L’attrice debutterà a giugno con la sua prima regia operistica. In quest’intervista parla degli esordi con Strehler, del confronto con Bene sulla necessità di conciliare teatro e musica, del cinema e della passione per Primo Levi.
Roma, aprile 2019 – Incontro Sonia Bergamasco nella sua casa romana durante un pomeriggio di primavera. Ho davanti le domande che avevo preparato. Quando comincia a parlare prendo appunti copiosamente, ma decido di posare la mia matita blu sul lungo tavolo di legno. Voglio ascoltare le sue parole con attenzione.
Di recente ho avuto modo di vederla in passerella durante lo show del giovane fashion designer Italo Marseglia, diretta da Rossano Giuppa durante l’ultima edizione invernale di Altaroma: prima era la regina Ecuba, che alla caduta di Troia verrà ridotta in schiavitù, e in un secondo momento la poeta russa Zinaida Nikolaevna Gippius. Poi l’ho vista a teatro con lo spettacolo L’uomo seme, il punto di partenza della nostra intervista, mentre fuori sta per piovere.
Come è nata l’idea di portare in scena il testo di Violette Ailhaud?
Ho letto questo piccolo libro qualche anno fa. Mi è stato regalato da un’amica e, a pochi giorni di distanza, da un’altra amica ancora. Ed entrambe mi hanno detto: è una storia per te! Sin dalla prima lettura ho sentito il desiderio di “tradurre” questa storia per la scena.
C’era stata una prima edizione per la radio?
Sì, in forma di lettura scenica per Radio 3, nella sala A di via Asiago. Ho lavorato alla drammaturgia pensando già a quella che sarebbe diventata la versione di scena dello spettacolo. In quell’occasione ho chiesto a Piera Degli Esposti e a Beatrice Fedi – una giovane attrice conosciuta durante il seminario “La Valigia dell’Attore” che ho tenuto in Sardegna – di dare voce alla storia insieme a me.
E dopo?
Già in questa prima “forma lettura” avevo utilizzato alcuni brani delle Faraualla, un quartetto vocale che conoscevo da tempo. Ma da subito mi è risultato chiaro che le quattro magnifiche Faraualla sarebbero state, in scena, le interpreti ideali dello spettacolo, perché avrebbero coniugato la loro fisicità potente con la lingua del canto, che ha una parte fondamentale in questo racconto di donne. È lingua primordiale e respiro necessario.
La donna, o meglio, un intero gruppo di donne si ritrova a dover fronteggiare il disastro prodotto dalla guerra. A unirle c’è però un patto.
È una comunità femminile che non si arrende e che è in grado di farsi carico di tutte le responsabilità che prima condivideva con i compagni, i fratelli, i padri. Sono donne che non si arrendono all’idea di rimanere sole, che continuano a desiderare con forza e, dopo due anni di dolore e di incertezza, giungono a formulare un patto sconvolgente: il primo uomo che arriverà sarà l’uomo di tutte, per ridare vita al villaggio. Nello spettacolo quell’uomo ha il volto di Rodolfo Rossi, musicista e percussionista.
Nonostante il patto, l’intesa verrà minata. Come spesso accade nei rapporti reali tra donne…
All’arrivo dell’uomo scattano gelosie, sentimenti contrastanti. Ma la fragilità e la complessità dei rapporti si ricompatta perché le donne desiderano ridare vita alla comunità. Vogliono crescere i propri figli, tornare a un tempo circolare nel quale si riconoscono. La comunità è dunque più forte del desiderio individuale. Questo non sempre si realizza nella realtà quotidiana. Eppure penso che quella lanciata dall’autrice sia una sfida importante, destinata a farci riflettere su quanto possa essere forte una comunità pensante, che affronta la complessità, che non si appiattisce sulle semplificazioni facili e a volte violente.
In teatro hai iniziato con Giorgio Strehler.
Ho studiato e lavorato con lui al Piccolo Teatro di Milano, insieme ai miei compagni di corso. Eravamo ancora allievi quando abbiamo cominciato a lavorare in scena al suo Faust. Da subito c’è stato il doppio binario lezioni e pratica, che in teatro è fondamentale. Il teatro lo si pensa facendolo.
Hai studiato anche pianoforte. Che valenza ha avuto la musica nel tuo percorso artistico?
