Un ventennio inutile che si poggia sulla domanda “Cosa hanno ottenuto gli Stati Uniti per due trilioni di dollari in Afghanistan?”. È la sintesi impietosa del New York Times all’annuncio del ritiro delle truppe Usa e Nato dall’Afghanistan, che in tempi in cui la forma conta più della sostanza, si concretizzerà il prossimo 11 settembre, a vent’anni esatti, appunto, dagli attentati alle Twin Towers e l’attacco al Pentagono.
«Questo è un momento importante per la nostra alleanza. Quasi 20 anni fa, dopo che gli Stati Uniti furono attaccati l’11 settembre, insieme andammo in Afghanistan, per occuparci di coloro che ci attaccavano e per assicurarci che l’Afghanistan non diventasse di nuovo un paradiso per i terroristi che potrebbero attaccare chiunque di noi. E insieme, abbiamo raggiunto gli obiettivi che ci eravamo prefissati di raggiungere. E ora è il momento di riportare a casa le nostre forze». È stato questo l’annuncio fatto da Antony Blinken, segretario di Stato Usa, lo scorso 14 aprile al suo arrivo al quartier generale della Nato di Bruxelles, per la riunione in videoconferenza dei ministri degli esteri e della difesa dei Paesi del patto atlantico. Un ritiro coordinato, dunque, nonostante un rapporto classificato dell’Intelligence Usa avesse già avvalorato, diverse settimane fa, che in caso di ritiro delle truppe occidentali gli integralisti riprenderebbero subito il potere.
La decisione del presidente Usa Joe Biden di ritirare le truppe l’11 settembre infrange ciò che era già stato stabilito dall’amministrazione di Donald Trump che, nell’accordo di pace raggiunto a Doha lo scorso anno con i talebani, indicava come data il primo maggio prossimo, per il ritiro completo delle truppe.
Dall’inizio del conflitto, gli Usa hanno schierato quasi 800 mila soldati. Secondo il NYT, il ventennio in Afghanistan è costato oltre due trilioni di dollari così ripartiti: 1,5 mila miliardi in spese di guerra (di cui il 60% in addestramento, carburante, veicoli blindati, strutture); 10 miliardi di dollari in antidroga; 87 miliardi nell’addestramento delle forze armate e di polizia afghane; 24 miliardi per lo sviluppo economico; 30 miliardi su altri programmi di ricostruzione; 500 miliardi in interessi. A queste cifre si aggiungono centinaia di miliardi di dollari da destinare all’assistenza medica e alla disabilità dei veterani da qui ai prossimi decenni. Per non parlare poi, delle perdite maggiori: 2488 soldati delle forze armate americane hanno perso la vita sul campo di battaglia.
«È ora di porre fine alla più lunga guerra americana. Non possiamo continuare il ciclo di estensione o espansione della nostra presenza militare in Afghanistan sperando di creare le condizioni ideali per il nostro ritiro, aspettandoci un risultato diverso», ha affermato Biden in un messaggio che dalla Casa Bianca ha dato alla nazione, e in cui ha ricordato anche il figlio Beau scomparso 6 anni fa per una malattia, che aveva prestato servizio in Iraq. «Sono il quarto presidente americano a presiedere una presenza di truppe americane in Afghanistan – ha aggiunto Biden –: due repubblicani, due democratici. Non passerò questa responsabilità a un quinto».
E sull’Afghanistan il democratico ha sempre avuto le idee molto chiare fin dai tempi dei 2 mandati alla vice presidenza dell’amministrazione di Barack Obama. La sua posizione e quella dell’allora presidente erano diametralmente opposte: Biden non appoggiava la scelta di Obama di aumentare il contingente militare in Afghanistan, come chiesto dai generali nel 2009. Nel libro “Una terra promessa”, Obama dedica molte pagine a questo tema e racconta che il generale Stanley McCrystal, capo delle truppe in Afghanistan, “alzava gli occhi al cielo ogni volta che Biden cominciava a spiegargli cosa bisognava fare per portare a termine un’operazione antiterrorismo”. All’epoca Biden era convinto che la missione degli Stati Uniti fosse combattere contro al Qaeda, non “salvare” l’Afghanistan.
