Nei giorni scorsi un ransomware ha messo in difficoltà l’apparato giudiziario cileno, rianimando il dibattito sui pericoli legati al mondo dell’e-justice. Per il Paese sudamericano si tratta del secondo episodio di questo tipo in pochi giorni: già qualche settimana fa un comunicato ufficiale affermava che un virus di tipo Cryptolocker avesse colpito diversi dispositivi istituzionali, specificando però che sarebbero stati coinvolti solo i computer dotati di sistema operativo Windows7 e antivirus McAfee. Nel mese di agosto un caso pressoché identico si sarebbe verificato nella vicina Argentina.
Questa volta, riporta il quotidiano nazionale La Tercera, l’attacco mirato al Poder Judicial – ente apicale per l’amministrazione della giustizia in Cile – ha bloccato il sistema di gestione della programmazione delle udienze, mandando in tilt diversi Tribunali e costringendo i giudici a utilizzare i propri smartphone personali per le incombenze burocratiche. Rispetto al caso precedente sarebbero stati coinvolti più pc, compresi quelli operanti su Windows10 e con antivirus targato Kaspersky.
Ulteriori prove di come, insieme ad allettanti prospettive di snellimento e semplificazione, l’informatizzazione dei servizi giudiziari porti con sé notevoli rischi. Innanzitutto rispetto all’esposizione di dati sensibili dei soggetti coinvolti nei procedimenti, ma anche alla possibilità di manipolarne i tempi e perfino gli esiti; specie alla luce della cosiddetta giustizia predittiva, che prevede l’impiego dell’Intelligenza Artificiale per orientare le decisioni processuali tramite un calcolo di tipo probabilistico (e che già mostra seri limiti quanto alla possibilità di commettere errori o discriminazioni).
Se l’applicazione della trasformazione digitale al campo della giustizia apre scenari interessanti e dall’enorme potenziale, la cronaca odierna mostra come sia necessaria la massima cautela per evitare eccessivi “tecnoentusiasmi” in un’area che può incidere profondamente sui diritti e sulla stessa libertà delle persone.
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