SESSISMO, STEREOTIPI E OMOFOBIA: LA RAI CHE NON SA PARLARE AI GIOVANI

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Un flop colossale il tentativo della televisione nazionale di adattarsi al tempo che passa. La web serie “Riccione”, online dal 23 luglio e con più di un milione di visualizzazioni, non fa che raccogliere critiche in una vera e propria bufera mediatica.

Roma – Non poteva essere peggiore l’inizio della web serie promossa da Rai Pubblicità nel disperato tentativo di rivolgersi ai più giovani. Online dal 23 luglio, Riccione ha raggiunto più di un milione e trecentomila visualizzazioni, ma non nel segno della viralità positiva. Tra le molte accuse mosse contro il progetto che dovrebbe riunire gli influencer più in voga sui social nostrani, ci sono anche quelle di omofobia e sessismo. Secondo Marco Tonti, presidente dell’Arcigay della provincia di Rimini “Alan Turing” è un vero e proprio «concentrato di macchiette, luoghi comuni, stereotipi, sessismo, omofobia, machismo, body shaming, condito con una recitazione penosa e una comicità che al confronto Gerry Calà (quello di “libidine, doppia libidine, libidine coi fiocchi”) pare Pirandello».

Produzione di Rai Pubblicità e Melasento, regia di Giorgio Romano, Riccione può dirsi in ogni modo un esperimento fallito di cui pare impossibile salvare anche una scena. Il cast è composto da youtuber italiani dalla varia notorietà tra cui i Panpers, gli Autogol e Fede Rossi. Punta di diamante la nota trash primi duemila: Enzo Salvi nel ruolo di poliziotto in incognito in un’operazione anti-droga con la sua immancabile quanto trita (e dal dubbio esito comico) gag in cui in veste di tossico recita “mamma mia come sto”. Protagoniste femminili in ogni modo assenti: i personaggi dialoganti sono unicamente maschili e le donne sono relegate alla sola funzione di oggetto sessuale utile a scatenare allusioni erotiche di bassa lega (una tra tante, la gag in cui due amici intenti a spalmarsi la protezione al mare fanno uscire troppa crema dal tubetto quando vedono una coppia di sensualissime ragazze strizzarsi il pezzo di sopra del costume dopo un bagno). I quaranta minuti dello spot firmato Rai sono riusciti in un miracolo: viaggiare nel tempo e riportarci in un attimo negli anni ’80.

La puntata si compone di una serie di gag di pessimo gusto, giochi di parola scadenti (checco per checca in omaggio all’omosessualità) e stereotipi. Campeggiano nelle scene donne compresse in minuscoli bikini dorati, gay-macchiette dalla voce acuta e sempre desiderosi di sesso, terroni che si portano le melanzane da casa, polentoni interessati solo a serate e cocaina, e, ciliegina sulla torta in un periodo storico di lotta al body shaming, una vogliosa donna obesa che non copula da sei mesi definita “incidente” per il suo aspetto fisico. Lascia interdetti l’orgogliosa rivendicazione dell’assessore Caldari, felice che il progetto sia riuscito a intercettare il linguaggio dei giovani.

Non si è fatta attendere la difesa della Rai, che nega ogni intento offensivo e riferimento alla realtà. Si tratterebbe infatti «di un video web di intrattenimento nonsense di natura comica e di sottolineatura parodistica di luoghi comuni». Luoghi comuni che la televisione nazionale dovrebbe imparare a combattere e non a promuovere.

Serena Mauriello

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