Che cos’è la libertà? come possiamo essere liberi? Riflessione sul pensiero di Fromm e su quello di Bravo Pereira.
Roma – Che cosa è la libertà? Come possiamo essere liberi?
Erich Fromm sottolinea l’aspetto psicologico del concetto di libertà. Nel medioevo l’uomo decide di scindersi dalla collettività, diventa una particella solitaria che Fromm chiama come processo di individuazione. Il rapporto dell’uomo con il prossimo è condito da ostilità e indifferenza, è un rapporto strumentale, la vera libertà sta nell’arricchire se stessi, il cosmo viene percepito con ansietà e impotenza, è come una minaccia inarrestabile: l’uomo deve fuggire, il meccanismo è chiaro. Con lo sviluppo della grande industria che ha assorbito a sé un numero esorbitante di dipendenti, diminuisce drasticamente le possibilità di uno sviluppo dello spirito di iniziativa personale. L’uomo a questo punto si ritrova ad essere un granello di un ingranaggio e a non essere protagonista della propria libertà.
L’uomo deve essere dominato, deve sostituire i legami primari con quelli secondari, deve rifugiarsi nel masochismo per combattere le proprie paure, deve distruggere l’io individuale per rifuggiarsi in un tutto esterno che lo ingloba ma, allo stesso tempo, gli offre una effimera protezione.
Tutto ciò fa esprimere la libertà? Oggi si offre una educazione molto limitata, volta alla soppressione dei sentimenti spontanei in contraddizione con quello che è il vero significato dell’educazione che si occupa della promozione dell’indipendenza interiore, dell’integrità e dell’individualità del bambino; mi sento di dire che per essere veramente liberi, dunque, occorre che nella nostra infanzia ci sia un’educazione volta alla conoscenza e allo sviluppo della nostra personalità al fine di non venir risucchiati nel vortice dell’anonimato e dell’annullamento ,a volte neanche troppo cosciente, della nostra individualità. Un’ altra riflessione che ho trovato utile in Fromm, è il rapporto che si crea tra libertà e istinti. L’esistenza umana comincia quando al di là di un certo punto gli istinti non sono in grado di determinare l’azione; quando l’adattamento alla natura perde il suo carattere coercitivo. Possiamo dire che l’esistenza umana e la libertà sono inseparabili. Il termine libertà viene usato qui non nel senso positivo di «libertà di», ma nel senso negativo di «libertà da», e cioè di libertà dal determinismo istintivo dei suoi atti. La libertà intesa in questo senso è un dono ambiguo. L’uomo nasce senza gli strumenti dell’azione appropriata che possiede l’animale; dipende dai genitori per un periodo di tempo più lungo di quello riscontrabile in qualsiasi animale, e le sue reazioni all’ambiente sono meno pronte e meno efficaci di quanto siano le reazioni istintive automaticamente regolate. Passa attraverso tutti i pericoli e i timori che questa mancanza di meccanismi istintivi comporta. Tuttavia, proprio questa impotenza dell’uomo, è la base da cui inizia lo sviluppo umano: la debolezza biologica dell’uomo è la condizione della civiltà umana.
Nella prima parte del suo libro Una libertà per amare, Bravo Pereira, riprende il tema del rapporto che intercorre tra identità e distinzione. L’identità umana può essere libera se ha in sé la distinzione, concepita come la condizione di un agire libero, che procede dall’essere e che per tale caratteristica ontologica partecipa, in quanto creatura, di Dio.
Il senso cristiano della libertà, per l’autore, si radica nella partecipazione, nella distinzione e nella composizione reale tra l’essenza e l’esistenza: l’espressione agere sequitur esse, ci fa capire che nessuno dei due termini preso per sé, può cancellare l’altro: questo è l’ambito antropologico e ontologico del libero arbitrio, ed è la base da cui partire. Bravo pone l’accento sul fatto che per il credente la libertà sia un cammino per raggiungere Dio, e riconoscere la propria dipendenza da lui; e per il miscredente una scusa per allontanarsi da Dio quale principale nemico della propria libertà.
L’autore Bravo, attraverso l’ausilio del teologo Guardini, ci fa capire come l’uomo non è libero solo dai condizionamenti esterni, dalla “libertà da”; in ciò manca il senso, il perché del proprio essere libero: la “libertà di”. Si può anche essere liberi esteriormente, però nel nostro interno essere schiavi delle passioni, della moda e del giudizio altrui, dunque possiamo giungere a percepire noi stessi come il grande ostacolo dei nostri progetti, come evidenzia l’autore a pag. 26. Come possiamo dunque liberarci dai nostri blocchi?
