Nel corso degli ultimi settant’anni l’informatica, la scienza che ha reso possibile la realizzazione del mondo digitale, ha causato una rivoluzione sociale di portata inaudita, i cui effetti non sono stati ancora compresi nella loro pienezza.
Lo ha ribadito di recente Antonello Soro, Presidente dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, nel discorso di presentazione della relazione annuale 2019 dell’Autorità, descrivendo l’innovazione digitale come « “fatto sociale totale” capace di inscrivere in nuove coordinate un’intera costruzione del mondo e la sua stessa antropologia» e ricordando «l’insidiosa vulnerabilità del nostro io digitale».
Ho quindi riflettuto, da comune cittadino ma anche da esperto di informatica, se questo nuovo “fatto sociale totale” sia adeguatamente considerato a livello costituzionale.
Altre innovazioni (p.es., televisione, aeroplano, posta elettronica) hanno cambiato la nostra società in modo incredibile nello stesso periodo.
Le esigenze umane su cui esse hanno effetto, però, essendo state tutelate dalla nostra Costituzione non in riferimento alla tecnologia con cui possono essere soddisfatte ma in relazione ai diritti fondamentali che esprimono, non hanno avuto bisogno di nessun adattamento, nonostante gli avanzamenti della tecnica.
Poter comunicare con qualcuno o raggiungere fisicamente un posto sono, ad esempio, esigenze imprescindibili per una compiuta espressione delle relazioni sociali, ma gli artt. 15 e 16 della Costituzione mantengono intatta tutta la loro validità, pur avendo noi oggi a disposizione strumenti di comunicazione e sistemi di trasporto difficilmente prevedibili dai padri costituzionali.
L’avvento prima dell’elettronica e poi dell’informatica ha trasformato profondamente anche il mondo dei media, ma quanto scritto nell’art. 21 non ha avuto bisogno di alcun cambiamento. Si è discusso e si discute, è vero, se le reti sociali rese possibili da Internet non debbano ricevere una menzione nella nostra carta fondativa, ma sinora non c’è alcuna definitiva conclusione.
In prima approssimazione potrebbe quindi sembrare che non ci sia niente di nuovo.
L’inviolabilità nella sfera digitale della nostra libertà personale, così come del nostro domicilio e delle nostre comunicazioni, continua a rimaner protetta nella sfera digitale dagli stessi articoli (artt. 13, 14 e 15) che la proteggono nel mondo fisico.
Osservo, però, che l’insieme dei nostri dati digitali, aggregati e correlati, costituisce ciò che chiamo il nostro “doppio digitale” ovvero la proiezione di noi stessi in quella nuova dimensione del mondo che si è manifestata in tutta la sua importanza solo con lo sviluppo della tecnologia digitale.
Questo elemento è stato fortemente sottolineato nel discorso di Soro, quando ha ricordato che «La traslazione, mai così totalizzante, della nostra esistenza individuale e collettiva nella dimensione immateriale del web, espone infatti ciascuno di noi – in primo luogo attraverso i propri dati – alle sottili ma pervasive minacce di una realtà, quale quella digitale, tanto straordinaria quanto poco presidiata» e che «la protezione dati, regolando le condizioni per la circolazione di ciò che, come il dato, rappresenta l’elemento costitutivo del digitale, si è rivelata un presupposto ineludibile di ogni possibile equilibrio tra l’uomo e la tecnica».
Mi chiedo, allora: se questo aspetto è qualcosa che ha arricchito il tipo di persone che siamo, perché non viviamo e non esistiamo più soltanto nello spazio fisico, ma abbiamo delle estensioni, delle proiezioni, nel mondo digitale, chi presidia questa realtà così importante?
Certo, abbiamo il GDPR (General Data Protection Regulation – il regolamento europeo per la protezione dei dati personali), una norma di cui in Europa possiamo essere fieri per come definisce con precisione e rigore i limiti dell’utilizzo della miriade di byte che ci lasciamo dietro interagendo a piè sospinto con dispositivi e sistemi digitali, e la normativa italiana in materia, di cui l’Autorità presieduta da Soro è il sommo custode.
Mi interrogo, però, se non ci siano dei diritti non presidiati dall’attuale Costituzione. Non è, forse, rimasto sguarnito il diritto a preservare la nostra identità, che a questo punto non si estrinseca più soltanto nel mondo fisico ma anche in quello digitale?
L’art. 22 protegge alcuni aspetti relativi all’identità: cittadinanza, nome, capacità giuridica. Al momento in cui è stata scritta, questi aspetti erano tutto quello che serviva. L’esplosione del mondo digitale ne ha però messo in luce altri, quelli relativi alla “proiezione digitale della nostra identità”, che forse potrebbero richiedere una tutela dello stesso rango legislativo. Non perché siano “nuovi”: l’umanità registra dati sul mondo da migliaia se non decine di migliaia di anni.
Ma perché dall’essere una componente del tutto trascurabile della nostra esistenza ne sono diventanti una parte rilevante ed importante e, come ci ha purtroppo insegnato l’emergenza sanitaria di questo periodo, di cui non si può più disinteressare.
Sempre Soro ha osservato la natura particolarmente delicata di quest’area, evidenziando che «La devoluzione alla dimensione immateriale di pressoché tutte le nostre attività non è un processo neutro, ma comporta, se non assistito da adeguate garanzie, l’esposizione a inattese vulnerabilità in termini non solo di sicurezza informatica ma anche di soggezione a ingerenze e controlli spesso più insidiosi, perché meno percettibili di quelli tradizionali.»
In astratto, la dimensione dei dati è sempre esistita, ma in concreto ha sempre avuto uno “spessore” trascurabile. L’esplosione dei sistemi digitali l’ha però enormemente accresciuta (e sempre di più lo farà in futuro) ed è ormai componente integrante e costitutiva della nostra vita personale e sociale.
Non è forse giunto il momento di predisporre “adeguate garanzie”?
(I lettori interessati potranno dialogare con l’autore, a partire dal terzo giorno successivo alla pubblicazione, su questo blog interdisciplinare.)
Protezione dei dati digitali, è il momento di predisporre adeguate garanzie