E ancora. Su “France Inter”, una delle più importanti radio pubbliche francesi, è stata rievocata una memorabile lite tra il diplomatico statunitense Richard Holbrooke, inviato di Obama in Afghanistan, e l’allora vice presidente Biden, che disse: “Non voglio che mio figlio rischi la vita in nome dei diritti delle donne. Non è così che funziona. I soldati non sono lì per questo”. Verrebbe da chiedersi, allora, quale democrazia hanno esportato in questi due decenni i paladini del cosiddetto “mondo libero”.
Da un’intervista rilasciata ad Agensir, l’agenzia del servizio informazione religiosa nata nel 1988 su iniziativa della Federazione italiana settimanali cattolici con il sostegno della Conferenza episcopale italiana (CEI), è arrivata la testimonianza di padre Giovanni Scalese, sacerdote barnabita, responsabile della Missio sui iuris in Afghanistan, istituita nel 2002 da Giovanni Paolo II.
Padre Scalese, che vive a Kabul, si chiede se il governo afghano sarà in grado di garantire la sicurezza ai suoi cittadini.
«È lecito nutrire qualche dubbio in proposito – ha dichiarato ad Agensir –. Così come è più che legittimo avanzare qualche perplessità sulla reale capacità del governo di far funzionare la macchina dello Stato senza poter contare sul sostegno finanziario dei Paesi occidentali. È vero che tutti giurano ora che non abbandoneranno l’Afghanistan e continueranno a sostenerlo; ma un conto sono gli interventi della cooperazione, un altro il regolare sovvenzionamento delle istituzioni. Non mi pare che in questi anni sia stato fatto molto per il rilancio dell’economia afghana, anche perché la situazione non lo permetteva; per cui non so come un Paese senza un’economia che funzioni possa andare avanti».
Il rischio insomma è che la guerra civile torni ad insanguinare ferocemente l’Afghanistan: «Finora le trattative fra il governo e i talebani non sono mai iniziate seriamente o comunque non hanno portato ad alcun risultato – ha aggiunto padre Scalese –. Il progetto era quello di formare un governo di transizione, di unità nazionale, per poi giungere a libere elezioni che avrebbero deciso chi dovesse governare. Ma se le parti non si parlano, come si può formare insieme un governo? Molto più facile far parlare le armi…».
Come detto, la decisione di Biden di ritirare le truppe ha suscitato reazioni forti anche in casa. E alle critiche del New York Times si sono aggiunte quelle di “The Atlantic” che in un pezzo a firma di Eliot Cohen ha evidenziato che “non ci sarà condivisione del potere, nessuna riconciliazione, nessuna pace dei coraggiosi”. E l’attacco del suo pezzo la dice tutta: “Per aspetti importanti della politica estera e di sicurezza nazionale, l’amministrazione Biden è in realtà l’amministrazione Trump, ma con modi civili”.
