Il potere delle immagini come testimonianza della storia: una guerra civile raccontata attraverso l’exemplum mitico della contesa del tripode. Da una parte Marco Antonio, protetto di Ercole, dall’altra Ottaviano, presunto figlio di Apollo…
Delle tre guerre civili romane, quella che vide opporsi Marco Antonio e Ottaviano fu senza dubbio la più cruenta, quella che registrò il maggior numero di danni e morti. La battaglia per la supremazia della Repubblica tra Ottaviano e Antonio fu combattuta tanto con navi e legioni quanto con parole e immagini. E in quest’ultimo ambito rientrava la scelta dei numi tutelari a cui i due eredi del potere di Cesare si rivolgevano. La scelta di dichiararsi pupilli, figli, protetti o discendenti di una divinità olimpica non era una novità: già tra la fine dell’età classica e per tutta l’età ellenistica numerosi sovrani e capi militari si erano dichiarati discendenti, se non addirittura figli, di dèi dell’Olimpo. La rivendicazione di una discendenza o di una filiazione divina aveva indubbiamente come fine quello di legittimare sacralmente il potere di un singolo individuo o di un’intera dinastia. E anche Ottaviano e Antonio erano consapevoli di questo dettaglio nient’affatto trascurabile: l’uno chiamava dalla sua parte Apollo, il dio dell’arco e delle arti, l’altro invocava invece la forza di Ercole, dio del vigore. Quella che nasceva come una guerra tra due capi militari divenne la sfida tra due dei…
Già le fonti antiche attestano la relazione che collega Marco Antonio all’eroico figlio di Giove: nella “Vita di Antonio” Plutarco afferma infatti che in più occasioni Antonio si era pubblicamente dichiarato discendente diretto di Ercole, più precisamente di Antone, uno dei tanti figli bastardi del semidio. E per enfatizzare tale mitica discendenza, Antonio metteva in risalto tutte le caratteristiche psicofisiche che lo collegavano all’eroe:
“La barba finemente lavorata, il sopracciglio ampio e il naso aquilino gli conferivano un aspetto potente e mascolino che ricordava alla gente i dipinti e le storie di Ercole.”
Anche per possanza fisica, Antonio poteva dirsi discendente di Ercole: proprio come il suo leggendario avo, Antonio vantava una corporatura massiccia e robusta. Non a caso, oggi si suole identificare come un “marcantonio” una persona fisicamente prestante e gagliarda. Ma c’era un dettaglio, inoltre, che accomunava Marco Antonio al semidio greco: Ercole, dopo aver portato a termine le dodici fatiche, dopo una serie di disavventure, si ritrovò in Lidia, dove si innamorò perdutamente di Onfale, la regina di quella terra. Proprio come l’eroe, Antonio, qualche anno dopo la morte di Cesare e all’alba della guerra civile, aveva consegnato il suo cuore a una regina orientale, la sensuale e avvenente Cleopatra. Eppure, la dicotomia Antonio-Ercole e Cleopatra-Onfale funzionava poco, e anzi si prestava a una contro-interpretazione: Ercole, nel mito, divenne schiavo della regina Onfale, che lo costringeva a servirla vestito da donna, mentre lei si faceva beffe di lui giocherellando con la sua clava e con la pelle del leone. In un artificioso e sottile meccanismo propagandistico, Ercole e Onfale fornivano al rivale Ottaviano un modello mitologico in cui identificare il suo nemico Marco Antonio: questi, di statura possente e notevole come il figlio di Giove era stato irretito e domato da una regina straniera, Cleopatra, lussuriosa e subdola come la mitica Onfale. Il mito di Ercole e Onfale si dipingeva così di toni politici, dove la schiavitù e la ridicolizzazione di Ercole erano enfatizzate e rimarcate con insistenza proprio per screditare la sua incarnazione romana, Antonio. In questa interpretazione politica della leggenda erculea, la femminilizzazione di Antonio consisteva nella rinuncia al mos maiorum, alle virtù patrie di Roma in favore dei costumi ellenistici frivoli a cui l’ex luogotenente di Cesare si era avvicinato da quando si era trasferito in Egitto.
Tra le altre identificazioni mitologiche di Antonio, la più celebre è forse quella con Dioniso, che si accompagnava a Cleopatra-Osiride. Ma anche quest’altra identificazione diveniva oggetto di bersaglio da parte del rivale Ottaviano: dai Romani, Dioniso e Osiride erano associati alla luxuria esotica e orientale. Il genere di vita che Antonio conduceva in Oriente con Cleopatra e la sua corte era un esempio di quella corruzione e di quella effeminatezza che stavano portando Roma verso l’abisso.