Mi sono diplomata in pianoforte in Conservatorio e successivamente ho frequentato la scuola di teatro. Cominciando a fare teatro pensavo di aver chiuso il mio percorso di studi musicali, ma ho capito molto presto che la musica era per me una lingua essenziale e mi dava più forza anche in teatro.
Che ruolo ha avuto Carmelo Bene in questa presa di coscienza?
Mi chiese di fare chiarezza: non più teatro da una parte e musica dall’altra ma un “mio” modo di fare teatro. Ricordo una chiacchierata di fronte al mare sul terrazzo della sua casa di Otranto, dove sono stata in molte occasioni. Carmelo Bene era un uomo poetico, struggente e feroce. Feroce prima di tutto con se stesso.
Dal teatro al cinema. Hai lavorato con i fratelli Bernardo e Giuseppe Bertolucci, con Franco Battiato e Marco Tullio Giordana. Mentre la giravi La Meglio Gioventù avevi il sentore di ciò che avrebbe rappresentato nella memoria collettiva?
No, nessuno di noi lo aveva. Il clima sul set era positivo, effervescente. Eravamo prima di tutto un gruppo di amici. Il nucleo storico era formato da persone che si conoscevano e si volevano bene (ndr. Luigi Lo Cascio, Fabrizio Gifuni e Alessio Boni aveva frequentato l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico). Questo è stato un valore aggiunto, che Marco Tullio ha valorizzato con grande sensibilità.
Il passaggio alla commedia?
Una grandissima soddisfazione. Mi ci ha trascinato dentro per la prima volta Riccardo Milani con Tutti pazzi per amore. La scrittura della serie, di Ivan Cotroneo, era nuova e irresistibile. Però l’idea di interpretare il ruolo dell’antipatica non mi entusiasmava e la lunga serialità mi spaventava (le mie figlie erano ancora molto piccole). Riccardo però ha insistito così tanto che alla fine ho accettato e gli sono grata di questo ingresso in commedia, perché è stata per me una scuola importante.
E il Commissario Montalbano?
Gireremo a breve tre nuove episodi che andranno in onda l’anno prossimo. È un set che ha tempi piuttosto ampi, con attori di rango, un regista come Alberto Sironi e la scrittura inconfondibile di Camilleri. Nonostante questo nessuno all’inizio avrebbe mai immaginato un successo del genere.
Torniamo alla letteratura. Lo scorso inverno hai portato in scena un lavoro tratto dall’opera di Primo Levi.
Ex chimico, Primo Levi e il suo secondo mestiere, di cui ho curato la regia. La mia passione per questo scrittore è nata dalla lettura dei suoi racconti fantastici e fantascientifici, che non conoscevo. Come sempre accade sono la scrittura e la lingua a convincermi alla traduzione per la scena. Con Primo Levi è stato tutto molto naturale. La scrittura era perfettamente aderente al corpo dei personaggi e alle situazioni. Il prossimo anno intendo riprendere lo spettacolo e farlo conoscere il più possibile.

“Ex chimico, Primo Levi e il suo secondo mestiere” – Foto di Luca A. d’Agostino/Phocus Agency © 2018
Quali sono gli autori e le letture che ti hanno segnata particolarmente nel tuo percorso di attrice?
Tolstoj, Irène Némirovsky, Ingeborg Bachmann fra gli altri. In realtà le mie letture sono partite dalla poesia, forse perché è la lingua più prossima alla musica. Ho letto e continuo a leggere molto anche Amelia Rosselli, Silvia Plath, Dante, Rilke.
A giugno Le nozze di Figaro, la tua prima regia operistica. Un’idea coraggiosa?
È una proposta che mi è arrivata come un fulmine a ciel sereno. Sarà un’esperienza nuova: una produzione operistica ha una complessità imparagonabile a una produzione di prosa. Le prove cominceranno il 7 maggio e il debutto è fissato per il 15 giugno. La direzione musicale è affidata a un’altra donna, Cristina Poska.
Siamo arrivate alla fine. Io vorrei concludere con una frase che Carmelo Bene scrive nel suo Sono apparso alla Madonna: “V’è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento”. Tu hai nostalgia di qualcosa?
Sì, ma non te lo dico (sorride).
Simona Cappuccio
http://ilkim.it/sonia-bergamasco-carmelo-bene-mi-chiese-di-fare-chiarezza/