«La guerra continuerà, con il vantaggio che andrà ai brutali guerrieri fondamentalisti dei talebani, che tortureranno e massacreranno proprio perché abrogano i progressi compiuti nell’istruzione femminile e nel secolarismo in qualsiasi forma – scrive Eliot Cohen, che presiede la Scuola di studi internazionali avanzati della Johns Hopkins University, che ha sede a Washington –. Ma non avranno tutto a modo loro. Russia, Cina, Iran, Pakistan, India e le repubbliche dell’Asia centrale hanno i loro interessi in questa guerra, e non tutti vogliono vedere una vittoria definitiva dei talebani. Quindi finanzieranno clienti e delegati, così come, con ogni probabilità, gli Stati Uniti. E il popolo afghano continuerà a soffrire… L’Afghanistan rimarrà la cabina di pilotaggio delle rivalità delle grandi potenze, nonché la sede di un fondamentalismo islamico tossico e impenitente che in precedenza proteggeva al-Qaeda, un movimento che non è morto, e che potrebbe persino trarre energia da questo risultato. Gli Stati Uniti potranno prendere posizione nel conflitto, un lusso che ora non hanno. Per decenni è stato oggetto di minacce pakistane implicite ed esplicite per soffocare le linee di rifornimento che corrono alle forze americane in Afghanistan. Una volta che il ritiro avrà eliminato il controllo del Pakistan sulla sua logistica, gli Stati Uniti possono e devono sostenere più liberamente gli sforzi dell’India per proteggere i propri interessi in Afghanistan. Gli Stati Uniti possono allo stesso modo mettere i russi contro i cinesi, che non vogliono necessariamente le stesse cose lì».
Illuminate poi questo passaggio di Cohen: «Ma la libertà strategica andrà a scapito della reputazione strategica. Non è possibile semplicemente abbandonare una guerra in cui si è stati e non pagare alcuna penalità, anche se la pena è inferiore al costo di continuare a combattere. Forse non è del tutto casuale che la grande potenza che meglio conosce l’Afghanistan per propria esperienza, ovvero la Russia, stia ora mettendo alla prova la determinazione dell’Occidente mobilitando le forze sulla frontiera ucraina. Il prezzo di un’uscita afghana, in altre parole, potrebbe essere la necessità di mostrare determinazione militare in altri punti caldi dell’Europa orientale o dell’Estremo Oriente».
Insomma, via da un fronte di guerra per entrare in un altro.
La stampa a stelle e strisce, tuttavia, non si è schierata in modo compatto contro il suo presidente. Su “The New Yorker”, la scrittrice Susan Glasser ha ricordato proprio quella memorabile lite del 2009, citata nel libro di Obama, quando Biden aveva provato inutilmente a convincerlo a ritirarsi.
«Nel 2009, ha scritto a mano un promemoria e lo ha inviato via fax ad Obama, esortandolo a rifiutarsi di accettare la proposta dei militari di spedire una grande ondata di truppe aggiuntive in quello che Biden già considerava un vicolo cieco – ha scritto Glasser –. Biden ha perso questa discussione ma non ha mai ceduto il punto, e gli anni successivi gli hanno dato ragione sul sanguinoso stallo che ne è derivato: un governo afghano sostenuto dagli Stati Uniti, ma mai abbastanza forte da sconfiggere un talebano in ripresa o negoziare un accordo di pace praticabile. Molti esperti a Washington hanno giudicato l’impasse militare come un commercio sfortunato ma accettabile, date le alternative sgradevoli».
E il 14 aprile scorso, Biden ha detto di essere arrivato a quelle stesse conclusioni di 12 anni prima: «La missione degli Stati Uniti, come si è evoluta nel tempo, era destinata al fallimento, perché la forza militare americana senza fine non poteva creare o sostenere un governo afghano durevole… Il mondo del 2021 – scrive ancora Glasser – non è semplicemente il mondo del 2001. L’elenco delle preoccupazioni più urgenti parte da una Cina aggressiva e si estende a Russia, Iran, Corea del Nord, agli attacchi informatici, al cambiamento climatico, alle pandemie globali, alle crisi finanziarie, al crescente autoritarismo, ai gruppi terroristici internazionali e agli estremisti violenti interni», come si è tragicamente visto lo scorso 6 gennaio, prima dell’insediamento del presidente eletto, con l’assalto a Capitol Hill.
Il mondo insomma è cambiato e l’Afghanistan non è più tra le priorità americane. La pandemia da Covid-19 ha ucciso quasi 600 mila studenti americani, molto più di quante sono state le vittime americane nella guerra in Afghanistan.
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