Sulla nascita di Ottaviano si aggira un alone di mistero e leggenda molto simile a quella di Alessandro Magno. Svetonio racconta che Azia, madre del futuro Augusto, dopo essersi recata a una cerimonia in onore di Apollo, si appisolò nella cella del tempio, mentre le altre donne facevano ritorno a casa. Un serpente, allora, strisciò intorno alle sue membra, per poi andarsene. Quando Azia si risvegliò, si accorse che sul suo corpo era rimasta una macchia a forma di serpente. Nove mesi dopo quell’insolito evento, nacque Ottaviano, che da allora fu considerato figlio di Apollo. La sera prima delle doglie, si dice che Azia sognò che le sue viscere si estendevano fino alle stelle, coprendo tutto lo spazio tra terra e cielo, mentre Gaio Ottavio, padre di Ottaviano, la stessa sera sognò che dal ventre di Azia nasceva un raggio di sole, simbolo di Apollo. La fecondazione di Azia da parte del serpente era una scena così celebre nell’immaginario romano che venne ritratta anche su uno dei registri decorativi del Vaso Portland, ceramica in pasta vitrea del I secolo d.C.
In ogni caso, Ottaviano mostrava una seria devozione verso Apollo (basti pensare che innalzò la propria residenza imperiale a fianco al Tempio di Apollo Palatino) ma non si vantò mai pubblicamente della sua presunta filiazione al dio. Eppure, nella produzione monetale e artistica era ben visibile il rapporto cultuale che legava il dio al futuro princeps: in tutte le effigi di Apollo scolpite durante il principato augusteo, il dio presenta (eccezion fatta per la chioma ricadente a riccioli sulle spalle) i tratti facciali di Augusto. Addirittura, gli scultori adottarono soluzioni iconografiche così precise che gli stessi romani facevano fatica a distinguere il principe dal dio in una statua posta nella biblioteca del tempio di Apollo sul Palatino. In una gemma sardonica della fine del I secolo a.C. inoltre, il profilo ritratto sembra essere una mescolanza dei tratti del dio e quelli del princeps, con i capelli del primo e i tratti facciali del secondo.
Nella tradizione mitologica, Ercole, per aver involontariamente ucciso l’amico e ospite Eurito, cercò l’espiazione a tale colpa presso il Santuario di Delfi. Ma la colpa dell’Anfitrionide (la violazione della xenìa, ovvero dell’ospitalità) era troppo grave, e neanche la Pizia apollinea volle consigliargli un rimedio per ripulirsi dallo spregevole reato, e rimase in silenzio di fronte a ogni domanda del forzuto semidio. Ercole, colto dalla rabbia, rubò il tripode, il seggio da cui la Pizia emanava gli oracoli e, per estensione, simbolo del santuario stesso. Apollo in persona fu costretto a intervenire, e l’episodio della contesa è così importante da essere ritratto in decine e decine di anfore e ceramiche fin dall’epoca dello stile geometrico e da essere immortalato sul frontone del Tesoro dei Sifni, uno degli edifici posti sulla Via Sacra di Delfi che conduceva al santuario di Apollo. Ercole e Apollo si litigarono e si strapparono di mano a vicenda quel tripode finché Zeus, padre di entrambi i litiganti, non intervenne per riportare il tutto alla normalità. La più importante rappresentazione a Roma dell’episodio è una delle cosiddette “Lastre Campana” in terracotta che ornavano il Tempio di Apollo sul Palatino costruito da Ottaviano nel 36 a.C. Nel rilievo, dai contenuti e temi totalmente estranei alla ceramica attica (ma con notevoli precedenti nella statuaria e nella toreutica arcaica) il tripode, posto al centro della scena, divide Apollo (sulla destra armato di arco e con i capelli raccolti a chignon sulla nuca e trattenuti da una fascia) ed Ercole (ritratto sulla sinistra imberbe, armato di clava e vestito solo della pelle del leone). I due sono l’uno di fronte all’altro, si fissano in cagnesco e con grugno carico d’odio: entrambi reggono il tripode per le anse poste all’estremità, e la presa delle mani salda sulle armi e sul tripode sembra sottolineare che nessuno dei due ha intenzione di cedere, ma che anzi è disposto a combattere pur di ottenere quel trono. Se la ceramografia e la letteratura greca sembrano suggerire in più tratti una riappacificazione tra il dio e l’eroe, la Lastra Campana non prevede nient’altro che uno scontro all’ultimo sangue che è in procinto di scoppiare. Anche in questo caso, l’episodio assume una sfumatura politica: lo scontro tra Apollo ed Ercole è infatti la trasposizione mitologica della terza guerra civile romana, quella tra Ottaviano e Marco Antonio. Se infatti Marco Antonio insisteva sulla sua somiglianza fisica con l’eroe greco e su una presunta discendenza che faceva di Ercole un suo antenato, Ottaviano ambiva invece a identificarsi con Apollo. La sfida tra Apollo ed Ercole rappresenta ideologicamente la guerra tra Ottaviano e Antonio, e così come Apollo riottiene il suo tripode (che in questo caso rappresenta Roma) ottenendo di fatto la vittoria, così Ottaviano ha la meglio sul suo nemico Antonio, che come Ercole, violento predone e violatore del tempio, viene sconfitto. In quello che è uno dei tanti sublimi esempi della propaganda augustea, la vittoria di Ottaviano su Antonio sembra già prevista dalla scelta dei due generali delle loro divinità protettrici: a quanto pare, Antonio aveva puntato sul dio sbagliato.
Michele Porcaro
UNA GUERRA CIVILE “DIVINA”: OTTAVIANO/APOLLO VS ANTONIO/ERCOLE