga in particolare l’art. 103, secondo comma, della Legge n. 633/1941). La più recente innovazione in materia si è avuta con il Decreto del Presidente del Consiglio dell’8 dicembre 2017 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 39 del 16 febbraio 2018) che ha introdotto nuove disposizioni applicative per l’attivazione del Registro pubblico delle opere cinematografiche e audiovisive, prevedendo che la tenuta del Registro sia curata appunto dalla Direzione Generale Cinema e Audiovisivo (Dgca) del Ministero.

Il nuovo Pubblico Registro Cinematografico Audiovisivo curato dal Mic e affidato a Cinecittà

La situazione attuale è quindi la seguente: il nuovo Registro è gestito direttamente dal Ministero, ma curato operativamente dall’Istituto Luce Cinecittà.

L’Istituto ha realizzato un portale telematico con la documentazione relativa, inclusi gli atti del precedente “Pubblico Registro Cinematografico” (Prc).

Il nuovo Registro, che si estende quindi ormai anche alle opere audiovisive, è stato istituito a seguito dell’entrata in vigore della Legge n. 220 del 14 novembre 2016 (la succitata cosiddetta “Legge Franceschini”), ex articolo 32, gestito temporaneamente dalla Siae con un vincolo di entrata in funzione entro il 20 giugno 2021.

Si ricorda che nel registro sono iscritti i film di produzione nazionale ai sensi del Dlgs. n. 28/2004 con trascritti gli atti di vendita, cessione o costituzione in garanzia di diritti e proventi, nonché di estinzione di cessioni e costituzioni precedentemente annotate e che si presume che produttore dell’opera cinematografica è chi è indicato come tale negli atti di registrazione depositati presso il pubblico registro.

Fino al 22 dicembre 2018, quando il registro è stato gestito in via provvisoria dalla Siae, il numero dei lungometraggi iscritti era arrivato a 12.244, i cortometraggi risultavano essere 21.180.

Non risultano pubblicate statistiche aggiornate sulla attuale composizione del Registro.

Il Ministero ha chiarito che tutte le opere audiovisive ricadenti nell’ambito della legge n. 220 /2016 (e pertanto non iscritte nel cessato Prc/Siae) che hanno ricevuto contributi pubblici nazionali o sovranazionali diretti ed indiretti (compreso, quindi, il “tax credit”), e la cui prima diffusione al pubblico sia avvenuta nel periodo successivo al 1° gennaio 2017, dovevano essere iscritte entro il 15 settembre 2021…

L’iscrizione – che determina effetti di pubblicità ed opponibilità ai terzi – è obbligatoria per tutte le opere cinematografiche e audiovisive di nazionalità italiana, che hanno beneficiato di contributi pubblici statali, regionali, degli enti locali o di finanziamenti dell’Unione Europea o di fondi sovranazionali cui l’Italia partecipa, nonché gli atti, gli accordi e le sentenze aventi ad oggetto i diritti alla distribuzione, rappresentazione o sfruttamento in Italia e all’estero, incluse le cessioni dei contributi pubblici assegnati ai sensi della legge n. 220 del 2016, per le medesime opere.

Possono essere iscritte al Prc: opere cinematografiche e/o audiovisive (lungometraggi e cortometraggi), opere televisive, opera seriali, opera web, videoclip.

Il sito web del Prca (che reca una indicazione di Istituto Luce-Cinecittà Spa ma anche InfoCamere S.C.p.A. come titolare del trattamento) ci sembra mostri una funzionalità abbastanza agevole.

È peraltro accessibile – anche per la consultazione – a chiunque (è sufficiente disporre dello Spid).

Contiene dati essenziali relativi all’opera, ma, per quanto riguarda la parte creativa, per i titoli più recenti, soltanto l’identità degli autori (regista, soggettisti e sceneggiatori), e non se ne comprende la ragione.

Il Prca consente di acquisire notizia ovvero informazioni sulla titolarità dei diritti: per esempio, abbiamo cercato sul motore di ricerca la bella serie televisiva “Mental” (scritta da Laura Grimaldi e Pietro Seghetti), purtroppo mai trasmessa da Rai ed offerta soltanto su RaiPlay, risulta che la società di produzione Stand by Me ne detiene il 38 %, a fronte del 62 % di Rai.

Non si comprende perché il database non consenta una ricerca “full text”, ma sia limitato al titolo dell’opera: non è possibile, quindi, acquisire informazioni su tutte le opere realizzate dall’autore Alfa piuttosto di cui è titolare l’impresa Beta

Il vero quesito resta comunque un altro: perché il legislatore non ha previsto, per il “Pubblico Registro Cinematografico Audiovisivo” (Prca) una efficacia costitutiva, che consentirebbe a tutti gli operatori di operare sulla base della certezza del diritto?!

L’attuale registrazione, attualmente, infatti… fa sì fede, ma… fino a prova contraria, e quindi questo sistema alimenta le querelle nelle aule dei tribunali…

Simili database potrebbero essere poi integrati da una serie di informazioni altre, che consentirebbero anche alla comunità scientifica (studiosi e appassionati di cinema, audiovisivo, musica…) di acquisire informazioni certe sul patrimonio storico ed attuale dell’immaginario italiano.

Conclusivamente, l’incertezza che caratterizza il Registro Cinematografico Audiovisivo pur novellato, le perplessità sull’istituzione di un Registro Musicale confermano che lo Stato italiano non ha una autentica vocazione a “conoscere per governare”.

Ed i risultati, su più fronti e su più livelli, si vedono.

Prevalgono nebbia e confusione. E questo evidentemente fa gioco a qualcuno degli “stakeholder”…

Per alcuni, meno si sa, meglio è (aumenta il margine di discrezionalità).

Clicca qui, per accedere al portale “Registro Pubblico delle Opere Cinematografiche e Audiovisive” (Prca), curato dal Ministero della Cultura (Mic-Dgca) e affidato a Cinecittà Istituto Luce

https://www.key4biz.it/lipotesi-di-pubblico-registro-digitale-per-la-musica-divide-la-industry/376106/