Spotify, ma non hai imparato nulla da Facebook? Noi comuni mortali potevamo pensare che in qualche superesclusiva riunione per multimiliardari digitali, tra bottiglie di champagne da decine di migliaia di dollari e concerti privati di qualche popstar planetaria assoldata per l’occasione, Mark Zuckerberg avesse avvertito Daniel Ek, il cofondatore e CEO del colosso della musica in streaming: attento, Daniel, a non inciampare in quel discorso tra editore e semplice distributore di contenuti. Già, perché la linea che Facebook ha tenuto per anni – non siamo responsabili di quello che pubblicano i nostri utenti, siamo una tech company, ci limitiamo a ospitarlo – ha subito colpi sempre più duri negli ultimi tempi, fino a crollare di fronte ai colpi di Alexandria Ocasio-Cortez, la giovane deputata dem americana che nel 2019 proprio su questi temi ha fatto fare una ben magra figura al creatore di Facebook. Se non sei un editore, allora niente Facebook News, niente Facebook Journalism Project e via discorrendo; se invece sei un editore, hai la responsabilità di verificare ciò che compare sulle bacheche dei tuoi utenti spacciato come “notizia”, fake news comprese. Ma davvero, coi suoi numeri e il meccanismo di rilancio di articoli che moltiplica cento e mille volte i lettori tradizionali, Facebook può considerarsi qualcosa di diverso da un editore? Ora nella stessa trappola è caduta pure Spotify, e la sensazione di dejà vu è netta.
Il problema dei podcast
In apparenza, Spotify avrebbe molto meno da temere rispetto a Facebook per quanto riguarda i contenuti. Perché una cosa (seria) è la disinformazione contro i vaccini o la propaganda per pilotare le elezioni americane; un’altra ospitare musicisti che potranno proporre testi controversi, ma in fondo sono artisti e come tali hanno un altro tipo di licenza, oltre a non fornire “notizie” fuorvianti di alcun genere. E in effetti non ci sono mai stati scandali di una certa entità, almeno fino a quando non sono arrivati i podcast. Sempre più seguiti, molti podcast assomigliano assai di più alla versione parlata di un lungo articolo o di un saggio, e qui iniziano i problemi, perché può esserci di tutto. Come Joe Rogan: color commentator americano (la “spalla” del cronista principale) per gli incontri di arti marziali miste e comico, ha creato una dozzina di anni fa il suo podcast, The Joe Rogan Experience, che si è ben presto creato un pubblico appassionato; durante la pandemia, però, ha cominciato a ospitare cospirazionisti e complottisti d’ogni sorta pronti a gettare dubbi sui vaccini e sulle misure anti-Covid, il tutto su Spotify, che dal dicembre 2020 ne detiene l’esclusiva (pagata un centinaio di milioni di dollari).
Young, Mitchell, Crosby contro Rogan
Rogan è un personaggio particolare, un colorito libertarian che difende il diritto a usare droga per scopi ricreativi e il secondo emendamento per le armi e l’autodifesa, preferisce Trump a Biden ma stava per votare per Bernie Sanders, tuona contro la cancel culture ma è è a favore della sanità pubblica anche negli USA. Ma se fino ad ora le sue posizioni non avevano destato particolari preoccupazioni, la disinformazione sul coronavirus ha raggiunto livelli preoccupanti, dallo scetticismo sulle mascherine al consiglio di usare l’ivermectina – antiparassitario per cavalli – come cura per il Covid: finché nientemeno che una delle maggiori rockstar viventi, Neil Young, ha detto a Spotify “o lui o me” e in seguito alla decisione dell’azienda di non interrompere il podcast di Rogan ha rimosso tutto il suo cospicuo catalogo dalla piattaforma, seguito da Joni Mitchell, Nils Lofgren e David Crosby, tutti rispettatissimi giganti. (Merita una menzione il senso dell’autoironia di James Blunt, che in un tweet ha scritto “Se il podcast di Joe Rogan non verrà rimosso, rilascerò del mio nuovo materiale su Spotify”) Una brutta gatta da pelare, che non ha mancato di riflettersi anche sui conti dell’azienda svedese.
Crescita sì, ma la concorrenza ne approfitta
Se infatti anche Spotify continua a crescere, insieme ai podcast e alla musica online (su SOSTariffe.it si possono trovare le migliori offerte di telefonia mobile per i vari servizi di streaming musicale), e i dati dell’ultima trimestrale sono tutt’altro che disprezzabili (406 milioni di utenti attivi, contro i 308 milioni del trimestre precedente), il titolo pochi giorni fa è crollato del 20%, per poi recuperare. Oltre ai ricavi un po’ più bassi di quanto attesto, c’è il fatto che, come Facebook, pure Spotify alla fine possa trovarsi a dover cominciare a controllare i contenuti pubblicati sulla sua piattaforma; situazione che potrebbe dimostrarsi un freno significativo al sempre più appetibile mercato dei podcast, il tutto mentre la concorrenza non accenna a mollare, e, anzi, ne ha approfittato per affondare il colpo. Apple ad esempio è stata rapidissima a pubblicare sui suoi social una carrellata delle copertine del leggendario cantante dicendo che “Apple Music è la casa di Neil Young”, altro tassello della strategia voluta da Cupertino, ormai sempre più chiara, di presentarsi come azienda “etica” dopo anni in cui questo aspetto era stato tralasciato. Ma, si sa, i tempi cambiano, e non siamo più nell’epoca di Steve Jobs: oggi proporsi come azienda “virtuosa” ha i suoi immediati vantaggi, ed è pieno di screenshot di utenti che hanno immortalato l’annullamento della loro iscrizione a Spotify e il passaggio a uno degli altri protagonisti dello streaming mondiale.
Basterà un avvertimento?
Per quanto riguarda Daniel Ek, non ha nascosto la situazione: «Sono stati giorni interessanti, gli ultimi qui a Spotify. Quando nel 2019 siamo entrati nel mercato dei podcast, sapevano che sarebbe stata una sfida che avrebbe messo alla prova il nostro team in modi nuovi, e non c’è dubbio che le ultime settimane hanno portato molte nuove possibilità d’apprendimento». I risultati del trimestre, però, sono antecedenti all’affare Rogan, ed Ek ha detto che è troppo presto per prevedere le ricadute sugli abbonamenti: in passato gli effetti delle controversie (mai però così gravi) si sono misurati sui mesi, non sulle settimane. Per ora, comunque, Spotify correrà ai ripari taggando tutti i podcast che parlano di Covid-19, e con un content warning per mettere in guardia l’utente prima dell’ascolto. Sperando che – come accade sempre più spesso – l’avvertimento non sia solo un modo per lavarsene le mani e tenere buoni gli investitori. “A mettece ‘na scritta, sur cartello, so’ boni tutti”, cantava Corrado Guzzanti.
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