Dinnanzi a questa palese ambiguità offerta dalla libertà umana, non possiamo far altro che aprirci alla fede cristiana che può assumere il ruolo di buona novella della libertà. Però c’è da dire che molti cristiani scrutano nella fede più che una promozione una vera e propria limitazione della propria libertà.
Per molta gente le norme devono indurre a un continuo dilemma, come spiega Bravo, tra la retta coscienza e il peccato e il cristiano meno saldo si lascia sedurre più dalla seconda opzione giungendo a una apostasia della fede, un soggettivismo morale e religioso che preferisce vivere nell’errore che caricarsi il peso della fedeltà alla coscienza e alla legge di Dio. Come la interpreta l’autore, la libertà è da concepirsi come la capacità di scelta. Esiste la capacità di scelta nota come libertà di esercizio, dove l’accento si colloca sulla volontà, il soggetto che agisce deve essere libero da vincoli, ostacoli e costrizioni per realizzare ciò che vuole fare; e poi esiste la libertà di specificazione che si verifica quando l’accento deve essere posto sull’oggetto che attrae la volontà. Si identifica, così, l’oggetto come il bene conveniente che la ragione presenta alla volontà.
La questione può essere posta in altri termini anche: perché sono libero? Non bisogna rispondere solo attraverso un perché causale (cur) ma anche attraverso un perché finale della libertà. Sono libero, è un dato oggettivo, ma non sono libero di scegliere e basta, indifferentemente dalle conseguenze delle mie scelte. Essere libero non significa essere indifferente. Dunque, per essere interamente quello che devo essere, per ottenere il mio fine ultimo, ma anche per unirmi di certo al bene assoluto, di cui tutti i beni particolari non sono altro che un riflesso piccolo. Beni, che avranno il compito di essere strumenti che dovranno portarci al bene supremo.
L’autore,Bravo, analizza un’altra questione che potrebbe sembrare banale ma che non lo è affatto. Un uomo per definirsi libero deve essere sicuramente padrone dei propri atti; ma prima di essere signore dei suoi atti deve essere signore di sé stesso, come specifica l’autore deve essere compos sui (padrone di sé). L’autodeterminazione deve chiamare per forza l’autodominio. L’atto libero, che è quello che nasce dall’intelligenza e dalla volontà, è l’atto umano per eccellenza; l’autore lo definisce come il comportamento proprio dello spirito incarnato. Riprendendo così il pensiero dell’Aquinate che fa una distinzione tra volontà come natura e volontà come ragione. La prima sposa la semplice volizione del bene; l’uomo non è libero di non volere il bene, non volerlo equivale a negare il proprio modo di essere. Quando l’uomo cerca il male, lo cerca sotto l’apparenza di un bene particolare, cercato in modo disordinato, non secondo i parametri della ratio come rimarca l’autore. La seconda invece consiste nella scelta dei beni particolari, che abbiamo visto prima essere strumenti che conducono al bene assoluto.
Infine in questo tema, Bravo non si esime dall’analizzare la “scelta del male”, tema che funge da cardine. Come detto fino ad ora, nella definizione di libertà non ci può essere spazio per la scelta del male, almeno per quanto riguarda una prospettiva cristiana. Nessuno però può negare che la possibilità del male si celi nell’azione umana, e non possiamo parlare di errore. Perché se si parla di errore il soggetto che agisce sbaglia nel giudicare l’azione conveniente e, dunque, realizzerebbe un atto non corretto.
L’uomo di proposito sperimenta la differenza tra un’azione sbagliata e una cattiva. L’errore può essere frutto solo dell’intelligenza e di una affrettata valutazione di giudizio. Il male nasce dalla volontà invece, nell’atto cattivo l’uomo sceglie deliberatamente il male; dunque non possiamo far altro che notare la differenza qualitativa tra una scelta errata (frutto come abbiamo detto pocanzi di un errore intellettuale) e una scelta malvagia (frutto di una volontà maligna). La prima si può tuttavia risolvere perché si può correggere l’errore e si può tornare su un percorso di verità. L’intelligenza pertanto deve aderire natualmente alla verità, come specifica l’autore a pag. 33. Nella seconda invece il processo è più complicato, non è sufficiente mostrare la crudeltà dell’azione affinchè il soggetto si corregga, ma deve esserci l’adesione della volontà che deve essere corretta.
La domanda che sorge spontanea, è la seguente: perché l’uomo aderisce al male? Perché commette il peccato? L’autore Bravo, in questo libro compie diverse analisi, ma quella che io ritengo essere la più esaustiva, è quella che ci viene svelata dalla Rivelazione: “Gli uomini amarono più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gn 3,19).
Emanuele Cheloni